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Giangiorgio Saba, così come lo chiamavano gli amici, è scomparso pochi giorni fa: lo ha annunciato “con profonda tristezza” un necrologio sull’Unione Sarda. L’amico mazziniano, proveniente da una famiglia di storici repubblicani sassaresi, e lui stesso rappresentante di quel filone storico democratico a cavallo del secondo dopoguerra, si è spento a Cagliari, all’età di ottantotto anni. Giovanni Giorgio Saba, avvocato, era nato a Sassari il 5 gennaio del 1930, in pieno periodo fascista. In vita fece una brillante carriera, vincendo un concorso all’Inps sarda, diventandone apprezzato Presidente regionale. I principi ispiratori democratici e di libertà di suo padre Michele, importante avvocato del foro di Sassari, antifascista integerrimo della prima ora e repubblicano convinto, erano decisamente controcorrente per l’epoca, e riuscirono a contagiare sia lo stesso Giangiorgio, che i suoi due fratelli, Alberto Mario, e Giuseppe Maria (Peppinello). A parte Giuseppe, che diventò medico, i Saba di Sassari furono famiglia di avvocati: uomini di legge di un tempo, che sapevano come unire alla serietà professionale, il culto dell’onestà, ed il senso più puro della convivenza civile e sociale, nel rispetto dei diritti politici personali. Proprio dalla bocca di Giangiorgio si sono venuti a conoscere alcuni aspetti storici e politici che riguardarono la sua famiglia ed i suoi personali convincimenti, così come di seguito illustrati. Da un punto di vista storico, le venature democratiche e repubblicane che si riverberarono nella Sassari del nord Sardegna, anche tramite la famiglia Saba, fanno pensare a provenienze francesi della seconda ora, quelle che, all’indomani della Rivoluzione del 1789, con la “Repubblica giacobina” si ispirarono alle idee di libertà e democrazia, impregnate da inclinazioni rivoluzionarie. Tali nuove idee, innovative per l’epoca, giunsero verosimilmente nel nord dell’isola sarda portate da alcune famiglie francesi, prima fuggite in Corsica per scampare dalla ghigliottina, poi, prudenzialmente, trasferitesi al di qua delle Bocche di Bonifacio. Tale impostazione di provenienza rivoluzionaria, ma di idealità libertaria, tesa all’uguaglianza degli individui in una forma di governo non monarchica, ben si coordinava con lo storico senso sardista di autonomia e federalismo, legando inoltre con il malcontento delle popolazioni isolane che dovevano fare i conti con una monarchia all’epoca apparsa distratta rispetto alle esigenze degli abitanti autoctoni sardi. All’inizio del secolo scorso, si ha notizia della creazione di una sezione del Pri a Sassari nel 1911, di orientamento progressista, ma poco attiva sul piano politico-propagandistico (1). Tanto che due anni dopo si ebbe una scissione; da una parte si ritrovarono i filoradicali che formarono una nuova sezione di orientamento radicale, mentre i giovani, tra cui appunto Michele Saba, si sganciarono ricostituendo la sezione sassarese del Partito repubblicano italiano. Il primo conflitto mondiale, iniziato nel 1914, distrasse dalla politica, tanto che si dovette attendere la fine della grande guerra per riprendere le attività, che si protrassero fino all’avvento del fascismo, nel 1921. Il Pri nell’isola, sovente in accoppiata col Partito sardo d’azione, a partire dall’estate del 1922 partecipò alle manifestazioni di opposizione al regime fascista (2). Ma dal 1923 in poi, le attività politiche, ormai fuorilegge, procedettero solo nelle riunioni clandestine. Dopo alcuni articoli pubblicati su “La voce repubblicana” dal corrispondente da Cagliari Cesare Pintus, ed altri attribuibili a Michele Saba, quest’ultimo crea il giornale “Sardegna Libera”. Nonostante le cautele che gli uomini politici sardi ponevano in atto per non farsi scoprire dalla polizia segreta fascista, (la Ovra), nel novembre del 1930 Michele Saba venne arrestato. Il tono della voce di Giangiorgio, quando parlava dell’arresto del padre, ricordava tutto il timore trasmessogli successivamente dalla madre, tesa e preoccupata per le sorti del marito. Ricordava ancora, Giangiorgio, che la famiglia, che all’epoca abitava a Sassari in via Cavour 19, era sempre attenta ad ascoltare i notiziari della radio, per avere notizie del congiunto, che intanto era stato trasferito nel carcere romano di Regina coeli (3). Dai ricordi di Giangiorgio Saba, sapremo che il padre Michele, quella prima volta, restò in carcere circa per quattro mesi, per poi essere nuovamente arrestato il 20 maggio del 1935, quando lui aveva appena cinque anni, per via di alcuni assegni a lui girati, per i quali l’Ovra ipotizzava finanziamenti per attività illecita contro il regime fascista. Tuttavia in qualche modo il Saba padre riuscì a giustificare quei soldi, quali proventi professionali, tanto da essere scarcerato circa un mese dopo. Giangiorgio non seppe sottrarsi neanche alla contagiosa capacità del padre di scrivere e fare giornalismo, tanto che fu per molti anni corrispondente per la Sardegna di importanti testate, quale “La nuova Sardegna”. Il suo salone di casa era sempre pieno di ritagli di giornale, riviste, quotidiani, metodicamente catalogati, a dimostrazione della passione per la lettura e la scrittura, che facevano di lui un uomo colto e preparato. Nella sua vita vi era stato un altro episodio familiare che aveva lasciato traccia in lui, con riferimento a suo fratello Albero Mario, anche lui insigne uomo politico e democratico, di scuola repubblicana. Era una di quelle vicende che si inserivano nel contesto delinquenziale che per molti anni aveva danneggiato l’immagine dell’isola: il rapimento di Alberto Mario a scopo di estorsione. Giangiorgio, nel parlarne, sembrava trasmettere intatte le sensazioni che avevano ritmato quell’increscioso episodio. Soprattutto perché, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la sua non era una famiglia ricca. Capitò infatti che l’avv. Alberto Mario Saba, in un certo momento della sua vita professionale, facesse da tramite per una compravendita di alcuni terreni, assumendo il ruolo di garante, grazie alle sue proverbiali doti di serietà ed onestà, che gli facevano da alone. Non si seppe mai come accadde, ma dei banditi vennero a sapere, al momento opportuno, che una ingente somma era stata depositata sul suo conto corrente bancario, proprio in virtù di quella transazione. Quei delinquenti entrarono in azione e rapirono Alberto Mario Saba, chiedendo come riscatto proprio la somma che in quel momento, in forma del tutto casuale, era depositata in banca a nome suo. Giangiorgio narrava con tristezza quell’episodio, che aveva intaccato la serenità di tutta la famiglia Saba, ma gli piaceva far conoscere dei passaggi, messi in atto dal fratello, che contribuirono a far rintracciare alcuni dei suoi rapitori. Come, per esempio, quando graffiò con le sue iniziali l’interno del cofano della vettura nella quale era stato rinchiuso subito dopo il prelievo; e quando nascose con la punta del piede sotto una pietra, in campagna, uno scritto inavvertitamente caduto dalla tasca di un rapitore, il quale inutilmente, non trovandosi addosso la lettera, dette fuoco alla campagna in zona. Erano state tecniche messe in atto da un uomo di legge intelligente, utilizzate dalle forze dell’ordine come prove per rinviare a giudizio la banda del rapimento. La scomparsa dell’amico Giangiorgio è stata preceduta di pochi giorni dal decesso dell’altro fratello, il prof. Giuseppe Maria Saba, Peppinello per gli intimi, illustre medico anestesista, docente universitario prima a Cagliari, poi all’Università La Sapienza di Roma. Sono celebri le ammissioni pubbliche di Peppinello, anche lui di fervente fede mazziniana e democratica, quando sosteneva che in alcuni casi “ho soltanto aiutato le persone a smettere di soffrire inutilmente”, tra le quali, con particolare dolore, annoverava anche gli ultimi istanti di vita del padre Michele Saba. La precisione di Giangiorgio Saba nell’amministrare il danaro aveva dell’incredibile. Era pronto a discutere su qualsiasi pagamento, se riteneva di aver subito ingiustizia: ma sapeva essere generoso come pochi. Tanto che nella parte finale della sua vita si preoccupò soprattutto di garantire una vita agiata ad uno dei due figli, che aveva subito un trauma a seguito di un incidente stradale. L’altro figlio ne aveva meno bisogno: neanche a dirlo, è anche lui avvocato, e sta seguendo all’Inps le orme paterne. I fermi ideali repubblicani e democratici indirizzarono Giangiorgio Saba ad un attivismo politico sempre svolto a fianco degli amici del Pri di Cagliari. Per altri versi, a conferma del proprio animo intriso di valori antifascisti e mazziniani, fece parte dell’associazione sarda “Cesare Pintus”, intestata all’amico del padre, rinnovando in chiave moderna il legame storico, politico ed affettivo familiare. All’inizio degli anni duemila, ha collaborato al rilancio della sezione Ami di Cagliari, intestata al compianto amico “Salvatore Ghirra”, ricoprendone per alcuni anni la carica di Presidente. L’attività da lui svolta è stata molto utile per tenere in qualche modo legati gli amici repubblicani e mazziniani, in un periodo di forti contrasti nel Partito repubblicano italiano, alla fine alleatosi al centrodestra, mentre un’altra piccola parte di repubblicani, defilatasi, si alleò ai Democratici di sinistra, sotto le insegne di “Sinistra repubblicana”. Poi per Giangiorgio, con l’età, il lento declino, la morte della moglie Silvana, e la sua scomparsa in una casa di cura per anziani, dove è stato affettuosamente assistito. (1) F. Atzeni, Archivio trimestrale anno XI n. 3, Roma, luglio-settembre 1985, pag. 554 (2) A. Borghesi, ibidem, pag. 574 (3) M. Brigaglia, ibidem, pag. 588
di Giovanni Corrao - 1/10/2018
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