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Lello Puddu non ha scritto, per quanto ne sappia, libri: ma ha scritto tanto, già dall’età giovanissima e fino a quella matura e perfino anziana, quanto forse di libri belli spessi (e soprattutto di qualità) ne verrebbero dieci e anche più. Ed ha parlato, in pubblici comizi e poi a congressi e convegni, fin dall’adolescenza, dall’era del referendum istituzionale (cui non poté votare per la troppa giovane età, e così pure alle politiche del 1948 ed alle regionali del 1949), ad arrivare – attraversando mezzo secolo e più, per incontri politici e associativi in Sardegna e nel continente – ai mesi ultimi che ne hanno accompagnato il tormentato congedo dalla vita: parlato tanto quanto si potrebbe raccogliere, sbobinate le registrazioni, in cento altri bei volumi. Tutti gustosi, costruiti nell’impianto e liberi nei passaggi tante volte all’impronta, seguendo l’ispirazione e raccogliendo il rimbalzo empatico di chi lo ascoltava. Scrivere, parlare. Come potrei dire di tanti altri delle minoranze non silenziose, della democrazia repubblicana e autonomista, magari come i Melis e i grandi padri Mastino, Oggiano e Saba, padri fondatori con altri padri fondatori comunisti e socialisti, liberali e cattolici. Padri rimasti nella memoria e nella coscienza ormai soltanto di noi che resistiamo fedeli, estranei – che dolore! – alle nuove generazioni. Scrivere e parlare per un mazziniano significava predicare, svolgere la missione educativa, conferire alla coscienza pubblica la propria testimonianza tutta oblativa. Tutto qui. È molto? È poco? Potremmo dire che il basso livello della dialettica politica cui oggi è scaduto il gran teatro delle istituzioni nazionali e locali (complice un giornalismo replicante e spettacolare, drammaticamente superficiale) riabilita tutto o molto di quel che era stato negli anni della ricostruzione, e poi della rinascita, e dopo ancora; ma non può essere soltanto questo. Ci sono state davvero – al netto delle inevitabili cadute proprie dell’umano – tensione morale e passione civica, e nelle formazioni politiche delle diverse aree politico-culturali fondative della Repubblica ancora restava, fino agli anni ’80, il senso delle tradizioni ideali, delle scuole di pensiero cui i partiti erano naturalmente tributari, essendone derivazione diretta o mediata, è stato presente come un canale di ossigenazione virtuosa nelle complessità e anche nelle complicazioni della corrente vita pubblica. Al funerale civile di Lello Puddu, nei giorni scorsi, ascoltando le parole dotte e accorate di Marcello Tuveri – l’amico, politico e personale, del cuore – e di Mario di Napoli – alto funzionario della Camera dei deputati e presidente nazionale dell’Associazione Mazziniana Italiana –, così come quelle di Francesca Pau riscopritrice (negli studi dell’accademia) della permanente attualità degli ideali, m’è venuto di pensare a questo. Rivedendo, taluno addirittura dopo molti anni, amici di gran valore ormai ritrattisi dall’attività politica, rientrati nel pieno o nell’esclusiva della professione (o magari del riposo), oppure per simpatie contingenti dispersi nelle frontiere nuove e variabili del confronto/scontro politico d’oggi, questa è stata la riflessione amara, critica ed autocritica, che ha preso corpo: avevamo un tesoro con noi e lo abbiamo perduto; peggio: lo abbiamo disperso, non per alimentare di virtù gli altri più pronti all’aggiornamento e alla modernità, no, soltanto per l’ebbrezza malsana dello spreco, della dissoluzione. Avevamo le virtù, ricevute e da testimoniare in proprio, della scuola democratica risorgimentale, postrisorgimentale, antifascista ed antimonarchica, costruttiva della Repubblica, Mazzini e Cattaneo e i grandi pensatori antisistema, conflittuali con la dinastia, i suoi governi e il notabilato clientelare; avevamo quei semi e quelle esperienze coltivate di un sardismo patriottico, capace di spendersi nei ponti necessari fra l’Isola e il vasto mondo, la categoria che Gonario Pinna assumeva sognando le nuove e moderne relazioni di sviluppo civile ed economico della nostra terra; avevamo il credito di una dirigenza che ancora viveva, di lato all’ispirazione evergreen mazziniana – quella della Giovine Europa, umanista, democratica e federalista – il sentimento eroico che era stato della resistenza azionista, dei chiodi arrugginiti, dei caratteri difficili e intransigenti, senza nessuno Stalin né nessun Pio IX né altro scheletro nell’armadio degli avi ideali, soltanto immacolati testimoni di valore: Mameli ed Efisio Tola… Pochi? Certo, ma nella consapevolezza orgogliosa che la tessera repubblicana nel mosaico della democrazia complessa dovesse essere quella e non altra. Doveva essere, per certo costume anche di militanza, alternativa alle crapule e ai dogmi, per veder sorridere finalmente, dal non tempo, Mazzini e Bovio, Asproni e Tuveri, Pintus e Mastio, Michele Saba e cento altri: cento uomini di ferro, a dirla con Guido Dorso, a fronte dei milioni abbagliati dalla retorica di presidenti e duci, affollati nelle piazze fortunate, non è detto anche felici. Per tre lunghi decenni ho accompagnato la mia attività professionale alla ricerca e quindi alla pubblicazione degli esiti di innumerevoli faticosi scavi nella storia civile e politica della Sardegna fra Ottocento e Novecento, fra risorgimento e antifascismo e costruzione della Repubblica “delle autonomie”. Molto me ne hanno dato motivo, oltreché una certa nativa passione per gli archivi e i giornali, la sensibilità alle cose della politica corrente: in linea dunque con quella teorica crociana secondo cui «solo un interesse della vita presente ci può muovere a indagare un fatto passato; il quale, dunque, si unifica con un interesse della vita presente, non risponde ad un interesse passato, ma presente». Così in Teoria e storia della storiografia, anno 1912. La storia è sempre contemporanea, da questo punto di vista, e il suo studio può essere alimento necessario e prezioso per l’azione richiesta dai tempi nuovi. Anche quando, come nel mio caso, la cosa non ha mai voluto dire un avvicinamento alle prime linee di un impegno di dirigenza, o elettorale, o tanto meno rappresentativo e istituzionale. Ma semmai una partecipazione alle analisi, al confronto delle idee, alla delineazione di impegni nell’interesse generale con gli strumenti della cultura politica, nella militanza attiva e dialettica operante nella repubblica della civiltà inclusiva. Lello Puddu l’ho incontrato su questa china, a Cagliari come a Nuoro. E con lui forse più ancora delle idee ho condiviso il sentimento, pur se non sono mancati rapsodici distinguo e distanziamenti. Il tutto sempre – prossimità e allontanamenti – dentro un pieno di umanità autentica che resta, per chi sa sedimentarsene, fattore di vita morale senza perdite. Mazzini e Bovio, Asproni e Tuveri, ma anche Cattaneo e Brusco-Onnis, e gli altri della compagnia me li ha presentati lui quand’ero adolescente, come quando anche lui, da adolescente studente a Nuoro, ricevette gli insegnamenti da Giovanni Ciusa Romagna. Quella sua fu un’iniziazione che coincideva con la storia della Repubblica, nel 1946; la mia, più modesta, al termine della prima stagione del centro-sinistra di Moro e Nenni, dell’esordio consiliare e istituzionale in Sardegna di Armando Corona eletto dal concorso repubblicano-sardista autonomista, dell’avvio dell’esperienza regionalista in Italia (con Montanelli che supportava, nei ragionamenti televisivi, Ugo La Malfa), della confluenza degli autonomisti del MSA nel PRI del quale avevo chiesto e ottenuto, ma al banco della Federazione Giovanile, la tessera. Venne La Malfa a Cagliari il 21 marzo 1971, lo intervistai sulla politica estera – si era a meno di tre anni dall’invasione militare russa a Praga e le preoccupazioni jugoslave, anche sul nostro confine, erano vivide – tanto da poterne scrivere poi l’indomani a scuola, al concorso europeista. Con il professor Romagnino che apprezzò e da allora mi adottò fra i tanti suoi allievi ideali. Lello Puddu entrò nella mia vita, mi presentò col tempo gli infiniti segmenti di un mondo – che pure era un mondo di minoranza, di idealità minoritarie ma non mai minori! – che noi, ben a ragione, chiamavamo “democratico”, assumendo questo concetto derivandolo dall’accezione risorgimentale e post-risorgimentale: il centro della libertà nel civile e nell’istituzionale prima che nell’economico, com’era stato invece, storicamente, nelle correnti liberale e socialista, speculari fra destra e sinistra. Qui era altro il corso, il filo rosso teorico e pratico, azionista: per il suffragio universale (inclusivo di quello femminile), per la repubblica, per le autonomie territoriali, per le alleanze internazionali nel rispetto dei diritti dei popoli, per la laicità piena e orgogliosa dell’ordinamento pubblico. Per inserire in un tale quadro la riforma sociale ed economica: il programma associazionista (compreso quello dell’azionariato operaio), l’idea dell’economia a due settori pubblico e privato, la scuola universale, lo stato sociale. Centrale, nella riflessione di Puddu militante e dirigente repubblicano sardo, era l’autonomismo come concepito dalla scuola democratica che fu la più larga di tutte fra quelle che prepararono il Novecento e che collocava con pari dignità le aperture di Mazzini e Cattaneo. Mi permetterei al riguardo di riproporre lo stralcio di uno studio del professor Arturo Colombo. Il quale, se da una parte evidentemente qualificava il federalismo cattaneano nei termini sovranazionali noti alla storiografia classica, “riabilitava” Giuseppe Mazzini da un unitarismo che qualcuno aveva scambiato, gravemente sbagliando, per una propensione all’accentramento governativo, cosa che mai fu. «Basti leggere con un po’ di attenzione – sono parole di Colombo estrapolate dal suo contributo “Il federalismo nel movimento democratico repubblicano del Risorgimento” nel collettaneo Giov. Battista Tuveri filosofo e politico, numero speciale dei sassaresi Quaderni sardi di filosofia e scienze umane 13-14/1984-85 – qualcuno dei suoi scritti, per capire che l’unità politica, alla quale Mazzini riserva tanto valore per ottenere l’indipendenza e la libertà dell’Italia attraverso l’iniziativa popolare (destinata a mettere capo alla repubblica come “forma logica della democrazia”), è un’unità che non prevede affatto un sistema di centralismo rigido e autoritario, sul tipo di quello della Francia napoleonica o della Russia zarista, che i moderati italiani recepiscono insieme ai canoni dominanti della cultura politica della restaurazione». I passaggi appresso richiamati valgono anche, trattandosi qui di un militante onesto, fedele, intelligente e colto come Lello Puddu, a conferma dell’amicizia intensa e di lungo periodo, anche personale e non soltanto intellettuale o politica, con Arturo Colombo, docente dell’università di Pavia, per lunghissimi anni direttore della Umanitaria di Milano, collaboratore prestigioso del Corriere della Sera e storico e saggista importante nel novero dei migliori risorgimentisti italiani. Ma anche e soprattutto valgono perché i temi riesposti della dottrina repubblicana, fra risorgimento e postrisorgimento, costituirono come la cornice civile e politica in cui Puddu inserì elaborazioni proprie e impegni d’azione di fianco al sardismo nuorese e alle migliori personalità del regionalismo isolano. Ecco dunque ancora Colombo che tratteggia l’autonomismo mazziniano: «“L’unificazione politica – aveva detto fin dal ’48 – non s’ha da confondere coll’estremo concentramento amministrativo e deve promuovere egualmente, armonizzandone lo sviluppo, i soli due naturali elementi di un popolo: la nazione e il comune”. «Più tardi, nel 1856 ripete: “nessuno tra noi confonde in oggi il concentramento napoleonico amministrativo coll’unità politica; nessuno vorrebbe che i diritti e gli interessi locali fossero schiacciati da una onnipotente iniziativa centrale”. E ancora nel 1860 precisa il suo pensiero: “La nostra unità non è né può essere concentramento amministrativo, dispotismo governativo di metropoli, negazione della libertà, vita che deve manifestarsi in ogni circoscrizione locale”. Infine, nel maggio 1868 (al governo c’era Manabrea, succeduto a Rattazzi), arriva a scrivere, anche lui in trasparente polemica con quanto stavano facendo i governanti al potere: “Vogliamo un’unità che non abbiamo fin’ora; una nazione fondata sul concentramento politico e sulla libertà del comune; un patto liberamente discusso e votato dal paese; un sistema economico fondato sopra economia e accrescimento di produzione; una organizzazione militare che abbracci il paese e abolisca l’esercito di casta”. «Dunque, Mazzini sostiene l’unità politica, ma rifiuta la centralizzazione, crede nel ruolo della nazione come convivenza di liberi e di uguali, ma respinge il concentramento amministrativo; difende il comune e le libertà locali come fattori di crescita civile, di partecipazione democratica, e arriva a riconoscere, fin dal 1843 (quando l’indipendenza e la libertà dell’Italia sembravano ancora un mito lontano, forse irraggiungibile) che un “ordinamento amministrativo speciale è indispensabile per le isole, la Sicilia e la Sardegna”. Di fronte a simili precise indicazioni politico-istituzionali, è possibile, a questo punto, seguitare a mantenere per Mazzini la drastica etichetta di unitario antifederalista, che ne fa una sorta (caricaturata, e quindi fuorviante) di anti-Cattaneo? Oppure, una maggiore esattezza in sede di riferimenti storici e di interpretazioni storiografiche, esige di considerare anche Mazzini fra i sostenitori di quel pensiero autonomistico, che rimane una componente essenziale del federalismo? «Il dibattito all’interno del movimento repubblicano, specie dopo Mazzini e Cattaneo, conferma che il federalismo, sia come politica di rifiuto della centralizzazione, sia come impegno a concreti propositi autonomistici, appare una costante, fatta propria da parte degli stessi autori che si dichiarano “mazziniani”, ma non per questo rinunciano a combattere il tipo di sistema politico, economico, amministrativo, uscito fuori dalla conquista regia. Per convincersene, basta considerare il tipo di critiche e il tipo di proposte che avanzano uomini come Maurizio Quadrio o Alberto Mario, come Gabriele Rosa o Napoleone Colajanni, come Mauro Macchi o Arcangelo Ghisleri (e tralascio volutamente Giovanni Battista Tuveri). «Mi spiego meglio. Una volta preso atto che il nuovo Stato italiano è sorto attraverso il sistema delle annessioni, più o meno legalizzate dai plebisciti, rimane aperto il problema del “che fare?” per il futuro. E la risposta, anzi le risposte che si possono ricavare, vanno tutte nel senso di uno sforzo diretto a respingere, o almeno a correggere la politica di concentrazione (altrimenti detta anche “fusionismo”). Inaugurata da Cavour e proseguita dai suoi successori, da Ricasoli a Rattazzi, a La Marmora, a Farini, a Minghetti, basta scorrere le annate della “Rivista repubblicana” o della “Rivista popolare”, o dell’ “Educazione politica” per verificare una sostanziale convergenza di giudizi, specie nel rinfacciare come prima colpa, come responsabilità più grave della monarchia, la sua incapacità, la sua impossibilità di assicurare il rispetto, il mantenimento, la garanzia dei fattori “autonomi”, che qualificano l’ethos, il costume di ogni nucleo comunitario. Ecco, allora, la pesante accusa di Alberto Mario, così rinnovata ancora nella primavera del 1878, quando ormai da due anni, dopo la cosiddetta rivoluzione parlamentare, era finita la lunga serie dei governi della Destra e al potere era andata la Sinistra storica di Depretis, di Cairoli, di Zanardelli, ma non aveva affatto la cambiato la rotta alla solita politica centralistica: “La centralizzazione – spiega Mario, con parole di trasparente sapore cattaneano – nega categoricamente l’Italia; e le repugna cotanto che la lingua italiana non ha la parola propria e nativa che dica la cosa, perché la cosa per lei è un non senso, un mostro. Il vocabolo centralizzazione è un francesismo in filologia e in politica”. «Allora? All’interno dello Stato italiano anche per Mario l’alternativa, che non bisogna mai stancarsi di contrapporre a una simile centralizzazione soffocante (e quindi, liberticida), si misura in termini di autonomia e non di semplice decentramento. E dovrà essere un’autonomia, che non fa leva sui Comuni (ormai ridotti a “entità meramente amministrative”) ma che va meglio riferita a livello di Regioni. “A ciascuna Regione, che ha configurazione geografica precisata e personalità storica contornata e sangue e favella e tipo inconfondibili con altre – suona la proposta di Mario –, la cura degli interessi speciali e relativi: costituzione propria, e parlamento e leggi e potere esecutivo a sé. E ciascuna regione gravitando verso il centro della sovranità nazionale muovasi entro la propria orbita col corteggio dei propri comuni, autonomi ma soggiacenti rispetto ad essa alla medesima legge di gravitazione”. «Non basta. Per fare un altro esempio, perché in chiave di valorizzazione dell’autonomismo come politica di libertà locali al servizio dei diritti dei cittadini (e non delle consorterie ministeriali), ecco una tipica asserzione di Bovio, che va letta come ulteriore motivo di polemica anticentralistica. È maggio del 1893, l’anno del primo ministero Giolitti, succeduto a Di Rudinì: “I Municipi e le Regioni – sostiene Bovio, e Tuveri avrebbe potuto dire altrettanto – sono la vita, la varietà, la grandezza d’Italia. Le Provincie sono artificiali. La varietà di terre, di clima, di acque, di genio, di dialetti e di scuole chiedono istantaneamente un liberale decentramento e vi consigliano di fare una Roma grande, non grossa. Invece ci ostiniamo sempre più nel fare il contrario. Avrete una Roma grossa e un’Italia tisica”, cioè malata, perché priva del lievito della libertà, priva della partecipazione dal basso, priva di un concreto ordinamento democratico». Certo, poi si potrebbe aggiungere, un secolo e mezzo dopo quel manifesto e dopo ormai quasi mezzo secolo dalla realizzazione concreta del regionalismo nell’ordinamento dello Stato italiano (ed a quasi settanta anni dall’autonomia speciale sarda), che il disegno è stato largamente imperfetto, forse anche per limiti normativi, soprattutto però per inadeguatezze dei ceti dirigenti locali che non sempre hanno mostrato autorevolezza politica ed istituzionale nel governo delle proprie delicate competenze. Il discorso sarebbe amplissimo e meriterebbe di essere ripreso in altra circostanza. La comune sensibilità autonomista, tanto più a Nuoro e in Barbagia, associò, come ho detto, Lello Puddu a uomini come Mastino e Oggiano, a Titino Melis, a molti altri dirigenti e militanti del sardismo, e l’intesa fu proficua sul piano umano non meno che su quello politico. Fu fraternità autentica con uomini di lui più giovani del valore di Giannetto Massaiu e Annico Pau, con suoi coetanei colti ed esperti nelle professioni come Bustiano Maccioni e Salvador Athos Marletta o Luigino Marcello, con Gonario Murgia, e con quanti altri, con Mario Melis fra gli altri. In più circostanze ho avuto l’onore e il piacere di contare sulla partecipazione di Lello Puddu, con contributi scritti oppure con interventi orali in occasione delle presentazioni di alcuni miei libri trattanti della democrazia sarda (repubblicana, azionista e sardista) nella opposizione alla dittatura e all’indomani della caduta del fascismo. Circa gli interventi a braccio, va detto che non tutti sono stati sbobinati e spero un giorno che si possa provvedere. In quanto al resto mi sto sforzando, proprio in queste ultime settimane, di riprodurre quel che egli scrisse e mi consegnò per la pubblicazione (così è stato per Ugo La Malfa, per Giovanni Battista Melis e per Alberto Mario Saba), e di raccogliere anche il molto da lui dato alle stampe fin da giovane (così, ad esempio, sulla figura di Giorgio Asproni come fu nel 1956). Vorrei che si potesse procedere ad impiantare un repertorio pubblicistico di Lello Puddu, sarebbe ricchissimo: lo meriterebbe il valore dell’autore, lo meriterebbe l’importanza dei suoi argomenti. Stavolta propongo lo sbobinato dai dibattiti seguiti alla uscita di due volumi da me curati (segnatamente Ugo La Malfa e la Sardegna, Cagliari 1989, e Sardismo e Azionismo negli anni del CLN, Cagliari 1990) anticipandone i testi però da scritti suoi o suoi interventi in occasione dei due convegni asproniani che erano brillantemente seguiti a quello nuorese del 1979: mi riferisco alla tre giorni “internazionale” cagliaritana dell’11-13 dicembre 1992 (prese parte alla tavola rotonda con Lorenzo Del Piano, Antonio Delogu e Tito Orrù) ed alla due giorni bittese-cagliaritana del 10 ed 11 novembre 2006 (sua la relazione introduttiva, letta in quanto esponente dell’associazione Cesare Pintus). Apre però tale sequenza che, lungo il fil rouge della democrazia repubblicana ed autonomistica, combina l’Ottocento risorgimentale e postrisorgimentale al Novecento postfascista, un doppio articolo uscito nella prima versione nel 1957 su La Voce Repubblicana (numero del 20 giugno) ed il secondo in un opuscolo monografico della collana dei Quaderni del Pensiero Mazziniano nel 1971 per celebrare Napoleone Colajanni. Titolo del primo – che prendeva l’input dalle polemiche laurine e antilaurine in corso nell’anno del rinnovo del Consiglio regionale della Sardegna (l’anno anche della partecipazione di Ugo La Malfa, accompagnato da Max Salvadori, al congresso sardista) – “Colajanni e la Sardegna”, titolo del secondo “Il difensore dei Sardi”. Ricorda, Puddu, l’intervento del parlamentare siciliano a sostegno dei sardi accusati dagli studi del Niceforo (e ripresi per buoni da un certo filone socialista) di contenere nel loro seno i germi di una inferiorità biologica. Richiamerà quella nobile pagina di storia civile quasi cinquanta e sessant’anni anni dopo (!), accennandone nell’intervento al convegno di Bitti… Si tratta, complessivamente, di documenti – che spererei un giorno possano essere anch’essi riuniti in volume – che provano più ancora della conoscenza e della dottrina di Puddu, del suo profondo sentire democratico e repubblicano, direi perfino della sua intima partecipazione – per la parte datagli nel tempo che gli era toccato vivere – alla missione dei Maestri, così come l’aveva introiettata nella sua coscienza morale e nella tavola civile dei doveri assunta a guida dei suoi passi. Ecco, in sequenza, questi documenti: L’inaudito, spregevole assalto elettorale di Lauro alla Sardegna serve a dimostrare una volta di più il tradizionale disprezzo monarchico nei confronti del popolo sardo. Quando la monarchia chiamava alla guerra i sardi erano sempre pronti a combattere e a morire, incuranti delle frasi fatte ufficiali che fondamentalmente deridevano il loro entusiasmo. I “generosi” sardi! Tanto generosi che quando si trattava di pagare spese di guerra soffrivano schiacciati dal torchio infame del fisco. Bisognava accogliere la Corte reale profuga dal Piemonte? Niente di meglio che la Sardegna, dove una forma di ladri ben vestiti rinnovava i fasti torinesi a prezzo della miseria dei “Sardegnoli”, villaneggiati nei banchetti e nelle gozzoviglie. E’ necessario oggi fare una grande destra? Nessuno meglio dei Sardi, così attaccati alla augusta Casa, può raccogliere il frutto di una ennesima turlupinatura. L’andazzo è sempre lo stesso: oggi sono i pacchi dono, la pastasciutta, i televisori che danno l’idea del grado di intelligenza politica, in cui i Sardi sono catalogati, ieri il disprezzo non era nemmeno celato ufficialmente (salvo che una guerra fosse vicina) e Mazzini stesso ricorda la risposta di un ministro piemontese ad un parlamentare Sardo che chiedeva la ripresa di un lavoro stradale, nella quale si giustifica tale mancata ripresa colla convinzione che i sardi non mostrano interesse, anzi si oppongono, alla costruzione di una nuova strada. Di questo vogliamo parlare: di una ennesima denigrazione del popolo sardo e della difesa sincera, appassionata di esso di un grande repubblicano, Napoleone Colajanni. L’occasione per un primo intervento Colajanni l’ebbe nel 1897 colla pubblicazione di uno studio del giovane Niceforo sulla Sardegna e la sua delinquenza. Le conclusioni del Niceforo furono nientemeno che l’isola, specie nel Nuorese, era abitata da gente istintivamente criminale e le cui caratteristiche antropologiche vietavano assolutamente di progredire sulla strada della civiltà. Erano insomma i sardi una “razza maledetta” che era vano strappare con opportuni provvedimenti alla realtà nella quale si dibattevano. Il grave di tali conclusioni non risiedeva però nello studio in se stesso, quanto nella accoglienza che ricevette presso i luminari della scuola positivista di antropologia criminale, Lombroso e Ferri. Il Ferri definì il lavoro come uno degli studi più completi di criminologia e il Lombroso ne decantò i meriti sulla stampa di informazione. Contro queste osservazioni Napoleone Colajanni insorse dapprima con scritti vari ed infine col volume Per la razza maldetta pubblicato nel 1898. In esso il grande repubblicano riconfermò, utilizzando l’esempio sardo, le sue convinzioni contro la fissità dei caratteri distintivi della razza che indurrebbe a considerare i popoli totalmente civili o inevitabilmente e perpetuamente incivili. Con un serrato esame della situazione dell’isola Colajanni stabilì che non la razza, quand’anche vi fosse, ma la realtà economica e sociale era la matrice dei tristi primati della Sardegna. Perché meravigliarsi – scriveva – dei delitti contro la proprietà se l’isola è la più povera tra le regioni italiane? La miseria diffusa, il gravoso fiscalismo, l’accentramento burocratico e l’alto indice di analfabetismo erano le cause che si opponevano al progresso civile dei sardi. Dal 1898 al 1907 sulla Rivista Popolare la lotta per la rivalutazione dei sardi non venne meno e proprio nel maggio del 1907 Colajanni intervenne ancora autorevolmente nel commentare uno studio del Sergi, maestro del Niceforo, che schierandosi dalla parte del Colajanni ribatteva le conclusioni del suo discepolo. Il Sergi si era soffermato soprattutto sull’indole del sardo concludendo che lungi dall’avere tendenze criminali gli isolani conservavano doti scomparse ormai in altri popoli. Colajanni si rifece al suo precedente lavoro, commentò favorevolmente quello del Sergi esaminò i dati nuovi sulla pubblica sicurezza, sull’analfabetismo e sulle condizioni di vita dei pastori e dei contadini. Alla luce di questi dati, che illuminavano il decennio trascorso, il progresso della Sardegna, pur nella sua grande miseria, era evidente. Esiste in Sardegna – diceva – una classe impensata: i proletari… della proprietà, disgraziati possessori di un pezzo di terra dal quale traggono poco da vivere. Convincente argomento per dimostrare quanto fosse fuori luogo parlar di razza sarda criminale lo trovò nello studio dei movimenti di popolazione a Sassari e a Cagliari. Mentre a Cagliari il movimento immigratorio era stato intenso, a Sassari esso era stato quasi nullo ma la delinquenza era diminuita molto più che a Cagliari. E Sassari comprendeva l’attuale provincia di Nuoro! La “razza maledetta” era così riabilitata! Lo scritto si chiudeva infine coll’esame dei punti obbligati per un avvenire migliore dei sardi e con un avvertimento: «Autonomia, non separatismo, nel quadro dell’unità della nazione: proprio perché la Sardegna attende un atto di giustizia da parte dello Stato! Ma nessun miracolo in due giorni (nessuna promessa di Lauro diremmo oggi) può far cambiare una situazione vecchia di secoli e secoli. Occorrono decenni di dura fatica perché i sardi possano godere i frutti di una nuova vita autonoma». I sardi migliori sono coscienti di questa verità. In un suo saggio sul Risorgimento, Antonio Gramsci, spiegando i motivi, della indifferenza delle masse popolari del Nord verso le condizioni di miseria e di sottosviluppo del Mezzogiorno, ricorda la solitaria e vigorosa battaglia di Colajanni contro il pregiudizio razziale e contro la convinzione, allora largamente diffusa ed oggi non ancora estinta, secondo cui i meridionali e gli isolani costituiscono una razza inferiore, assolutamente incapace di progredire e di adeguarsi alle conquiste civili e alle forme moderne di organizzazione della società. Nella nota apposta da Giorgio Candeloro al nome di Colajanni si legge che il cenno di Gramsci è dovuto probabilmente allo scritto dello stesso Colajanni sui fatti dei ’98. Segno questo che Candeloro non conosce, come tanti, come troppi, né L’Italia nel ’98 né Latini e Anglosassoni, né alcuna di quelle opere o di quegli articoli attraverso i quali il grande repubblicano realizzò la più completa e organica difesa del mondo meridionale, perché non ridotta allo studio di un solo problema, ma abbracciante i caratteri fondamentali e lo sviluppo storico della società, delle forze sociali del Sud, il rapporto con lo sviluppo storico del paese, le connessioni col costume, con la criminalità, con le istituzioni pubbliche e le forze politiche, i motivi profondi del divario economico e l’esame delle più idonee vie per portare il Sud alla sua rinascita. Ma se Candeloro non ha letto, Gramsci, lui sì, aveva capito il valore della posizione di Colajanni, di un repubblicano, che guida ed egemonizza il meridionalismo più avanzato, anche contro il partito socialista, cui spetta la grave, storica responsabilità di aver diffuso nei canali dell’organizzazione operaia i temi dell’inferiorità di razza, di quelle tesi che Ettore Ciccotti qualificò come il vero «antisemitismo all’italiana». Nei gennaio del 1930, sulla rivista parigina Stato Operaio Gramsci ammetterà che «il partito socialista fu in gran parte il veicolo di questa ideologia borghese, dando il suo crisma alla cricca, degli scrittori della scuola positiva», ma il fatto è che l’ideologia della incapacità, della barbarie, della inferiorità meridionale fu diffusa, ma anche creata e collocata negli strati culturali del paese, da uomini che militavano nel partito socialista o che per esso simpatizzavano. Gramsci rivendicò, a sé e ai compagni coi quali costituirà più avanti il nucleo dirigente di Ordine Nuovo, il merito di aver avvertito l’errore e il pericolo per un partito proletario di una collocazione razzista. L’offerta a Gaetano Salvemini del collegio torinese lasciato libero dalla morte di Pilade Gay, secondo Gramsci, ne è la riprova. La verità è che Gramsci, così fisicamente scomposto, quasi l’immagine fisica dell’uomo inferiore, sentiva tutto l’imbarazzo di un militante socialista e il fascino che esercitava su di lui Napoleone Colajanni, che proprio in difesa dei sardi aveva combattuto una splendida e vigorosa battaglia. Nel settembre del 1897, infatti, il giovane siciliano Alfredo Niceforo aveva dato alle stampe un volume dai titolo La delinquenza in Sardegna. Presentato come «esempio di risolutezza logica che prende nome e sostanza di sociologia socialista» da Enrico Ferri, che si apprestava ad assumere la direzione dell’Avanti!, lodato da Lombroso e dai suoi discepoli positivisti come uno dei saggi più completi di criminologia, lo scritto del Niceforo era caduto in uno dei momenti più cruciali della storia recente della Sardegna. Colpita da ricorrenti crisi nel suo debole tessuto economico, infestata dalla malaria e da innumerevoli malattie sociali, in preda al dilagare del banditismo, la Sardegna era prostrata e in attesa della realizzazione di alcuni provvedimenti decisi in suo favore. Il danno arrecatole dallo scritto fu enorme: le tesi del Niceforo, che identificava nel Nuorese e nell’Ogliastra una «Zona delinquente» i cui abitanti avevano «nelle cellule nervose qualcosa di organizzato che li spinge fatalmente al delitto», rappresentava la spiegazione razzista dell’arretratezza sarda e la dimostrazione scientifica, o meglio l’autorizzazione per la classe dirigente nazionale a proseguire nella politica di abbandono verso una terra che non «poteva» progredire. E potremmo dire che simili concezioni non sono tramontate del tutto. Nel numero di novembre dello stesso anno, la Rivista Popolare pubblicò un violento articolo dei suo direttore in difesa dell’isola: «Per la razza maledetta». Lo stesso giorno i due quotidiani sardi, il repubblicano La Nuova Sardegna e il moderato L’Unione Sarda, uscirono a tutta pagina, dimenticando ogni altra notizia, col titolo a grandi caratteri: «Napoleone Colajanni in difesa della Sardegna, una mano fraterna dall’isola sorella». Il giornale repubblicano di Sassari ricordò che un mazziniano offriva la sua solidarietà alla Sardegna dopo 37 anni dall’intervento di Mazzini. «Per la razza maledetta» ebbe una larga diffusione e costituì una efficace difesa contro «il romanzo scientifico dell’antroposociologia di Lombroso e Ferri». Ma Colajanni non si fermò: pubblicò molti articoli, scrisse una prefazione al volume di un sardo, Luigi Camboni, e infine nel 1907, utilizzando un scritto del Sergi, maestro del Niceforo, che demoliva le tesi dell’allievo, intervenne sulla Rivista con «La riabilitazione della razza maledetta», dimostrando che a distanza di 10 anni i sardi, sia pure nella loro grande miseria, avevano offerto la dimostrazione che non i fattori biologici, ma quelli sociali ed economici erano la vera matrice dell’inferiorità umana. Credo che nel tributo di omaggio e di riconoscenza per Colajanni in occasione del cinquantesimo anniversario della sua morte, un posto particolare spetti ai sardi, una razza maledetta che Colajanni difese in nome della giustizia, per il suo Sud. Alla tavola rotonda di Cagliari del 12 dicembre 1992: «ma fece intravedere un diverso modo di essere del nostro popolo» Confesso che pur avendo studiato al Liceo di Nuoro intitolato a Giorgio Asproni, fino a quando non incontrai a Bitti Ennio Delogu, il sardista che soffrì il carcere durante il fascismo, che mi fece leggere alcune lettere di Mazzini ad Asproni, non seppi mai che era e soprattutto “cosa” era. Pubblicato nel 1950 sulla rivista di Giulio Andrea Belloni L’idea Repubblicana, un breve scritto, dopo sei anni due pagine della Nuova Sardegna dedicate all’ottantesimo anniversario della morte, e frutto delle mie ricerche a Genova, Torino, Napoli, nella biblioteca della Camera. Mi legarono sempre di più a questo personaggio e mi fecero poi conoscere Bruno Anedda e la vicenda che ha portato alla scoperta del Diario. Con Tito e Carlino abbiamo varato il Convegno di Nuoro e abbiamo portato, finalmente, Asproni nel dibattito storiografico arricchendo una diversa connotazione di alcuni aspetti del Risorgimento e della storia della Sardegna. Oggi con questo importante convegno si è iniziata a tirare qualche conclusione sulla figura, il ruolo, la presenza, l’importanza di un uomo che ha rappresentato una via per il rinnovamento della Sardegna, diversa da quella che la storia ha percorso. A dire il vero, e mi scuso se da dilettante mi permetto di contestare qualche giudizio espresso finora, a parte il mio amico Sipala, democratico mazziniano e meridionale che sente Asproni come me, e il Prof. Berselli, non mi pare che sia stata valutata con la dovuta attenzione la figura, la collocazione, l’opera e la testimonianza politica di Giorgio Asproni. Il Prof. Della Peruta ritiene che sia stato un politico di scarso rilievo, né in senso generale e nemmeno rispetto alla nutrita schiera dei seguaci del movimento democratico repubblicano; la mia amica Bianca Montale, che ho conosciuto tanti anni fa quando era appena finita la guerra partigiana che aveva combattuto nelle Brigate Mazzini, non gli riconosce un ruolo nella cospirazione genovese, specie in occasione del tentativo di Pisacane, e pur essendo stato eletto a Genova afferma che non ne rappresentò di fatto i circoli democratici in Parlamento. Ma Tito Orrù ha documentato più volte che nel Diario non tutto poteva essere scritto, per il pericolo che cadesse nelle mani della polizia, e nelle relazioni di pubblica sicurezza che ha scovato ci sono i riferimenti a tutti i movimenti di un personaggio che era considerato pericoloso e meritevole di controlli accurati. D’altra parte che senso avrebbe ciò che leggiamo, mi pare nel ’64, quando Asproni va a Milano, poi a Lugano, chissà perché nella stazione trova Sara Nathan, incontra Mazzini, dice di aver visitato la città e poi torna subito a Firenze. Nel Diario non c’è di più. Ma siamo proprio certi che sia andato a fare un lungo, faticoso viaggio per vedere Lugano? Quanto agli scarsi contatti col mondo democratico genovese, possibile che nella farmacia Mojon, cenacolo di sovversivi, non si sapesse nulla della presenza di Mazzini a Genova nel ’57? Asproni certamente aveva superato la proverbiale reticenza dei genovesi ad accogliere i «foresti» e non mi sembra vero che la sua designazione di coprire il III Collegio e la sua elezione a deputato sia stato un fatto episodico determinato dalla debolezza di esponenti locali. Rappresentò Genova e la difese in occasione del trasferimento dell’Arsenale militare a La Spezia con una passione che qualificava l’ammirazione per una città che si era opposta alla repressione di La Marmora e che pagava con quel provvedimento una sorta di vendetta dei piemontesi. Per quanto riguarda il Prof. Della Peruta ritengo che l’importanza della posizione di Asproni nella storia del movimento repubblicano sia determinata dal fatto che anticipò la sintesi delle scuole di diverso orientamento nella speranza di creare un unico strumento di azione politica, come farà più tardi Arcangelo Ghisleri. Asproni era un mazziniano e di Mazzini condivideva la potente spinta all’Unità, espressione di una Sardegna che voleva essere partecipe nel moto di rinnovamento della società italiana ed europea, vagheggiava con Cattaneo le linee della costruzione della Stato democratico e repubblicano in un sistema di ampie autonomie locali. «Vede meglio il pazzo in casa propria – diceva – che il savio in casa altrui»). Il senso della sua battaglia politica sta nel Diario, ma anche nei suoi discorsi parlamentari; nella sua lunga presenza nella stampa, nei rapporti che allacciò con gran parte della Sinistra italiana ed europea, nell’attività instancabile nel movimento democratico e nel movimento operaio. Non era facile per un uomo come Asproni dimenticare le sue radici e il mondo che lo aveva espresso. Se era facile per un sardo stare a fianco dei «codini», se era comodo allinearsi ai trasformismi dei suoi antichi compagni di lotta politica, Asproni scelse la strada più difficile. «Soffrii di veste e di ventre» dichiarò una volta, «mio padre era un plebeo». Se si pensa oggi a quello che erano Bitti e Nuoro nella prima metà dell’Ottocento, una regione tra le più arretrate dell’Europa, vittima del malgoverno piemontese, dove la classe più diffusa era i “proprietari [recte: proletari] della proprietà”, l’allevamento del bestiame secondo canoni biblici, senza strade, senza scuole, senza consumi, senza cultura, senza alcun connotato che anche allora qualificava civile una società, se si pensa a ciò si comprende quanto sia il valore della sua presenza nella vita politica dell’800. Un uomo che rappresentò il tentativo di un mondo senza storia di far parte del processo di rinnovamento e di progresso che animava l’Italia e l’Europa. Appartiene, in quanto uomo del movimento democratico della Sinistra, al mondo degli sconfitti, degli illusi o degli utopisti ma se c’è qualcuno che vuole replicare l’interpretazione gramsciana del Risorgimento e dare più valore ai seguaci di Cavour che in Sardegna possono essere considerati i responsabili della situazione in cui versava l’isola sappia che non ci metteremo mai d’accordo: possiamo polemizzare per secoli, e se il cervello ci dice che il versante moderato della politica italiana dell’800 ha vinto, il nostro cuore sta con Asproni e con quella cultura che patì una sconfitta ma fece intravedere un diverso modo di essere del nostro popolo. Che cos’era dunque Giorgio Asproni? Non era un grande uomo politico, nemmeno nel movimento al quale apparteneva, non era un cospiratore, non era – come è stato detto – un esperto di tecnica militare. Non era molte altre cose: potrei aggiungere che non era nemmeno un giocatore di basket! Ma per noi sardi l’eredità che ci ha lasciato, così importante, ne ha fatto un padre della nostra vita regionale. Se fosse stato un fenomeno superficiale non avrebbe, come invece è accaduto, per decenni alimentato la scapigliatura democratica barbaricina, trasferito nella cultura nuorese, nella poesia popolare di Rubeddu, Dessanay e di tanti altri ancora, il senso profondo di ideali libertari, mantenuti nella coscienza collettiva fino all’avvento del fascismo, fermenti vivi di una società pastorale o contadina che in altre zone del Sud aveva optato per scelte moderate o di sostegno alla reazione. L’eredità politica di Asproni, il suo tentativo di modernizzare il mondo sardo, e legarlo agli strati più avanzati della società, il suo amore per la grande patria italiana e per la piccola patria sarda, è il seme che darà vita al movimento autonomista e di tutto ciò che di straordinario esso rappresenta nella vita politica della Sardegna. Un padre della nostra vita e della nostra recente storia regionale che attraverso le pagine del Diario può ancora darci la forza e lo stimolo a combattere per gli ideali da lui professati specie in un momento in cui la delusione e lo scoramento sembrano travolgere tutto. Al convegno di Bitti del 10 novembre 2006: fra gli scapigliati dell’Ottocento ed i sardisti del Novecento Questo convegno di Bitti e di Cagliari rappresenta un ulteriore passo nella conoscenza più approfondita del ruolo che Giorgio Asproni ebbe nel movimento democratico repubblicano del Risorgimento. Sappiamo ormai con sufficiente completezza della sua attività parlamentare attraverso gli studi molto esaurienti realizzati dai professori Arturo Colombo e Tito Orrù, delle sue presenze in alcuni degli avvenimenti importanti di quel periodo e, tuttavia, basta consultare Internet per accorgersi che i dati emersi nella lettura del Diario offrono alla ricerca storica nuovi elementi di conoscenza, di affinamento di giudizi; ma, talvolta, anche la chiave per interpretare e comprendere fatti, scelte politiche e mettere nel più giusto quadro ciò che ancora risente del velo interessato col quale è stata coperta la storia dell’Ottocento italiano, vittima dell’ostracismo operato nei confronti delle correnti progressiste e in un certo senso viste come sovversive del Risorgimento italiano. Probabilmente bisogna fare uno sforzo maggiore per studiare Asproni giornalista, il suo immenso patrimonio profuso in tutti i giornali progressisti, a Torino, Genova, Milano, Firenze, Roma, Napoli, Palermo senza dimenticare la Sardegna, la Spagna e gli Stati Uniti d’America. Si tratta di migliaia di articoli, tra i quali è utile esaminare quelli dal 1848 al 1855, del periodo che precede la stesura del Diario, quello relativo ai suoi interventi sui giornali mazziniani di Genova nei quali è spesso la Sardegna, il Nuorese il centro delle sue attenzioni, con i suoi problemi antichi e le proposte di soluzione. Tutto un periodo nel quale, abbandonate le primitive scelte giobertiane, abbraccia le posizioni e le proposte di Mazzini, unitarie e democratiche, per risolvere la questione italiana e quella sarda. Nuoro e la sua Bitti, come ho detto, sono sempre, dovunque sia in giro il mondo, il suo ricordo continuo, incessante. Pensa ai suoi amici sinceri, non sono tanti, al desiderio di essere con loro, di sentirli vicini, anche se, qualche giorno che è tornato in Sardegna, disturbato dalle continue richieste di favori degli amici e dei nemici, privo di informazioni su ciò che accade a livello nazionale, sente il bisogno di tornare nel mezzo della lotta politica. La mia impressione è che Asproni non ami molto quella che oggi definiremmo “la classe dirigente barbaricina”. Egli è più vicino al mondo dal quale proviene, al mondo dei pastori, che sente più sincero, più capace di lealtà, meno interessato ai traffici e a ciò che poi definiremo il sottogoverno. Lo renderà evidente nel 1861 con un quasi improvviso viaggio in Sardegna, dopo aver concordato con Garibaldi le linee di azione per respingere la cessione della Sardegna alla Francia. Da Caprera corre a Palau, a Tempio e, passando per Alà, arriva a Bitti, da Bitti a Nuoro dove incontra il fratello carcerato per odio contro di lui e soprattutto i suoi amici di una vita, Francesco Gallisai e don Antonino Guiso Masala. Giorni dopo, da Nuoro, passando per Macomer vola a Sassari dove partecipa ai lavori del Consiglio Provinciale e infine si trattiene oltre un mese a Cagliari lottando per la liberazione del fratello, ma anche per concordare l’adesione della Società Operaia all’eventuale lotta armata contro l’invasore francese. Sono dunque i pastori e gli operai le forze su cui fa affidamento per condurre la lotta agli ordini di Garibaldi. Asproni è certamente un buon conoscitore del libro che un grande amico di Mazzini, conosciuto nell’esilio di Marsiglia, Carlo Bianco di Saint Jorioz, aveva scritto su La guerra per bande, così adatto non solo alle caratteristiche delle campagne sarde ma anche alla struttura sociale della società isolana. Anche Garibaldi conveniva con queste scelte per la sua esperienza nella Repubblica Romana e nell’impresa dei Mille perché, come è noto, non amava guerre di posizione, che rispondevano invece alla strategia militare delle truppe regolari e della Marina da Guerra piemontesi, come per gli assedi della cittadella di Messina e del porto di Gaeta. Ma c’è un altro episodio che conferma l’impegno, per così dire, rivoluzionario di Giorgio Asproni. Mi riferisco a quando nel settembre del 1862, come apprendiamo dal Diario, va in Sardegna, sta 2 giorni a Sassari, 2 a Nuoro, 2 a Cagliari e ritorna subito a Genova. Garibaldi era stato ferito all’Aspromonte, la coscienza nazionale si era ribellata, il Ministero Rattazzi era in grande difficoltà e Mazzini aveva dichiarato che era giunta l’ora della sollevazione per instaurare la Repubblica, per Roma capitale e per la liberazione del Veneto. Dalla Sicilia, tenuta quasi in stato d’assedio, poteva partire la riscossa nazionale. In quegli stessi giorni, quando rientrò a Torino, Giovanni Antonio Sanna, il suo grande amico imprenditore, tornato dalla Sardegna, gli aveva detto che essa era «senza anima, senza fede, senza speranza, come cadavere». Asproni riparte subito, guardato a vista da squadre di poliziotti, rianima gli spiriti, sveglia i dormienti, e dopo qualche giorno che è tornato a Genova, ha la notizia che anche in Sardegna ci sono dimostrazioni e bollori. Purtroppo Garibaldi, nonostante gli spari di Aspromonte, risfodera la sua vecchia formula di «Italia e Vittorio Emanuele» e ciò induce Asproni a criticare senza mezzi termini il Generale: grande soldato, pessimo politico. Pur con questa sua azione rivoluzionaria e nonostante i funerali romani, confortati da migliaia di partecipanti e da innumerevoli bandiere delle associazioni democratiche, e nonostante l’impegno di Pietro Paolo Siotto Elias per mantenerne vivo il ricordo, Asproni viene totalmente dimenticato per oltre vent’anni. La storiografia del Risorgimento, pur dopo l’ascesa della Sinistra al potere, ci appare blindata dalle interpretazioni filo sabaude (io le chiamo oligarchie dominanti), non senza la responsabilità dei suoi antichi amici che hanno abbandonato le loro radici mazziniane per gettarsi nelle braccia della monarchia. Tornerà in auge più tardi. Nel 1897 Alfredo Niceforo aveva dato alle stampe il suo reportage sulla Barbagia con uno scritto intitolato La delinquenza in Sardegna. In questo scritto Niceforo identificava nel Nuorese e nell’Ogliastra una zona costituzionalmente delinquente, i cui abitanti «avevano nelle cellule nervose qualcosa di organizzato che li spinge fatalmente al delitto». Era la tesi lombrosiana della inferiorità di razza, della superiorità dei settentrionali sui meridionali, dei Germani e Sassoni sui Latini (con argomentazioni purtroppo in auge anche nei nostri giorni). Lo scritto del Niceforo era del mese di settembre, e dopo qualche settimana un grande meridionalista repubblicano, Napoleone Colajanni, sulle colonne della sua Rivista Popolare intervenne con uno scritto Per la razza maledetta in difesa dei sardi, in quel momento prostrati da una gravissima crisi economica e sociale. L’intervento di Colajanni era avvenuto 36 anni dopo quello dl Mazzini in difesa della Sardegna sulle colonne del giornale mazziniano l’Unità Italiana, diretta in quel periodo da un altro sardo, Vincenzo Brusco Onnis. Ma come per Mazzini, che come è noto aveva ricevuto una relazione da Asproni, riportata quasi fedelmente dal grande cospiratore, anche per Colajanni la fonte sarà ancora una volta quella del deputato bittese a caratterizzare la sua decisa requisitoria in qualità di deputato siciliano. Lo scritto di Colajanni fu riportato integralmente dai due quotidiani sardi dell’epoca, il repubblicano La Nuova Sardegna e il moderato L’Unione Sarda, in prima pagina, con grande risalto editoriale. Colajanni conosceva perfettamente Asproni. Quando il giovanissimo studente siciliano era stato incarcerato a Napoli per alcuni mesi per mene repubblicane, Asproni, accompagnato da Nicotera, era andato a trovarlo, intervenendo perché fosse trattato con umanità. Non solo, ma è facile ipotizzare che, durante la residenza napoletana del deputato sardo, siano stati frequenti i contatti fra i due, in considerazione anche di quanto interesse mostrasse Asproni per i problemi della Università partenopea, nel cui ambito sia studenti che corpo docente erano preferibilmente schierati per la Sinistra democratica e per la corrente repubblicana. Dieci anni dopo, nel 1907 utilizzando uno scritto di Giuseppe Sergi sulla Sardegna, Colajanni intervenne ancora con La riabilitazione della razza maledetta. Sergi apparteneva alla schiera dei criminologi lombrosiani, Niceforo lo considerava addirittura il suo maestro, e tuttavia le sue argomentazioni corrispondevano a tutto ciò che Colajanni aveva sostenuto dieci anni prima. Nonostante la grandissima miseria, gli omicidi avevano marcato una decisa diminuzione. Quando Sergi aveva affermato che la Sardegna deteneva il primato assoluto per i reati contro la proprietà, Colajanni aveva spiegato che la sua causa risiedeva nel fatto che essa era la Regione più povera del Regno, ben più povera della Calabria e di alcune Province siciliane, delle Marche e dell’Umbria. Sulla proprietà polverizzata si abbatteva una pressione fiscale spaventosa. Il furore del governo aveva espropriato interi paesi nei quali non si trovava alcuno che partecipasse alle aste per l’acquisizione. L’analfabetismo dominante, l’assenza di una efficiente viabilità, la diffusione dell’attività pastorale nomade, la siccità, le inondazioni frequenti, la malaria e lunghi anni di malgoverno avevano creato un classe impensabile: «I proletari della proprietà». Tutte le argomentazioni di Colajanni erano la precisa replica della lunga battaglia del parlamentare bittese e ciò risulta evidente nella sua risposta all’affermazione del Sergi secondo il quale «mai ho sentito che un deputato siasi occupato con amore, con entusiasmo della miseria economica di questa Regione diseredata»: «Questo è assolutamente contrario alla verità. Per tanti e tanti anni si levò nel Parlamento subalpino prima e poscia in quello italiano la voce severa e onesta di Giorgio Asproni a invocare giustizia per l’isola natia. Per tanti anni il governo fu iniquamente sordo e sarebbe ingiustizia non riconoscerlo». Non è inutile ricordare che lo scritto di Alfredo Niceforo fu presentato da Enrico Ferri come «esempio di risolutezza logica che prende nome e sostanza di sociologia socialista». Nel silenzio del mondo socialista per tanti anni, Antonio Gramsci nel 1930 ammetterà che «il partito socialista fu in gran parte il veicolo di questa ideologia borghese dando il suo crisma alla cricca degli scrittori della scuola positiva», cercando di allontanare la storica responsabilità di aver diffuso nei canali di una organizzazione operaia i temi della inferiorità di razza. Con i suoi compagni di Ordine Nuovo offrirà a Gaetano Salvemini il seggio di Pilade Gay, scomparso di recente, per avvalorare il modo, diverso dagli altri socialisti, col quale affrontare i problemi del Mezzogiorno in generale e della Sardegna in particolare. Anche se il personaggio Asproni è stato dimenticato nella sua presenza nazionale e regionale, nella sua Nuoro l’eredità che egli ha lasciato è rimasta viva per circa un secolo resistendo persino al Fascismo. Ciò è pure evidente nella toponomastica cittadina: la via principale è il Corso Garibaldi, che attraversa il vecchio cuore della città, piazza Mazzini, ma tutto il centro è dedicato ai fratelli Bandiera, Aspromonte, Rosalino Pilo, Poerio, Efisio Tola, G. B. Tuveri, peraltro diffuso in tutti i Comuni dell’isola, ma anche al Brofferio sconosciuto altrove. Al contrario di Cagliari piena di Carlo Felice, Vittorio Emanuele, Savoia, Regina Margherita, per non parlare della centralissima piazza Yenne (un viceré degli anni Venti del secolo XIX) e di altri nomi del tutto sconosciuti agli stessi cagliaritani. Alla fine dell’Ottocento il deputato radicale Giuseppe Pinna, padre di Gonario, accompagna Felice Cavallotti con 500 cavalieri a Dorgali perché potesse visitare il Collegio elettorale di Giorgio Asproni, sempre vivo nei ricordo del grande parlamentare della Sinistra. (A proposito di Giuseppe Pinna, mi pare di ricordare che il figlio Gonario, politico anch’egli e illustre scrittore, ha rinvenuto nell’epistolario del padre una lettera di Grazia Deledda nella quale lo invitava a inviare qualche teschio al Niceforo per avvalorare i suoi studi. La notizia a Nuoro produsse una generale avversione nei confronti della scrittrice che, a detta di quanto afferma proprio in questi giorni sulla stampa sarda il nipote, non sarebbe del tutto superata. Perciò, non so bene se nella coscienza collettiva dei Nuoresi sia maggiore la contestazione per le convinzioni della Deledda sui problemi accennati, piuttosto che l’orgoglio di aver dato i natali a un Premio Nobel). Dopo questo periodo il Giorgio Asproni di cui si parla frequentemente è Giorgino, il nipote prediletto, lo straordinario ingegnere imprenditore, uno dei pochissimi Cavalieri del Lavoro sardi, probabilmente il più importante esperto minerario non solo della Sardegna, ma dell’Italia intera. Il nostro Asproni riappare nel periodo giolittiano, con Sebastiano Satta che nei versi che gli ha dedicato ci parla di tempi migliori nei quali egli è vissuto. Forse alludeva a una classe politica diversa, con parlamentari più decisi nel combattere le storiche negligenze dello Stato centralista verso la Sardegna e la Barbagia in particolare. Comunque il seme ha fruttificato nel periodo giolittiano con la cosiddetta scapigliatura democratica nuorese. Asproni è presente in una società contestatrice, monarcomaca, con tinte anarchiche idealiste, che ha prodotto la poesia popolare in nuorese di uomini come Pasquale Dessanay e Salvatore Rubeddu e tanti altri personaggi di cui ci ha dato notizia in un suo bellissimo saggio Guido Melis. Tutto questo fino alla nascita del Movimento autonomista del Partito Sardo d’Azione nei cui programmi è facile scorgere la lunga battaglia asproniana. Durante il Fascismo Asproni è quasi dimenticato se non per i suoi acri commenti dei suoi opuscoli in polemica con Alberto Lamarmora e Giuseppe Pasella e direi che fu piuttosto maltrattato, definito un polemista rissoso e poco sereno nei confronti di personaggi di alto lignaggio. Dopo la caduta del Fascismo io, che sono stato uno studente del liceo Asproni di Nuoro senza mai sapere chi e che cosa fosse, ricevetti le prime informazioni da tre persone: Francesco Burrai, bittese, emigrato politico, combattente in una brigata antifascista in Spagna; Ennio Delogu, bittese, sardista, che mi fece conoscere alcune lettere di Mazzini e di altri personaggi, alcune delle quali io stesso ho pubblicato nell’ Idea Repubblicana di Giulio Andrea Belloni nel 1950, preludio ai due scritti che pubblicai nel 1956 sulla Nuova Sardegna in occasione dell’ottantesimo anniversario della morte, e infine il mio professore di storia dell’arte, uno dei maestri dell’impressionismo barbaricino, Giovanni Ciusa Romagna, che mi mandava, nei giorni del referendum del 2 giugno, ad attaccare i manifesti contro la monarchia che lui faceva a mano. Magari ne avessi tenuto qualcuno! Le sue caricature avrebbero fatto scoprire un Forattini ante litteram. Prima di chiudere, mi pare giusto rievocare quali sono stati i parlamentari nuoresi che per i contenuti della loro azione politica, per la forza del carattere, per la grande carica morale, hanno inteso ricalcare i segni distintivi della vicenda politica e umana di Giorgio Asproni. La mia impressione è che questi possono essere individuati in quattro figure che sono tutte quante riconducibili alla stessa area democratica autonomista nella quale Asproni ha svolto la sua azione: Giovanni Battista Melis, grande leader sardista, deputato dal 1948 al 1953 e poi dal 1963 al 1968; Gonario Pinna, autorevole rappresentante della cultura isolana, deputato socialista, con radici repubblicane, dal 1958 a 1963; Pietro Mastino, eletto nel 1919, nel 1921, nel 1924, nel 1946 e senatore di diritto nel 1948, Sindaco di Nuoro; Luigi Oggiano, una delle coscienze più pure dell’autonomismo sardista, senatore eletto nel 1948. Di Mastino e Oggiano si deve dire che, caso unico nel Parlamento italiano, hanno rinunciato alla pensione di parlamentari. Tutti questi uomini di cui vi parlo hanno condotto le stesse battaglie di Asproni, contro il colonialismo dello Stato accentratore, per i trasporti più efficienti, per una agricoltura moderna, in difesa del mondo dei pastori, per la giustizia, per l’ordine pubblico, per la scuola, per una politica dello sviluppo economico adatta alla nostra realtà, sorretti, senza soluzione di continuità, da ciò che, per lunghi anni, è stato il fondamento della battaglia politica di Giorgio Asproni: uno sconfinato amore per la Sardegna e il suo popolo. Alla presentazione di “Ugo La Malfa e la Sardegna”, Cagliari 7 luglio 1989: ebbe l’illusione di entrare nel cuore dei sardisti alla pari di Lussu» Quando Gianni Filippini citava certi personaggi mi sono sorpreso, devo confessare, perché ha parlato di Ghisleri che era sconosciuto in Italia, di Conti. Conti è uno sconosciuto. Capita, purtroppo. Si dovrebbero inventare qualche migliaio di Gianfranchi per poter consentire di far conoscere agli italiani il discorso di Conti pronunziato nella Camera, la stessa in cui Mussolini aveva detto di voler fare dell’aula un bivacco di manipoli. Un uomo che imperterrito dice: «pur essendo una pecorella smarrita, di fronte al Messia che è oggi in Italia mi faccio ebreo, e sarò tra gli ebrei quando sarà crocifisso», e fu tra gli ebrei quando fu crocifisso, e chiuse con una profezia che poi si avverò: «l’unificazione degli interessi della dittatura che oggi si inaugura, e della monarchia, è la fine della monarchia e la nascita della repubblica, e noi andremmo incontro anche al diavolo per affrettare il crollo della monarchia ed edificare la repubblica sulle sue rovine». Questi personaggi che, hai detto bene tu, bisogna riscoprire perché sono la storia nascosta del nostro Paese, la storia politica con le sue passioni, con le sue miserie, con le sue miserie anche, perché a dirla tutta, diceva Conti, un uomo al quale ho voluto un grande bene, a scriverla tutta ci sono delle cose che fanno rizzare i capelli. Lui ricordava sempre che il primo capo dello Stato in repubblica era stato presidente della Camera fascista del ’24. Io, quando sentivo le cose così acute e intelligenti che ha detto Peretti, che hai detto tu, che ha detto Giancarlo Ghirra, mi sono ricordato alcune cose… mi venivano a mente di questo rapporto di ragazzo, tutto sommato, diciamo 30 anni, di me con La Malfa, e ricordo, adesso, qualcosa di interessante. Non si possono dire molte cose, tutto quello che riuscivo a dire, in un viaggio da Cagliari a Nuoro o a Sassari fatto con degli amici, a cui avevo detto «non si fiata quando si viaggia con La Malfa, perché lui deve raccontare», perché allora scopri alcuni episodi della vita italiana e chi è interessato si abbevera a quello che questi uomini possono raccontare. Per esempio il discorso di Lussu a Cosenza, di cui non abbiamo purtroppo i verbali, o il testo stenografico, perché Bruno Visentini fu investito dopo qualche giorno, vicino a Salerno, da un negro ubriaco e finì così col braccio ingessato e con i verbali del congresso di Cosenza, uno dei primi atti della vita democratica italiana, in una cunetta vicino a Salerno. Sentire il racconto di queste cose era per me motivo di grande soddisfazione, anche per cercare di capire la verità di certi episodi, e quindi mi venivano alla mente alcune cose che, se le dovessi raccontare tutte, dovremmo stare qui sino a mezzanotte. Ricordo soltanto un momento molto difficile per La Malfa, in cui lui si è dimesso da ministro del Tesoro del governo Rumor. Momento straordinario, molto interessante se qualcuno lo volesse ricordare. La Malfa era triste, perché dopo aver predicato che bisognava garantire la finanza pubblica di un paese europeo e non sudamericano, aveva dovuto misurare le sue forze e la sua capacità di orientare la spesa pubblica dal Ministero del Tesoro. E quindi aveva lasciato questi rapporti con il Fondo Monetario internazionale di cui parla Savona con un Giolitti particolarmente difficile da convincere a raccogliere le indicazioni del Fondo Monetario. Lui era triste perché il ministro del Tesoro non è un uomo che pensa a orientare la spesa ma è uno che torna a casa con le tasche cariche di raccomandazioni oppure cariche di problemi impellenti che vengono posti, nell’ attraversare la bouvette o il transatlantico di Montecitorio, da tutti i parlamentari che gli rifilano quintali di lettere perché è molto più importante in una struttura normativa come quella italiana il ministro del Tesoro che il presidente del Consiglio. Voglio dire che il discorso che fece a Nuoro fu un discorso carico di grande passione, di grande rabbia, con il rammarico, manifestato da La Malfa, di non aver potuto fare, da ministro, quello che si prefiggeva, per la mancanza di una forza parlamentare congrua. «Se avessi avuto 50 deputati avrei salvato questo Paese» urlò. Un Paese che aveva 7.500 miliardi di disavanzo della bilancia dei pagamenti, il che significa che noi avevamo un deficit della bilancia dei pagamenti molto pesante, come se oggi avessimo 140mila miliardi di disavanzo. Io, prima di cominciare, dissi a La Malfa, se riteneva opportuno che lo presentassi. Mi rispose in questo modo: «Hai letto il libro di Gianfranco Finaldi e Massimo Tosti?». «Sì, l’ho letto», risposi. «Leggi quello che i due giornalisti, Finaldi e Tosti, scrivono di me come ministro del Tesoro, mi basta». Voglio ricordare oggi quello che lui mi consigliò di leggere allora, che penso offra un quadro di cosa era, di cosa voleva essere, di come voleva gli italiani lo giudicassero da ministro del Tesoro. Scrivevano Finaldi e Tosti nel loro volume a proposito di Ugo La Malfa: «Si è ispirato a criteri spartani quanto inconsueti di sana amministrazione. L’elenco delle nomine ministeriali ha lasciato sbalorditi i burocrati del Tesoro abituati alla calata dei barbari di decine e decine di quadri di partito. Da Piazza dei Caprettari, si sono trasferiti con La Malfa tre o quattro persone, un record assoluto! Il precedente primato di Malagodi, che disponeva di una decina di fedelissimi, è stato frantumato. A voler essere pignoli soltanto il Capo-Ufficio Stampa è entrato nell’organico, gli altri sono clandestini e non gravano sul bilancio dello Stato, esempi fulgidi di volontariato e dedizione alla causa. Il personale è tutto dell’Amministrazione. Nessuna dattilografa repubblicana ha tentato di privare le signorine della carriera statale del gusto impagabile di stenografare dalla viva voce del Ministro. Consapevole della propria competenza economica e finanziaria, La Malfa non si è circondato di consiglieri privati o di addetti personali alla Segreteria, ma si è attenuto agli stessi principi di austerity che ha cercato di imporre agli italiani non appena assunto l’incarico. «I funzionari del Ministero hanno gradito la parsimonia del nuovo principale e il suo rispetto per l’ordine gerarchico costituito. Si sono abituati con minor entusiasmo al suo attivismo frenetico. La Malfa è già al suo tavolo alle 8.30 del mattino, ora in cui i burocrati più solleciti strizzano gli occhi cisposi davanti al cappuccino con brioche nella bouvette del Ministero. «Il Capo di Gabinetto di Sua Eccellenza è il dottor Felice Di Falco. Aveva coperto lo stesso incarico al Commercio Estero nell’immediato dopoguerra. Era recidivo, Presidente di sezione della Corte dei conti, aveva già occupato un posto importante nella burocrazia statale. Anche il capo della Segreteria particolare è un funzionario dello Stato, si chiama Antonio Intreccialalli. Alto, distinto, un sorriso cordiale stampato sulle labbra, Intreccialalli si è installato in un salone dalle proporzioni vistose al primo piano dietro una scrivania di tipo manageriale collocata in un angolo in una posizione strategica, accanto a una bandiera tricolore che dà all’ambiente un aspetto severo, ufficiale, patriottico. [ ... ]. Il rigore amministrativo ha indotto gli uomini di La Malfa a fare giustizia in pochi giorni di questuanti di varie provenienze. Questa è una segreteria, non un ufficio di collocamento o un’anticamera per clienti del potere e del sotto-potere». Ecco, lui voleva essere giudicato così dalla gente perché voleva essere questo. Quanto al suo rapporto con la Sardegna, lui era invidioso di Lussu, era un siciliano e Lussu aveva avuto questo partito, che era democratico, durante il fascismo che lo idolatrava come un grande leader. Ricordo che nel ’46, in occasione delle amministrative, il Partito Sardo d’Azione, cioè Lussu, conquistò se non erro 85 comuni. Lussu era veramente un capo carismatico. La Malfa era invidioso. E poi mentre in Sardegna c’erano fieri combattenti antifascisti, Cesare Pintus era uno di questi, in Sicilia il leader repubblicano aveva visto un po’ di Vandea, un po’ di reazione e forse una viscosità a capire un messaggio, a capire il messaggio che voleva mandare alle genti siciliane. Il fatto di avere sostituito nel cuore dei sardisti l’immagine di Lussu era quello a cui lui era particolarmente affezionato. E questo spiega il suo attaccamento alla Sardegna e ai sardi. Alla presentazione di “Sardismo e Azionismo negli anni del CLN”, Nuoro 3 giugno 1991: Anche se il libro non è conosciuto, gli argomenti sono però stati vissuti da gran parte dei presenti, credo dunque che possa essere dato un contributo ricco e valido per altri futuri lavori. Ho dieci minuti vero? Applichiamo il regolamento europeo… E si potrebbe far notte sugli argomenti che ha tirato fuori Gianfranco perché poi molti di noi sono testimoni di alcune cose che lui ha raccontato e quindi ogni tanto mentre parlava mi venivano in mente episodi… Qui abbiamo Mario Melis, Bustiano Maccioni, i meno giovani che possono raccontare migliaia di aneddoti su questi personaggi che ha tirato fuori Gianfranco. Alcuni che chiariscono la qualità degli uomini che giustamente ti hanno colpito, tu che sei del capo di sotto, credo che sia stato colpito da questa nuoresità, se così si può dire, di questi personaggi che erano di valore straordinario… Noi possiamo testimoniarlo, li abbiamo conosciuti già per valore intrinseco, se poi lo riferiamo alla merce che passa il convento attuale… Vedo qui la figlia di Salvatore Mannironi. Mannironi era un nostro avversario, per esempio, però che razza di rispetto che portavamo ad uno che è morto nella casa dove è vissuto durante il fascismo. Cioè a dire molto lontano da questi politici d’oggi che partono dalle casette e finiscono nelle grandi ville chissà come fatte con l’attività politica. Questo è tanto per dare un’idea. E la seconda cosa che voglio sottolineare di Gianfranco è che soffre di quel difetto dei cosiddetti storici o cronisti di cui parlava Alessandro Galante Garrone quando ha fatto un libro su Mazzini e Salvemini. Gli hanno rimproverato di essersi innamorato dei protagonisti della ricerca, dell’oggetto della ricerca, e questo capita. Io sento in quello che dice Gianfranco che c’è ammirazione per Mastino, per Titino Melis, per Oggiano, che possiamo mettere un gradinetto più avanti di tutti per questo proverbiale, come dire, quasi monomaniacale senso della moralità pubblica e io non so, forse qualcuno testimonierà che magari Oggiano non ha mai offerto un caffè a un giudice… Ammirazione per Lussu, per Gonario Pinna, si sente in quello che dice, e secondo me non sbaglia, perché Lussu, che oggi viene ripescato dal Partito Democratico della Sinistra come un uomo che ha rappresentato la sinistra, era un uomo straordinario. Io mi ricordo quando, arrivato nel luglio del ’44, di fronte al grande entusiasmo «arriva Lussu, arriva Lussu», a quest’ometto così, con la pipa, quasi non gli interessavano tutte queste cose. Lussu era un uomo che entusiasmava quando lo sentivi parlare, sia pure con questo incedere campidanese che ha fatto dire a qualcuno che era un linguaggio da tiranno da operetta questo triplicare, alla Cossiga, tutte le consonanti. Era un uomo, un grande leader, un uomo di discorsi, decine di migliaia di persone ad ascoltarlo, era I’ anti-Mussolini se così si può dire. E debbo dire che Lussu fece un errore gigantesco, che non è soltanto quello di aver cercato di italianizzare il Partito Sardo: per le sue prospettive il Partito Sardo era questa massa di 50.000 iscritti che lui scaricava in ogni congresso azionista. C’è un errore di prospettiva gigantesco, se voi rileggete quel discorso rabbrividite e il Partito Sardo non sbagliò, il cosiddetto centrismo sardista capì subito come erano le cose. Nel 1948 Lussu, pur avendo sciolto il Partito d’Azione e averlo consegnato al Partito Socialista, senza entrare lui nel Partito Socialista, perché lui rimase sardista – non è vero che aveva la doppia tessera: nel ’47 il Partito d’Azione si scioglie, passa nel Partito Socialista e Lussu è parlamentare sardista – spinge il Partito Sardo perché entri nel fronte popolare, fa un comizio all’Eden che io ho sentito, me lo ricordo perfettamente: «col fronte ma fuori dal fronte» c’era scritto nel manifesto. Nel silenzio distaccato del Partito Sardo d’Azione, come si diceva: «son cavoli di Lussu». Lussu in quel discorso, a sentirlo oggi c’è da rabbrividire, auspica l’ingresso dell’ armata sovietica a Milano, cioè dice: il giorno che arriveranno i soldati di Stalin… C’è un osanna al compagno Stalin, che ha fatto rabbrividire i sardisti, però fece un danno gigantesco, perché divise il Partito Sardo che perse nel ’48, anche per il pescaggio che fece la DC, con la maggioranza assoluta di De Gasperi, crollò in due anni da 80.000, quasi 90.000 voti a 62.000 voti e fu eletto soltanto Titino Melis deputato. E qua bisogna che io ricordi qualcosa, ché se oggi uno leggesse i discorsi di Titino Melis alla Camera dei deputati, con tutto il rispetto per i parlamentari sardisti, e non c’è nessun Carlo Sanna, mi dispiace tanto, che possa arrivare al livello, alla qualità degli argomenti esposti da Melis alla Camera dei deputati, così come giova ricordare uno straordinario discorso di Lussu sui problemi del banditismo. I giovani dovrebbero conoscere queste cose. Questo è il terzo valore di Gianfranco, di aver fatto il giudice istruttore, di aver fatto un libro che sobrio non è, come sobrio non è quello che fa perché se con meno di 600 pagine, secondo Gianfranco, questi libri non valgono, mentre invece ci sono in nuce 20 tesi di laurea in quello che lui ha scritto, basterebbe renderli più elastici, ma lui è un giudice istruttore, se c’è qualche cosa da dimenticare se ne fa carico e scrive, io credo con un temperamento come quello di chi dovrebbe smettere di scrivere domani; per sua fortuna è un ragazzo, c’è tanta di quella vita, io gli auguro di vivere, scrive con una fregola, che quasi quasi sembrerebbe che dovesse finire di scrivere: hai ancora cinquant’anni anni davanti a te. Falli un po’ più smilzi anche perché la gente li legge di più. Qua potevi fare benissimo tre libri. Un’ultima cosa, perché ripeto qua si farebbe notte a ricordare. Giustamente Gianfranco ha detto che Fancello è un uomo da ricordare perché non lo ricorda nessuno. C’è questo intervento della moglie di Torraca, Iolanda Torraca, che io ho avuto la fortuna di conoscere, Torraca che fece Volontà con tutti: Parri, Battaglia, Fancello ecc. Dice che non lo ricordano i socialisti, perché il Partito Socialista di oggi questi uomini li ha dimenticati, un po’ perché erano magari quelli che poi sarebbero andati o sono stati del PSIUP, non lo ricordano i democratici, i repubblicani perché partirono dal quel tronco e poi si sono perduti da un’altra parte, allora chi li ricorda? È giusto: qua bisogna non farli dimenticare. Io ho trovato un giorno al Lavoro nuovo di Genova Fancello. Mentre ricordavano Turati, lì c’era anche il dottor Giovannantonio Donadu che era ex-presidente della Corte d’Appello, uno di 1,35 di statura nato a Nulvi, che fece parte di un circolo repubblicano insieme a Michele Saba a Sassari, il quale era stato colui che aveva steso la sentenza al processo di Savona che è stata considerata un attacco a Mussolini, che “condannò” Rosselli, Pertini e Parri per la fuga da Savona di Turati. E mi raccontava Donadu che tra il presidente agnostico e l’altro magistrato fascista lui ha steso materialmente la sentenza e mi ha fatto vedere la minuta. Io sono tornato da Fancello e gli ho detto: «Hai ricordato la fuga di Savona, il valore di Parri, il valore di Pertini, ecc., ma questo magistrato alto 1,35, un sardo classico, che ha avuto il coraggio di scrivere la sentenza, eccola qua, in minuta, la sentenza del processo di Savona, lo vogliamo ricordare?». Mi ha dato ragione: «allora mi fai una lettera», io mando una lettera che lui pubblica sul Lavoro e allora io sono andato da… Donadu, era piuttosto anziano, e gli ho detto: «Dottor Donadu, ha letto il giornale di oggi?». «Cosa c’è?». «Eh, c’è una lettera in suo ricordo». «Ah!» dice, poi addirittura è diventato talmente conosciuto che fu fatto un originale televisivo in cui c’era finalmente il magistrato che non aveva portato Turati in Corsica, ma tuttavia aveva avuto il coraggio di fare una sentenza contro il fascismo…
di Gianfranco Murtas - 27/02/2018
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