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Repubblicani per sempre. La coscienza morale, l’impegno civile, la promozione culturale. Rosabianca Cadeddu Rombi con noi

     Butto giù queste poche righe di ritorno da una visita solitaria e di prima mattina, lunedì 9 marzo – vigilia del gran giorno mazziniano –, al sepolcro di Rosabianca Cadeddu Rombi, creatura dolce, discreta, signorile, generosa, colma di valori. Direi meglio: valore enorme lei stessa, nell’essere e nel condursi. La sua stessa figura fisica – statuaria come un’opera di Francesco Ciusa – esprimeva dolcezza e signorilità, discrezione e generosità. L’abbiamo avuta con noi, fra repubblicani, e alcuni, incrociate alla militanza politica, per altre partecipazioni, per lunghi anni. Gliene siamo grati, perché ci ha migliorato, o amiamo pensare di essere stati davvero migliorati, perché rispondenti al suo appello: persone di qualità, cittadini e democratici di qualità, repubblicani che ci credevano e ci credono. Ancora fiori per lei, come quelli accosti alla lapide in attesa di incisione che ho trovato arrampicandomi fin lassù.
     «Noi mazziniani», soleva dire con naturalezza e con orgoglio. Ho sempre dato per scontato la cosa e non le ho mai posto la domanda di come e quando l’amore al mazzinianesimo, al repubblicanesimo segnato dagli apostoli della democrazia italiana, fosse sorto in lei, e come fosse maturato nel tempo. D’altra parte siamo sempre parziali e in ritardo negli adempimenti, non sappiamo mai gestire al meglio l’agenda, che gira il foglio senza chiedercene mai conto, senza darcene preavviso, e peggio per noi.
     Avevamo anche concordato, tempo fa, una bella chiacchierata di ricostruzione di una pagina di vita che la vedeva studentessa delle scuole di monsignor Antonio Tedde, e poi anche di insegnante, in quel passaggio – fra l’una e l’altra esperienza – dagli anni ’50 agli anni ’60. Lei adolescente, lei giovanissima, all’esordio magistrale, prima di incontrare Marco. Ero stato relatore a un convegno per il 30° della morte del grande piccolo vescovo alerese, e le avevo riferito la cosa, e lei aveva iniziato a delineare il campo dei suoi ricordi, su cui avremmo dovuto tornare.
     Il resto degli incontri e delle conversazioni riguardavano vicende civiche di Cagliari, la tribolatissima vertenza di don Mario Cugusi con l’arcivescovo Mani. Entrambi noi amici del parroco di Sant’Eulalia, impegnati, ciascuno a suo modo, chi a battagliare, chi a consolare o incoraggiare. E un altro prete sui nostri passi avevamo e… condividevamo nello stesso lungo periodo – diciamo in questi ultimi quindici-vent’anni: don Ettore Cannavera. Rosabianca collaborava o alle lezioni bibliche tenute da don Cugusi, all’Ostello della gioventù o all’ex Dettori, oppure alle serate culturali alla Collina, e il vertice lo aveva toccato con i versi del Cantico dei Cantici, nella cui superiore espressione di umanità si colloca il valore universale proprio del monoteismo ebraico-cristiano.
     Credo di ricordare che il padre di Rosabianca fosse un sottufficiale della Finanza, in giro per l’Italia per mandato d’ufficio. Negli anni della infanzia di Rosabianca, era stato assegnato al nord Italia, e nel Polesine – fra Rovigo e Ferrara – lei era cresciuta con le sorelle e la vigilanza della madre, in un ambiente rurale, per certi aspetti non così diverso da quello nostro del Campidano. In quella terra difficile e fra quella popolazione cordiale e laboriosissima s’era data, precocissima, a educare familiari e amici e amici degli amici, alle cose belle della letteratura, della musica, del teatro. Così alle feste di paese, così ad ogni festa comandata: filastrocche, canzoni, poesie costituivano il canovaccio della esibizione di lei nove-decenne e degli altri coetanei che riusciva a coinvolgere negli spettacolini pensati veramente per educare alle cose belle. Esigeva il pagamento del biglietto: una caramella. Doveva essere il giusto compenso alla fatica sua e della sua troupe. Aveva cominciato a capire che l’arte e la poesia servivano a salvare il mondo, e s’era data all’impresa, anzi alla missione, che però richiedeva impegno in tutti. Doveva essere una conquista voluta e faticata non vinta alla lotteria. Lei dava l’esempio.
     Aveva visto in quegli anni, lei attenta a tutto – a luoghi ed a persone –, di come si socializzasse in quella terra veneto-romagnola, povera e ricca ad un tempo. Con le donne a fare cerchio con i ferri o gli uncinetti, gli uomini più in là, la sera del riposo o la domenica senza televisione, a conversare con qualche bicchiere di rosso o al tavolo con le carte. Da quel dire mentre si lavorava a maglia, si sferruzzava con perizia d’artigiana e d’artista, aveva tratto ispirazione per lanciare, tanti anni dopo, un modulo nuovo e originale, a Cagliari, per proporre lo spettacolo poetico in teatro, al Massimo soprattutto. “Fili-e-poesia” li chiamava quegli appuntamenti ai quali dava un contributo decisivo la sua formidabile amica e complice Donatella Lissia, mentre Maria Paola Masala era sempre lì a riferirne, da par suo, su L’Unione Sarda. Come anche di tutte le altre belle imprese dell’Endas, la nostra proiezione repubblicana nel sociale impegnato, che era partita decenni addietro anche in Sardegna (dal 1964, ma con altra formula, quella dei CAR – i circoli di assistenza e ricreazione curati da Giulio Andrea Belloni –, già dal 1950-51).
     Evoluzione dei patti di fratellanza mazziniani, con l’obiettivo primario della emancipazione operaia attraverso l’alfabetizzazione e l’assunzione della coscienza e della responsabilità proprie del cittadino, l’Endas non avrebbe potuto non mettersi sulla strada di Rosabianca, né Rosabianca avrebbe potuto fare a meno dell’Endas repubblicana. Lei naturaliter educatrice, insegnante per vocazione, non poteva che collocarsi, con il suo senso insieme comunitario e d’eccellenza, con la sua sensibilità civica e la propensione ad una moralità applicata, nel range della democrazia repubblicana, che pone il centro della libertà nella tavola etica dei doveri, la sola che conferisce autorità, che innalza il lavoratore e nobilita il popolo consapevole della sua funzione storica.
     Negli anni aveva seguito il tanto che l’Endas aveva messo in campo, e soprattutto aveva partecipato alle assemblee repubblicane della sezione Anedda, alle discussioni, ai congressi, alle elezioni. Presto – dopo 1988 – avrebbe dato la sua adesione alla Cesare Pintus, lanciata da Salvatore Ghirra in logica di ecumenismo democratico, fra le molte militanze sarde della democrazia autonomistica, repubblicane e socialiste, sardiste e liberali o radicali.
     Dal 1986 però era già entrata, per vocazione e per talento, nel grande giro delle promotrici di cultura che investono sul genio dei grandi, che sono pane per tutti. Lì il primo cimento, ora l’antologica poetica, ora Leopardi, ora D’Annunzio, ora Penna, di Montale… Una valanga di cose belle sono venute da lì… E sono recital e sono mostre di manifesti, sono romanze da salotto belle époque e sono produzioni d’avanguardia poetica, magari con Dario Bellezza ed Elio Pecora, ma i nomi s’affollano molti o tutti per uscire da un immaginario magico imbuto del meglio: da Luzi a De Angelis, dalla Frabotta alla Spaziani, da Giudici a Franco Loi, ad Alda Merini a Wislawa Szymborska… “Il giorno dei poeti”, “I territori della poesia”, “Fili-e-poesia” combinazione di Marta e Maria, secondo la felice definizione della Masala… Rassegne di altissima qualità, e magnifica risposta di pubblico, sempre, d’intesa con il Teatro stabile della Sardegna, con la Cedac, con il dipartimento di Filologie e Letterature moderne dell’Università. Collaborazioni anche con don Cugusi, per le letture del Qohelet, lei voce recitante. Lettrice anche di cose mie, più modeste evidentemente, in televisione, un quarto di secolo fa, oppure a più recenti appuntamenti in casa massonica per onorare Fabio Maria Crivelli o dopo a Sant’Eulalia per celebrare don Efisio Spettu, e anche in Municipio, quando d’intesa con alcuni consiglieri comunali ero riuscito ad ottenere, nel giugno 2013, un sacrosanto riconoscimento civico per lo storico parroco della collegiata della Marina.
     Presentazioni mirabili dei nuovi grandi del nostro teatro, come la Faa e Turno Arthemalle per “Sa scomuniga de predi Antiogu”, ed io a rendermi utile a lei, finalmente per sdebitarmi, raccogliendo a destra e a manca i materiali critici, le pagine del professor Del Piano illustrative del contesto storico-letterario-religioso della Sardegna di metà Ottocento…
     Accanto ai grandi teorici, ai professori Maxia diciamo così, ai professori Virdis, ai professori Porru, ai professori Bandinu, e ne puoi elencare altri venti o trenta soltanto del nostro giro cagliaritano, lei pure saliva in cattedra, con il suo talento e la sua raffinatezza, per la soddisfazione di tutti. Così ogni volta, anche in comunità da padre Morittu.
     Eravamo saliti insieme, quella volta, a Sassari, per il concerto di Marisa Sannia che aveva messo in musica i versi di Cicito Masala, e anche a Nuoro dove l’Endas di Rosabianca Rombi – ormai responsabile nazionale per il settore culturale – aveva sfondato, per l’opera preziosa pure di Giannetto Massaiu e Annico Pau.
     Aveva avuto quell’impegno fisso, di lungo periodo, con padre Piras, alla scuola di meditazione dei gesuiti, con altri quattrocento. Umile pedina che aveva ragione di sentirsi protagonista.
     Volando così alto, ma anche tutta dentro la consapevolezza che la poesia era ed è la «voce del profondo», come lei stessa si esprimeva, l’abbiamo avuta “compagna” nel senso perfetto, etimologico, consueto fra i repubblicani, anche quelli sardi, d’inizio Novecento: materia – questa della storia repubblicana della Sardegna – alla quale, quando si aveva l’occasione di parlarne, s’appassionava. Del tempo in cui la sua Guspini era con Sassari la capitale mazziniana dell’Isola. E con la Guspini dei Murgia e degli Agus, e la Sassari dei Saba, anche l’Arbus dei Frongia, l’Iglesias dei Tuveri, e i circoli giovanili Giordano o Tola e i giornali di testimonianza e propaganda, dall’Edera alla Scure… esperienze del fare missionario nelle isolette dell’Isola.
     Godeva, Rosabianca, dei microracconti di quella epopea fatta tutta di sogni di libertà e di giustizia e di repubblica. Per questo amava la figura di Cesare Pintus, per questo detestava, quanto me, e fin dal primo giorno, l’intervenuta decadenza insolente dei berlusconiani, pagani per statuto. E considerava che non potevano esser mai stati repubblicani sul serio quelli che erano passati, con il fagotto delle ambizioni spropositate, da quella parte brutta, dopo il 1994.
     Gli amici non dovrebbero morire mai, meno che meno quelli che hai visto sempre servire la causa con l’energia della intelligenza e della coscienza morale. Ripenso a Rosabianca e sono affranto, la rivedo apostola che convoca, delicatamente, agli appuntamenti per una nutrizione comunitaria – nutrizione di ideali a tutti necessari contro le secchezze della prosa –, per il resto rimanendo nei ranghi, per illuminare i ranghi, le seconde e terze file, o le ultime, con Marco, amore vero e pieno, e tenero sempre, della sua esistenza, insieme con i figli e le famiglie dei figli.


di Gianfranco Murtas - 10/03/2015


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