home page archivio documenti album multimediale biblioteca links scrivici
  
La morte di Aldo Moro

I recenti risultati tecnici e balistici compiuti dai carabinieri del RIS su veicoli e reperti della sparatoria avvenuta a Roma in via Fani il 16 maggio del 1978, con il sequestro di Moro e l'uccisione dei cinque agenti della sua scorta, ci consentono una più attenta ricostruzione degli ultimi istanti di vita dello statista democristiano, ed il tentativo di eliminare le incongruenze della ricostruzione ufficiale della sua esecuzione.


LA MORTE DI ALDO MORO
Tratto dal testo "Il segreto di Moro" di Giovanni Corrao


Il presidente Moro si tolse la canadese che i brigatisti gli avevano messo a disposizione per indossare nuovamente i suoi abiti. Mentre rifaceva il nodo alla cravatta si rese conto dello sforzo da lui messo in atto per mantenere la calma. Tentava di concentrarsi per cogliere ogni più piccolo rumore proveniente dalla porticina. La piccola cella insonorizzata nella quale si trovava dava in quegli istanti la sensazione di una navicella spaziale sospesa nel vuoto.
     Quando quella mattina del 9 maggio 1978 fu di nuovo nel vestito indossato il giorno dell’insediamento del IV Governo Andreotti, cinquantacinque giorni prima, ebbe un fremito capace di condurlo col pensiero ai momenti dell’assalto brigatista di via Mario Fani. I ricordi erano confusi, ma la sensazione di panico provata in quegli istanti drammatici era rimasta scolpita dentro di lui. Il vestito, in soli due mesi scarsi, ora gli stava più largo; e per distrarsi si sforzava di seguire la trama del tessuto. Assalito dallo sconforto non riusciva a provare odio per nessuno: né per i ragazzi della rivoluzione armata, che sbagliavano, tantomeno per quei politici che lo avevano abbandonato senza muovere un dito per la sua liberazione. Sullo sfondo si agitava la visione dei suoi affetti familiari, mentre sentiva un sottile senso di colpa nei loro confronti.
Il segreto di Moro      La tensione e la paura si materializzarono sotto forma di sudori freddi pronti a colargli lungo la testa, per impregnare il colletto della camicia, fino a farlo sentire bagnato ed appiccicoso. Tra quei pensieri un rumore improvviso si concretizzò con l’apertura della porticina di ingresso alla piccola cella; comparvero, uno dietro l’altro, Mario Moretti con dei fogli in mano e Prospero Gallinari armato di un piccolo mitra, entrambi a volto scoperto questa volta. Il cuore di Moro ebbe un lungo sussulto prima di riprendere a battere, ma a ritmo sostenuto. Erano all’incirca le 6:00 del mattino.
     Moretti non aggiunse tempo inutile alla macabra cerimonia e, dispiegati i fogli che aveva in mano, guardò fisso negli occhi il presidente: «prigioniero Aldo Moro, in piedi per cortesia». Poi è da presumere che lesse un proclama di condanna a morte in nome del proletariato.
     Una cappa di gelo calò improvvisa. La barba incolta di Aldo Moro nascose il pallore del suo volto. Gli sguardi si incrociarono, freddi, da una parte all’altra. Lo scatto della sicura tolta alla mitraglietta Skorpion violò quel momentaneo silenzio irreale. Gallinari si voltò di lato in attesa di ordini da parte del capo, Mario Moretti, il quale invece si rivolse al prigioniero: «presidente, Le è consentito un ultimo desiderio». In quei pochi attimi Moro rivide, come ad una moviola superveloce, il film della sua vita. L’indimenticabile matrimonio con la sua Noretta, la nascita dei suoi figli, l’ingresso tra coloro che possono, la cattedra da professore universitario, il primo Governo del paese da lui presieduto, il suo adorato nipote Luca…
     «Da parte vostra desidererei non fosse fatto altro male ai miei cari: sarà sufficiente per loro il mio martirio. Restituite il mio corpo, se possibile…». Mentre Moro pronunciava sommessamente quelle frasi, abbassò lo sguardo, per nascondere il terrore ormai evidente nei suoi occhi. «Sarà sicuramente accontentato: anzi restituiremo alla sua famiglia anche i suoi oggetti personali», riuscì a rispondere il capo della Colonna Br romana, visibilmente teso.
     Poi Moro, rialzando gli occhi nell’ultimo disperato tentativo di allungare la sua esistenza terrena, aggiunse: «mi è concesso da lor signori fumare un’ultima sigaretta?». Il fumo che saturò quel minuscolo locale consigliò al morituro di chiudere gli occhi, per assaporare meglio. Moretti e Gallinari, istintivamente, tirarono un respiro di sollievo per dover compiere l’esecuzione vedendo solo una sagoma sfuocata circondata da un alone rosso sullo sfondo, dalla quale risaltavano due occhi privi di odio. In quei pochi minuti la nicotina invase il corpo di Moro regalandogli un piacere insospettabile.
     Moretti tentava di mascherare la tensione, chiedendo sostegno alla fede comunista. Fortunatamente il fido Prospero si era offerto di fare da plotone d’esecuzione altrimenti, si disse, non sarebbe stato in grado di sparare a freddo ad una persona con la quale, tra l’altro, aveva instaurato una relazione di stima durante quei cinquantacinque giorni. Improvvisamente dette l’ordine: «pronto… puntare… fuoco…».
     Moro non era bendato. Per proteggersi protese prontamente in avanti le mani, col palmo rivolto verso i due brigatisti, in un ultimo istintivo cenno di difesa, come a fermare le pallottole fuoriuscite dal silenziato crepitare dell’arma. Due brevi raffiche furono ritenute sufficienti. Il cuore non venne attinto. Nessun rumore oltrepassò l’insonorizzazione della cella fatta con meticolosa cura da Germano Maccari. All’interno del muro, alle spalle del drappo rosso con la stella a cinque punte inneggiante alle Br, non sono rimaste tracce degli otto proiettili sparati in quanto tutti ritenuti dal corpo morente del condannato.
Il segreto di Moro      Mentre Moretti tamponava le ferite sul corpo agonizzante del presidente della Dc con dei fazzolettini di carta marca Paloma posti tra il gilet e la camicia, gli stessi che usava in via Gradoli, Gallinari raccoglieva i bossoli del mitra caduti nella cella. Poi insieme si preoccuparono di trascinare il corpo fuori dalla lugubre prigione per adagiarlo nella camera arredata a studiolo, mentre Laura Braghetti e Germano Maccari, non autorizzati a venire in contatto con il prigioniero per via della "compartimentazione", stavano cercando di far trascorrere quei momenti di intenso dramma rinchiusi nella cucina.
     Sistemarono il morente nella cesta di vimini, dentro la quale stonava l’incerata di colore arancione. Prima di chiudere Gallinari gettò i bossoli recuperati nella cella sul corpo del politico; poi, chiuso il coperchio, andò a chiamare Germano Maccari e Laura Braghetti, con quest’ultima disposta a fungere da vedetta lungo le scale durante il trasporto del corpo nel garage sottostante, dove la sera prima era stata sistemata una Renault 4 di colore bordeaux.
     Lauretta aprì con cautela la porta d’ingresso dell’appartamento controllando se le scale fino al garage fossero sgombre; con un cenno trasmise il via libera ai suoi compagni, Moretti e Maccari, mentre Gallinari, come prescritto, da latitante restava nell’appartamento. Uscendo dalla porta si fermarono per un attimo ad ascoltare il silenzio tranquillizzante. Poi, un po’ sollevando la cesta un po’ trascinandola nel ruotare sui pianerottoli, percorsero verso il basso le rampe di scale che conducevano al garage. In discesa per Maccari e Moretti il peso della cesta era relativamente sopportabile. Non poterono fare a meno di ricordare la fatica provata invece nel salire, il 16 marzo, quando Moro era stato da poco prelevato e costretto in una pesante cassa di legno.
     Erano ormai le 6:30 del mattino. Laura Braghetti fu la prima a giungere nel piano interrato del garage. I due brigatisti entrarono con il pesante fardello attraverso la porta basculante del ridotto box, un locale angusto, tanto che la serranda dovette rimanere leggermente sollevata per mantenere aperto il cofano posteriore dell’auto. Mentre Laura rimaneva fuori dal box, per controllare eventuali arrivi, Moretti si dette subito da fare per sistemare il corpo di Moro nel ridotto bagagliaio della Renault 4, posizionandosi anche all’interno dell’auto, appoggiandosi qua e là, lasciando tracce ematiche all’interno della vettura; mentre Maccari, restò a far da guardia, di lato in avanti, non potendo venire a contatto con Moro. Durante il caricamento del corpo alcuni rigoli di sangue riuscirono a scavalcare i bordi dell’incerata protettiva adagiata all’interno della cesta, sporcando il cofano dell’auto ed il paraurti posteriore. Il corpo fu successivamente avvolto in una coperta, la quale, una volta risvoltata, avrebbe nascosto il cadavere alla vista.
     Dopo aver ben rannicchiato il corpo di Moro, Moretti lanciò alla rinfusa nell’auto gli otto bossoli dei colpi sparati nella cella, con due di essi che forse riuscirono a saltellare fuori dalla vettura. Intanto Maccari, secondo le istruzioni ricevute, era posizionato da parte, armato col mitra Skorpion cedutogli da Gallinari. La complessa operazione di posizionamento del corpo comprese anche l’azione di depistaggio tramite la stesa di un velo di sabbia sulla giacca e sul calzino più in evidenza, quello della gamba sinistra, secondo la posizione in cui era stato sistemato il corpo.
     Mentre Moretti era intento ad eseguire quelle ultime azioni preordinate, ripiegando anche il paletot per appoggiarlo sulle gambe del presidente, si levò dal cofano, inatteso, un gemito roco. Un brivido percorse il brigatista, gelatosi di colpo: Moro non era ancora morto. Fu solo un attimo. Moretti sfilò dal fianco la pistola in dotazione per finirlo, una Walther Ppk/S, e sparò, istintivamente. Un boato rintronò in quel piccolo box mentre il proiettile calibro 9 corto attraversava il corpo di Moro e la giacca sul retro, e si arrendeva solo alla resistenza del fondo metallico del cofano, accartocciandosi su se stesso. Moretti si rese conto di aver fatto un’azione sconsiderata, tale da poter richiamare l’attenzione di persone estranee: e restò alcuni secondi impietrito, cercando di cogliere ogni più piccolo segno di presenza indesiderata.
     Trascorsi dei lunghi interminabili attimi di tensione, si girò verso Maccari, improvvisamente sbiancato e tremante, per farsi passare la mitraglietta Skorpion affidatagli da Gallinari. Appoggiò la punta dell'arma sul gilet, premendo. Il rumore silenziato di altri tre colpi singoli mise definitivamente fine alla seconda tragica esecuzione: con i proiettili capaci, questa volta, di attraversare la struttura corporea e rimanere sul retro tra la maglia intima e la camicia. Le prime 8 pallottole all’indirizzo di Moro, sparate da Gallinari nel vano prigione, uscite dalla mitraglietta Skorpion calibro 7,65 con una inclinazione dal basso verso l'alto, furono ritenute in quanto esplose lontano dal corpo. Quelle sparate a bruciapelo all’interno del cofano, una con una pistola Walther Ppk/S cal. 9 corto, tre con la medesima mitraglietta, riuscirono a fuoriuscire dal corpo.
     Mentre Prospero Gallinari restava nel covo come da disposizioni da parte della Direzione strategica delle Br, in quanto evaso, e dunque noto e ricercato, intorno alle 9:00 del mattino Mario Moretti si mise alla guida della Renault R4 con a fianco Germano Maccari. Uscirono disinvoltamente dal garage della palazzina di via Montalcini col loro carico di morte nel cofano avvolto in una coperta, per scomparire anonimamente, immersi nel fiume di macchine mattiniero capace di intasare le strade di Roma. Terminarono il viaggio in via Caetani.



Il commento

- Che siano state le Brigate rosse ad uccidere lo sfortunato uomo politico non ci dovrebbero essere dubbi. Il 30 aprile di quell'anno Mario Moretti, il capo delle Br romane in persona, telefonò alla famiglia Moro per chiedere «un intervento diretto, immediato e chiarificatore di Zaccagnini», all'epoca segretario nazionale della Democrazia cristiana. Ed a comunicare l'avvenuta morte del sequestrato il 9 maggio successivo fu il "postino" brigatista Valerio Morucci.
- Il medico legale, in prima battuta, avrebbe sostenuto che Moro non fosse morto subito, ma che sia trascorso del tempo tra una prima serie di colpi e la seconda, entrambi con traiettorie intorno al cuore.
Il segreto di Moro - Non è mai stata data una spiegazione plausibile su come il pollice sinistro di Moro fosse stato "attinto da sotto" da un proiettile. Impronte di silenziatore impresse sul gilet, intorno al foro di entrata di alcuni proiettili, verosimilmente relative al posizionamento dell'arma col corpo già nel cofano, mal si conciliano con traiettorie in grado di colpire una mano.
- Probabilmente, per via della "compartimentazione" tra brigatisti, che impediva di sapere, il quarto carceriere ing. Altobelli alias Germano Maccari, non aveva assistito al "processo" contro il presidente avvenuto nella cella, né alla sua prima "esecuzione".
- La ricostruzione storica non torna. Viene infatti difficile immaginare Moro, condotto da vivo in una cesta fino al garage, poi fatto sedere sul bordo posteriore della vettura senza spazio disponibile (Cucchiarelli sostiene dentro la vettura) per essere bersagliato da due armi diverse, indi stipato a forza dentro il ridotto bagagliaio della Renault 4.
- I primi otto colpi al suo indirizzo, ritenuti dal corpo, sembrerebbero essere stati quelli di un mitra silenziato: come mai Maccari, al contrario, affermò che ad iniziare a sparare fu una pistola, e successivamente, per un presunto inceppamento, il mitra? Questo avvenne in quanto la descrizione dell'uccisione di Moro, fatta in tribunale da Maccari, seppur sincera, era falsata dalla sua convinzione di aver condotto l'ostaggio "vivo" dall'appartamento al garage di via Montalcini. Invece nella cesta di vimini da lui trasportata insieme a Moretti lungo le scale vi era probabilmente Moro già agonizzante.
- A far ipotizzare la prima uccisione di Moro nella prigione dell'appartamento al primo piano, è stato il particolare dei fazzolettini di carta, posti sul corpo di Moro solo sul davanti "tra la camicia ed il gilet", dopo le prime raffiche di mitra di otto colpi che infatti non avevano oltrepassato il corpo. Il suo cadavere fu successivamente adagiato nella Renault 4, dove tamponare le ferite non avrebbe avuto alcun senso col corpo in quella posizione ormai definitiva, trapassato da ulteriori proiettili fuoriusciti sul retro. Invece lo aveva se il cadavere doveva essere spostato dalla prigione e collocato nella cesta di vimini, per essere trasportato lungo le scale.
- Vale la pena ricordare che le armi personali dei brigatisti non erano silenziate.
- Diventa naturale sostenere che la "prima morte" del rapito sia avvenuta all'alba dentro la minuscola cella insonorizzata, con un mitra silenziato. Lì, con l’arma a livello di basso busto, Gallinari probabilmente scaricò due piccole raffiche, molto precise, da una ottantina di centimetri di distanza da Moro, colpendolo intorno al cuore otto volte. Quando fu accusato nei vari processi di essere stato lui l’assassino di Moro, non ha mai negato. I successivi quattro colpi, furono esplosi da Moretti nel garage.
- Per i pentiti Peci e Savasta, «fu Moretti che diede l’ordine a Gallinari di uccidere l’esponente politico». Questo spiegherebbe come abbia fatto il condannato a morte, per proteggersi, a sapere quando alzare istintivamente le mani, e come abbia fatto uno dei propiettili a colpire il pollice "dal di sotto".
- Tornano nitide le parole di Barbara Balzerani tratte dal suo libro "Compagna Luna" a pag. 32, ed. Feltrinelli: «una sorte benigna mi ha risparmiato quanto altri compagni hanno dovuto compiere. Quegli stessi che avevano avuto con il prigioniero una frequentazione personale per tanto tempo». Siccome, per quanto se ne sa, i due soli brigatisti autorizzati ad entrare nella minuscola cella erano Prospero Gallinari e Mario Moretti, Barbara Balzerani addossa chiaramente la responsabilità dell’omicidio a quei due compagni. Moro probabilmente fu ferito inizialmente da Gallinari nella cella, per essere finito, rantolante, da Moretti nel garage. Se così fosse stato, i conti tornerebbero tutti.

di Giovanni Corrao - 09/05/2021



Edere repubblicane - Copyright © 2021 WebMaster: Giovanni Corrao