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Ora che… passano sempre più veloci gli anni e si fanno più frequenti e spontanee le occasioni, e anche le necessità, dei consuntivi, mi capita – come in un laico percorso fra capisaldi di religione (vocazione, senso delle cose e dovere) – di considerare quanto io sia stato fortunato di vivere una stagione della storia in cui la politica, pur fra le insufficienze degli uomini, era ancora considerata un’arte ispirata da valori etico-civili che davano a protagonisti e comprimari, e a noi nel coro dei partecipanti consapevoli, di critici non plaudenti, di cittadini non sudditi, cioè, come un senso di nobiltà missionaria. Era come se fossimo, noi della militanza, degli aggregati, responsabili e rispettati, nelle officine di fabbrica del bene comune. Il Partito Repubblicano Italiano io l’ho conosciuto così, nel 1970 – l’anno del varo delle regioni a statuto ordinario, per me l’anno che mi avrebbe promosso diciottenne (allora non ancora però maggiorenne). Un partito intelligente, di intelligenti; bello nella sua dimensione di povertà materiale, ancora di estrema minoranza in quanto ai numeri delle conte elettorali, legato nell’Isola ad un patto solidale con il Movimento Sardista Autonomista. Era Ugo La Malfa che s’imponeva alla attenzione e all’ascolto, e alla riflessione delle sue argomentazioni, s’imponeva alla ammirazione di quel presente che, studiandolo poi, era sempre più chiaro fosse coerente, evolutivamente allineato al suo passato non solo e non tanto di economista del centro studi della Comit, ma soprattutto di democratico antifascista – in galera per qualche mese a 25 anni a San Vittore, là insieme al 23enne nostro Titino Melis studente-lavoratore a Milano – e quindi di resistente nella guerra di liberazione, e di costituente della Repubblica voluta dal popolo il 2 giugno 1946. Doveva esser stato press’a poco così fra i neofiti cristiani – cito la cosa perché mi riporta ai miei studi e alle mie passioni – quando essi s’accompagnavano ai primi apostoli predicatori in un ambiente più spesso ostile: tale doveva essere il carisma personale, la credibilità dell’intelligenza e della coscienza degli apostoli in predicazione, che i proseliti arrivavano per sentimento prima ancora che per convergenza intelligente, affascinati, e pronti a dare anch’essi del loro meglio, senza aride contabilità di convenienze. Repubblicani con Ugo La Malfa. Così nella nostra democrazia italiana e sarda si presentava, in qualche comizio cittadino, e a tutti dalla radio e dalla televisione e dai giornali, quotidiani e settimanali anche di grande diffusione, la personalità prorompente di Ugo La Malfa, in quell’epoca affiancato da Indro Montanelli, sempre teso a spiegare, anche nei duetti con il grande giornalista e con un eloquio che si sviluppava tutto dentro il rigore degli argomenti e la considerazione fondamentale che un sistema si tiene se si basa sulle compatibilità dei fattori combinati. Erano le ragioni non compromissorie di una forza portatrice di una storia antica, senza pagine buie. Portatrice invece di una storia d’oro, tutta testimoniale nella prefigurazione delle istituzioni rappresentative e regolatrici del vivere comune, e insieme – nella modernità – di una propensione e anzi di una cultura analitica e pratica circa l’organizzazione e lo sviluppo della società e dell’economia, sostenuta da una tensione patriottica, democratica e riformatrice, tutta orientata a rinforzare gli istituti di libertà e ad allargare gli spazi di giustizia sociale, nelle macroaree territoriali così come nei ceti della produzione. E all’orizzonte l’Europa come era stata impostata, pur non senza fatiche e anche contraddizioni, ma certo con arditezze ideali, dai padri costituenti che venivano tutti dalla migliore storia delle rispettive nazioni. Quando mi capita di discutere, o anche soltanto accennare di politica con i giovani oggi di venti-trent’anni, mi accorgo dolorosamente dell’alterità dei fondamentali come anche li esprime il vocabolario. La devastazione valoriale introdotta insieme dalle macerie della cosiddetta prima Repubblica e dal berlusconismo come materializzazione volgare dello spirito pubblico, non potrà forse essere mai rimediata per la inadeguatezza, ogni giorno di più confermata, delle forze che dovrebbero esprimere altro, richiamandosi alle correnti di pensiero che hanno dato sostanza di vita morale e intellettuale, nei secoli, all’Italia. (Nel modesto campo nostro, aver visto il PRI degli anni di Giorgio La Malfa e poi di Nucara zappettare gregario, anche in Sardegna, le male erbe di Forza Nazionale, o i nuovi capi del Partito Sardo d’Azione fattosi perfino nazionalitario-nazionalista consegnare la bandiera dei Quattro Mori, con gli evviva di rito, al sultano egotista ha sfiancato mente e cuore imponendo a molti, anche a me, la rinuncia forse definitiva ad ogni nuova avventura pubblica. A tanto naturalmente si è dolorosamente affiancata la mortificazione per la spregiudicata conversione opportunistica – un quarto d’ora di orologio – di quei sedicenti repubblicani passati alla greppia forzista-leghista-parafascista: se fossimo stati negli anni ’20, Massidda e Moro e Pirastu e Farci e gli altri non sarebbero stati con Mastio e Pintus e Saba e Pinna, ma, per la casacca nera e gli inni al duce, con Endrich e i pur cari nostri Anchisi e Mulas e Castelli e Demartis e Deffenu…). Repubblicani con Giovanni Spadolini. Era venuta, dopo la lunga stagione della segreteria e poi presidenza di Ugo La Malfa, dico dopo il 1979, la leadership prestigiosa di Giovanni Spadolini. In forme diverse che in precedenza, e con disponibilità piuttosto ecumenica, Spadolini rilanciò il meglio della tradizione repubblicana, sforzandosi di definire per il nostro partito lo spazio proprio del partito detto “della democrazia” (così derivato e connotato dalle intuizioni ed elaborazioni di un Luigi Salvatorelli mazziniano e azionista): quello spazio identitario che pone il centro della libertà nel civile e nell’istituzionale piuttosto che nell’economico (come storicamente era stato per l’area moderata liberale e quella di sinistra del socialismo), attivando nel contempo quelle relazioni che, nella politica del pentapartito, coinvolgevano da protagonisti il fronte socialista e quello liberale fuori dai dogmatismi di un tempo, meglio equilibrando il peso e le influenze del partito di maggioranza e matrice cattolica. In corrispondenza con lo Spadolini direttore del “Corriere della Sera” (il tempo del conio della formula della “Repubblica conciliare”, speculare negli auspici a quella, non meno fortunata, del “Tevere più largo”, che rimandava alla precedente direzione del “Resto del Carlino”), lettore da ragazzo del suo “Papato socialista” – il libro che uscì negli anni della collaborazione al “Mondo” di Mario Pannunzio e che fu recensito anche dal nostro Michele Saba… – ebbi l’onore, spinto da Armandino Corona, con il quale ero entrato in intimità amicale, di presentare quell’astro nascente – nato nel giornalismo, nella università, nella cultura, nascente ora nella politica – a Cagliari, in piazza Yenne, al suo primo comizio sardo, in occasione delle elezioni regionali del 1974. Pochi mesi dopo egli sarebbe divenuto ministro fondatore dei Beni culturali e ambientali, e quindi della Pubblica Istruzione, presidente del Consiglio, ministro della Difesa, presidente del Senato. E intanto, appunto dal 1979, segretario nazionale del PRI, dopo essere stato fin dl 1972 presidente del gruppo senatoriale e presidente della commissione Pubblica Istruzione di Palazzo Madama. Ho sempre amato (oltreché ammirato) la figura di Giovanni Spadolini, anche quando la sua tendenza mediatrice, quasi morotea, mi poneva problemi e mi strappava impazienze. A lui – figlio di quel certo Guido Spadolini, pittore non minore che accompagnò Alinari in Sardegna due anni prima della grande guerra, per le riprese fotografiche che costituiscono un capolavoro documentario – ho dedicato, nel 1995, un libro, in parte sostenuto, circa i costi di stampa, dai contributi regionali ottenuti dall’associazione Cesare Pintus e presentato, fra gli altri, da Franco Farina nella sala conferenze del CIS (“Per Giovanni Spadolini Per Bruno Visentini”), dove fu donato ai presenti. Lo debbo dire. Spadolini, per tutto quello che rappresentava nel suo “prima” oltre che nel suo “presente”, ha costituito un motivo rafforzativo della mia militanza dai primissimi anni ’70 al 1992, ed anche di quella ideale, non più associativa, seguita agli sconvolgimenti del 1992-94… E al dovere dell’omaggio alla sua memoria democratica – memoria che mi sono sforzato di onorare, tanto più sulla stampa, in numerose circostanze – credo abbia offerto lui stesso, come in testamento, come in limine ma per ricapitolazione dell’intero precorso, la ragione più nobile: è stato con il discorso con il quale negò la fiducia al primo governo Berlusconi, scadente sotto ogni profilo morale e politico-amministrativo, preannuncio di ancor più gravi scadimenti, di degrado, portato alle istituzioni. E’ stata cosa buona che in più occasioni gli amici politici di un tempo gli abbiano confermato rispetto ed ammirazione per quanto, come legislatore e uomo di governo, come presidente del Senato più volte supplente dei capi dello Stato Cossiga e Scalfaro, abbia operato nell’interesse generale della nazione, nobilitando la scuola di pensiero alla quale, nelle evolutive associazioni ideali – fra liberalismo gobettiano e mazzinianesimo e repubblicanesimo variamente declinato (quello federalista cattaneano, quello autonomista dell’Asproni, quello socialisteggiante del Ferrari e magari del generale Garibaldi) –, dichiarava di fare riferimento. La testimonianza intellettuale e politica di Antonello Mascia. Così è stato anche l’11 maggio scorso, nella sala della Fondazione Banco di Sardegna, ad iniziativa della associazione Cesare Pintus e della sezione “Salvatore Ghirra” dell’AMI. Sulla scia della relazione inviata dal professor Cosimo Ceccuti, presidente della Fondazione Spadolini-Nuova Antologia, datosi all’ultima ora assente per gravi imprevisti familiari, sono intervenuti, al microfono, in diversi. Fra essi Antonello Mascia, che ha rappresentato una delle intelligenze più vive e generose che nella dirigenza repubblicana sarda degli anni ’70 e ’80 hanno dato onore all’area politica e insieme a quella culturale della “democrazia senza aggettivi”, secondo l’espressione nota di Spadolini stesso. Giurista di salda cultura umanistica, funzionario pubblico nella vita professionale dopo anni trascorsi anche nelle collaborazioni alle cattedre universitarie, liberale progressista di formazione giovanile, Antonello Mascia per lunghi anni, dal 1972, è stato uno dei punti di riferimento – come un fratello maggiore – anche delle Federazione Giovanile Repubblicana di Cagliari, al tempo raccolta ed attiva nella sede di via Sonnino e cui partecipavo con utile godimento, e intensamente, anche io. Il suo sguardo si è sempre dilatato agli scenari della politica nazionale ed internazionale, entro cui ha collocato le dinamiche della politica e della economia dell’Isola. Filoatlantico e filoisraeliano con nettezza di posizioni sempre, particolarmente incisiva – porto questa testimonianza – era la sua lettura degli svolgimenti sociali, o politico-sociali della metà degli anni ’70, con quelle ipotesi combinatorie fra i “produttori” – fossero forze del lavoro o della impresa – in preminenza rispetto ai profitti dei garantiti della pubblica amministrazione , e in contrasto frontale con gli interessi assistiti e parassitari di un certo mondo protetto dalla politica consociativa. In questo senso seguì con crescente interesse la linea-“Repubblica” di Scalfari, che ebbe una positiva dialettica con il governo bicolore Moro-La Malfa, e poi accompagnò il PRI negli anni tremendi del terrorismo, valorizzandone le aperture di credito al PCI svincolatosi dalla obbedienza sovietista, fino al tentativo di presidenza governativa compiuto da Ugo La Malfa, su incarico di Sandro Pertini, nel 1979… Ecco il testo del breve ma lucido ed impegnativo intervento di Antonello Mascia alla manifestazione dello scorso 11 maggio: Confesso che per lungo tempo il mio approccio all’opera storica di Giovanni Spadolini è stata del tutto insufficiente. Avevo infatti letto in gioventù molti dei suoi libri, ma senza continuità e soprattutto senza cogliere il nesso esistente tra loro; solo molto più tardi ho compreso che i suoi libri dovevano essere considerati singoli capitoli di una più vasta opera: la storia del Risorgimento. Storia che Spadolini studia, e qui è evidente l’influenza di Gobetti, non solo nel suo momento eroico, ma anche nel periodo successivo, inevitabilmente contraddistinto da manchevolezze ed errori. E’ una storia concentrata non solo sui vincitori, cioè sui cavouriani e, aggiungo, magari scandalizzando qualcuno, sui mazziniani puri, perché Spadolini dedica la sua attenzione soprattutto ai vinti, sia a quelli che si opposero al Risorgimento (l’opposizione cattolica), sia a quelli che avrebbero voluto un Risorgimento diverso. Di qui la sua attenzione a Cattaneo, a Ferrari, a quella singolare figura che è Montanelli,di qui il suo studio di partiti politici collocati all’opposizione, quali il repubblicano e il radicale, realizzando su quest’ultimo il maggior contributo sino all’opera di Galante Garrone. Peraltro va detto che Spadolini superò presto la concezione gobettiana, troppo unilateralistica, e pur denunciando le imperfezioni del moto risorgimentale, ne sottolineò, parimenti, il grande risultato positivo, che non era il rinascere di uno stato, che non era mai esistito in precedenza, ma il collegamento di una cultura, già con una struttura unitaria che da secoli si esprimeva mediante la stessa lingua, con il filone umanistico, il che significava il ritorno in Europa. D’altra parte Spadolini non mancò di rilevare anche i limiti, ad esempio, dei radicali, che, partiti da posizioni apparentemente intransigenti (Cavallotti), finirono per approdare al governo, non con Giolitti, ma con Sonnino, cioè con il capo della destra, tenendo poi nel maggio del 1915 un atteggiamento ambiguo, ma sostanzialmente di appoggio a Salandra. Perché Spadolini ha questo interesse per le minoranze? Lo ha perché ritiene che spesso in queste minoranze (che in quel momento storico non potevano vincere e che, probabilmente, è stato meglio che non abbiano vinto) sono presenti valori che continuano a sussistere, trascurati dai più, ma che al momento opportuno, quando le condizioni saranno favorevoli, emergeranno. Qualcuno ha visto in questo atteggiamento di Spadolini una vicinanza alla scuola francese degli “Annales”; non ho la competenza per esprimermi in proposito, ma scuramente vi è in lui un interesse a studiare nel loro divenire uomini e correnti di pensiero, prima vinti e poi vincitori, per spiegare le ragioni del loro oblio prima e del loro successo poi. Di qui il rifiuto di una storia concepita come susseguirsi di episodi non collegati tra loro, con cesure nette e la pretesa di cancellare il passato. Di qui l’accettazione del dialogo e quindi della mediazione con conseguente compromesso come metodo nella vita politica, di qui il giudizio positivo su Giolitti, su De Gasperi, su Moro (sul quale ultimo avrei, invece, qualche riserva ), di qui il ritenere fondamentale la collaborazione tra cattolici e laici, proprio al fine di bloccare l’integralismo cattolico che lui aveva studiato e che sapeva non scomparso con la stipula di Patti Lateranensi, ma anzi rafforzatosi, comparendo nella nuova forma, anche più pericolosa, della sinistra democristiana. Ovviamente si rendeva conto che le elezioni del 1948 avevano registrato una grande differenza tra le due forze e di qui l’assunzione di posizioni apparentemente contraddittorie, ma invece legate da un filo logico di assoluta coerenza, no al centro sinistra quando questo appariva un incontro tra il populismo cattolico (Fanfani) e quello socialista, sì alla stessa formula quando sembrava che la DC potesse essere condizionata dall’unificazione socialista realizzata su basi socialdemocratiche e delusione per la successiva scissione che dava mano libera al massimalismo socialista; in ogni caso rifiuto dell’emarginazione dei liberali, troppo spesso accumunati ingenerosamente dalla polemica politica alla destra monarco-fascista. A questo proposito possiamo ritenere che sia stata per Spadolini una soddisfazione personale che nel suo governo, per la prima volta dal 1950, siano seduti insieme ministri liberali e ministri repubblicani. Attenzione, però: il ritenere fondamentali il compromesso e la mediazione non significava che gli stessi dovessero essere raggiunti a qualunque prezzo; c’erano, infatti, limiti che non potevano e non dovevano essere superati. Esempi, tra l’altro: come direttore del “Resto del carlino” stigmatizzò il comportamento dell’ Arcivescovo di Bologna, che faceva addobbare a lutto le chiese per la condanna del Vescovo di Prato, condanna da lui approvata senza se e senza ma; rifiutò, unico tra gli uomini politici italiani, di incontrare Arafat; si dimise da Ministro della Difesa per l’atteggiamento accondiscendente nei confronti del terrorismo palestinese; accettò, per sancire il principio che le presidenze della assemblee legislative non devono essere oggetto di mercanteggiamento tra le forze politiche, la sfortunata candidatura a Presidente del Senato nel 1994. Tante sono le cose che si potrebbero aggiungere, vorrei solo concludere invitando tutti a rileggere il suo ultimo discorso al Senato, discorso con il quale negava la fiducia al governo Berlusconi. L’intervento rappresenta, nella sua concisione, il manifesto, culturale prima ancora che politico, per una forza laica e progressista che si voglia opporre all’attuale degrado, respingendo il plebiscitarismo che, in nome di una malintesa sovranità popolare rappresentata dalla piazza, pretenda di delegittimare il Parlamento e negare l’indipendenza della magistratura e la garanzia della Corte Costituzionale, e rifiutando qualsiasi forma di federalismo che, con il pretesto di esaltare il sistema delle autonomie locali, neghi la solidarietà delle regioni più ricche con quelle più povere e quella delle categorie più forti con quelle più deboli, mentre va affermato il concetto di una Italia senza distinzioni, come concludeva Spadolini, tra Busto Arsizio e Battipaglia. Quel discorso della primavera 1994. La statura politica ed etico-civile e culturale di Giovanni Spadolini – concordo pienamente con quanto asserito da Antonello Mascia – è tutta rappresentata in questo suo discorso parlamentare che ne fissa la collocazione fra gli avversari più autorevoli, e della prima ora, del nefasto (immorale e becero) ciclo berlusconiano. Pubblicai il testo, lo ripubblico adesso con gli stessi sentimenti. E con un’aggiunta: si è teso a offuscare l’immagine pubblica di Giovanni Spadolini con allusioni infelici (direi anche infami) di cedimento a sirene gelliane. Chi conosce le cose le rimanda tutte al mittente senza coscienza e senza decenza. Giovanni Spadolini rimane una figura che ha onorato la Repubblica e il partito della Repubblica. Ecco il discorso del senatore a vita, il 17 maggio 1994: Signor presidente del Senato, signor presidente del Consiglio, onorevoli colleghi, un autentico privilegio del presidente del Senato è quello di non votare. E mai come nel momento attuale rimpiango questa regola, che mi ha accompagnato per tutti gli anni della mia presidenza, anni in cui mi sono ispirato ai principi dell’arbitrato e della mediazione super partes, connessi alla stessa istituzione presidenziale, istituzione che cancella, o dovrebbe cancellare, le stesse origini politiche del titolare dell’ufficio, imponendogli tutte le necessarie cautele e tutte le necessarie rinunce. Mi richiamo a questo lungo periodo di presidenza del Senato per dirle, signor presidente del Consiglio, che non potendo accordarle la fiducia, ma tenendo conto della mia esperienza al vertice di Palazzo Madama per tanti anni, mi asterrò dal voto. Nel suo programma, che è un vasto e composito programma, frutto di un’alleanza vasta e composita, che non si era presentata come tale ed in modo definito all’elettorato italiano (altro che svolta maggioritaria), ci sono elementi accettabili. Ma ci sono anche elementi che debbono essere rifiutati o rettificati o reinterpretati. Ci sono speranze condivise da tutti gli italiani: la lotta per la maggiore occupazione, in primo luogo mescolate a trasformazioni, talora confuse, che richiederebbero anni o decenni. Noi non vogliamo impedirle di mettere alla prova quel che deve essere messo alla prova, di sottoporre al giudizio delle Assemblee, sia di questa sia della Carnera, quelle misure da cui possa emergere un consenso parlamentare più vasto di quello su cui si regge la sua coalizione di governo, solcata da dissensi che hanno riempito le cronache di queste settimane e confermato posizioni fortemente divaricanti e, in taluni casi, dilaceranti. Ma c’è soprattutto un elemento dal quale, forti della nostra lunga esperienza parlamentare, noi vorremmo metterla in guardia con spirito di amicizia: quello di ritenere che col suo governo cominci una nuova storia, che il nuovo si contrapponga meccanicamente e insieme impetuosamente al vecchio, che tutto il vecchio (la costruzione della Repubblica attraverso la lotta di Liberazione, la scelta atlantica ed europeistica degli anni ’50, il salto dall’Italia silvo-pastorale all’Italia industriale, la mediazione, in vari periodi feconda, fra forze laiche e forze cattoliche), che tutto questo vecchio sia da respingere o da abbandonare. E che il nuovo – e quale nuovo! – sia da esaltare in modo indiscriminato ed acritico, in omaggio ad una fiducia nel futuro che sembra prescindere dalla gravità dei problemi aperti (penso solo al debito pubblico), delle difficoltà da superare, delle eredità negative che dobbiamo cancellare, aggravate dai fenomeni corrosivi che hanno colpito e degradato le istituzioni. Rispetto alle invadenze e alle sopraffazioni della partitocrazia (una parola che noi conosciamo bene fin dalle sue origini, all’alba degli anni ‘50, e che non abbiamo tardato ad impiegare negli ultimi anni e decenni) non c’è stato un solo segnale di novità, un solo elemento di svincolo da quella che era, con le conseguenze che tutti abbiamo pagato, la sovrapposizione insolente dei partiti e dei relativi apparati sulla vita delle istituzioni. E il fenomeno riguarda anche partiti appena nati o addirittura neanche nati come tali, come il movimento da lei capeggiato ed animato. Chiudiamo dunque, per sempre, questo capitolo, riconoscendo che la storia di una nazione abbraccia in sé tutte le esperienze che è chiamata a percorrere. Anche lei, signor presidente del Consiglio, di cui sono ben note le benemerenze imprenditoriali, potrà dare un contributo a questa storia. A patto che s’accinga con umiltà ad un’opera cui non è chiamato da nessuna Provvidenza e da nessun destino, ad un’opera che è indicata dal corpo elettorale, ma che si iscrive nel solco delle generazioni che si succedono, portatrici di successi e di fallimenti, di traguardi e di sconfitte di conquiste e di delusioni. Quando faremo fino in fondo la storia di Tangentopoli e della corruzione, vedremo che le responsabilità sono assai più larghe di quelle che una propaganda sommaria ha tentato di definire e che la corruzione – questa maledizione contro la quale ci siamo sempre battuti fin dai tempi della P2 che ne fu una delle prime e più sconcertanti manifestazioni – investe tutta una realtà politica e sociale, dalla quale nessuno può considerarsi esente. E noi abbiamo sempre posto la questione morale, anche in anni lontani, quando ci toccarono responsabilità di governo analoghe alle sue, al centro della nostra azione e del nostro impegno, quali che fossero i rischi da correre o i sacrifici da affrontare. Storia che continua, dunque, non storia che comincia. La nostra è la storia di una nazione che si è costruita gradualmente, in base ad una identità di lingua e di cultura che ha preceduto di secoli la formazione dello Stato, in un processo che appare miracoloso, ma che in realtà è stato faticoso, contraddittorio, spesso paradossale, pieno di sacrifici e in gran parte deludente («Risorgimento senza eroi», come avrebbe detto il nostro Gobetti). Ecco perché tutto nella storia italiana è stato pagato a così caro prezzo: nulla ci è venuto mai gratis. Cominciando dalla faticosa ricostruzione post-bellica, dall’avvio dell’epoca repubblicana, dalle recenti e quanto faticate vittorie contro il terrorismo e contro l’inflazione. Guardiamoci intorno. Così come non ho prestato troppo ascolto alla cosiddetta teoria della «fine della storia», elaborata all’indomani del crollo del muro di Berlino, mi lasci dire che potrei difficilmente accettare l’idea di «nuovo inizio della storia» solo perché un governo è succeduto ad un altro, dopo una crisi che ha registrato contraddizioni e condizionamenti e in attesa di un chiarimento definitivo circa sfera privata e sfera pubblica nello stesso ambito delle sue personali attività imprenditoriali (la televisione, per intenderci). Rispetto delle regole, trasparenza, moralità. Tutto questo fa parte della fisiologia delle democrazie. In democrazia si va al governo, non si va al potere: la parola «potere» è stata introdotta nel mondo moderno dalle ideologie dittatoriali o dalle giunte militari; non si va al potere, si va al governo e sempre con le valigie pronte... sempre con le valigie pronte. Ricordiamo quella frase del Moro bicolore (un Esecutivo del quale, io sì, mi onoro di aver fatto parte vent’anni fa esatti, nel 1974-75): «Ogni giorno dobbiamo viverlo indifferentemente come il primo o l’ultimo della nostra fatica». Oggi di fronte a lei c’è un paese impegnato a riscoprire, in una fase di profondo travaglio e di profondissimo disorientamento, la propria identità. E non sono certamente scomparsi gli squilibri che per tanta parte hanno caratterizzato le vicende multiformi e tormentate del nostro popolo, squilibri aggravatisi negli ultimi anni. Squilibri che, se lei otterrà la fiducia delle Camere, toccherà anche a lei tentare di rimuovere. Ma nonostante tutte le contraddizioni l’Italia è una democrazia che ha riconquistato a duro prezzo un posto nel consesso delle nazioni civili, una democrazia che, attraverso il superamento dei confini, ha saputo guardare all’Europa, spingersi anche al di là dell’Oceano Atlantico. Noi dobbiamo sempre fare i conti con i nostri alleati e partners dell’Europa comunitaria, cui si unisce la comune lotta contro il totalitarismo, in tutte le forme in cui si è espresso in questo secolo. E quando dico totalitarismo dico razzismo (Vicenza insegna), dico antisemitismo, dico xenofobia, dico sopraffazione e violenza, dico anche localismi a sfondo tribalistico (quelli che ci hanno portato all’Europa frantumata: la sindrome jugoslava per intenderci). Né sapremmo concepire il mondo moderno senza la grande lezione di civiltà, di serietà, di scienza ed amore per l’Europa che ci ha dato la democrazia nordamericana anche nella lotta contro il nazi-fascismo. Il rischio è piuttosto un altro. L’isolazionismo che sorge dal Pacifico e che potrebbe spingere gli americani a separarsi dall’Europa, da un’Europa che in questo momento appare incerta e disorientata come non mai e rispetto alla quale deve essere definita una linea di governo assai più precisa e rigorosa di quella che appare nei sommari, necessariamente sommari, accenni del suo discorso. Non meno del terzaforzismo europeo, con qualche venatura di nazionalismo e di nazionalpopulismo, due virus mai completamente debellati, che potrebbero tendere a staccarci dal vincolo euroatlantico. La vera rivoluzione è stata quella atlantica, che ha assorbito insieme la rivoluzione francese e la rivoluzione americana, creando un nuovo diritto umano che è compito nostro perfezionare e adeguare ad un mondo che cambia. E già che stiamo parlando di diritto e di trasformazioni, mi lasci soffermare per un attimo sulla questione delle riforme istituzionali: termine che va usato con tutta la prudenza, la sagacia e l’accortezza del caso, al di fuori di ogni facile dilettantismo di tipo goliardico e senza dimenticare l’indispensabile riforma elettorale, con l’auspicata introduzione del doppio turno. Dobbiamo rivedere la Costituzione, dobbiamo adeguarla alle esigenze di una democrazia funzionante, di una democrazia dell’alternanza (ancora tutta da costruire). Parlamento forte vuol dire governo forte. Ma dobbiamo farlo al di fuori di ogni tentazione di sovvertimento. Di sconvolgimento dei principi che hanno presieduto alla costruzione della Repubblica, sul fondamento di legittimità del patto nazionale, punto di incontro fra primo e secondo Risorgimento. Non è con i colpi di teatro che si affronta una materia delicata ed essenziale come questa: ricordiamo che una cosa è la forma di governo, tutt’altra cosa è la forma di Stato. Mi torna in mente una frase di Musil ne “L’uomo senza qualità”: «Ogni generazione intenta a distruggere i buoni risultati di un’epoca precedente è convinta di migliorarli». I polveroni sollevati dal «movimentismo» istituzionale (che ha caratterizzato gli ultimi anni della vita italiana, non senza complicità anche nostre, dei partiti storici, vecchi, della democrazia italiana, che ora sono in via di superamento e di trasformazione nel nuovo quadro del sistema maggioritario, che per ora è soltanto tendenzialmente maggioritario) allontanano le riforme possibili. Certo non le avvicinano. Riformismo non è movimentismo. Essere «partito riformatore» non vuol dire in nessun caso essere partito «ginnastico». Guai a contrapporre la piazza al Parlamento. Guai a contrapporre i fondamenti della Costituzione, sugli inviolabili diritti umani, ad una presunta radice plebiscitaria, contestatrice degli ordinamenti dello Stato. So bene cosa significa portare la responsabilità della guida di un governo, signor presidente del Consiglio, e so che ogni consiglio può essere utile. Il mio consiglio a lei, signor presidente, non è di procedura ma di sostanza, in questo caso. Qualunque schema di modifica dei lineamenti costituzionali del paese, entro quei limiti insuperabili che ho tracciato, dovrà necessariamente essere il frutto di un dibattito da non confinare all’interno dell’angusto perimetro di una maggioranza. La Costituzione rappresenta un bene comune dell’intero paese, della maggioranza non meno che dell’opposizione. Per questo auspico vivamente che le forze componenti il suo governo, con angolazioni e origini cosi diverse, si rendano conto che il terreno ideale sul quale far maturare le riforme istituzionali è uno solo: il terreno parlamentare. Esiste l’articolo 138 della Carta costituzionale. È alle procedure e alle regole indicate in quell’articolo che bisogna rimanere fedeli, con la consapevolezza che i principi supremi fissati dalla Costituzione, fra i quali l’indipendenza della magistratura e il mantenimento della suprema garanzia costituita dalla Corte costituzionale, non possono cedere di fronte ad alcuna altra fonte di diritto, plebiscitaria o di altra natura. Alle forze politiche che invocano la tutela e il potenziamento delle peculiarità regionali e locali – che sono tanta parte della complessa storia d’Italia – rispondo che si tratta di un’aspirazione legittima nell’ambito di quella che Piero Calamandrei chiamava la «Repubblica delle autonomie», che come tale è stata configurata, anche se non sempre nel corso di questi decenni attuata ed anche se in certi casi tradita. La valorizzazione di questo patrimonio culturale e spirituale, ricchissimo e variegato, deve passare attraverso un potenziamento degli enti territoriali che tenga conto degli errori compiuti in questa prima fase della Repubblica, cominciando dal terreno fiscale. Ma il tutto in un quadro unitario, perché l’Italia è una e indivisibile. Il che esclude compromessi di tipo confederale o frammentazioni di stampo centro-europeo che sono al di fuori della storia. E senza dimenticare mai che l’unità nazionale si è realizzata nel post-Risorgimento e successivamente con la Repubblica, attraverso forme dirette e indirette di solidarietà delle regioni più ricche a favore delle regioni più povere (guai ad ogni forma di anti-meridionalismo, io riaffermo qui la mia fede assoluta nel Mezzogiorno) e delle categorie forti a favore delle categorie deboli. Questa è l’Italia; noi portiamo, avrebbero detto i nostri vecchi, un amore secolare all’Italia. Senza distinzione fra Busto Arsizio e Battipaglia.
di Gianfranco Murtas e Antonello Mascia - 6/07/2015
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