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«Giovanni Spadolini lo leggevo settimanalmente su Epoca, credo negli anni ’50-60, quando ne era direttore Enzo Biagi. Curava la rubrica di politica interna. Per quanto personalmente fossi avvantaggiato dall’aver vissuto in famiglia il clima dell’opposizione al regime va sottolineato che la nostra generazione si era culturalmente formata nella scuola e nelle organizzazioni fasciste. Ci era di fatto sconosciuta la pratica del confronto critico fra Governo ed opposizione. Leggendo i giornali scoprivamo interessi sostanzialmente inesplorati e spiragli sempre più ampi sugli orizzonti della democrazia. Percorrevamo un itinerario ideologico emotivamente nuovo, più intuito che conosciuto, fortemente fideistico, spesso astratto, sempre passionale. Gli articoli di Spadolini si ponevano quindi come scuola di democrazia, capaci di riproporre il dubbio e quindi il ripensamento critico come valore positivo e non disgregante e dispersivo. Erano formativi …». Sono parole di Mario Melis, del presidente Melis, che egli mi passò quale suo contributo al mio libro del 1995 “Per Giovanni Spadolini Per Bruno Visentini”. Un ricordo – ad un anno circa dalla dolorosa scomparsa del leader repubblicano, avvenuta il 4 agosto 1994 – ricco di riflessioni sui fatti e sui modi, sulle occasioni d’incontro, a partire da quelle verificatesi in Senato, fra 1976 e 1979, di cui egli mi avrebbe ancora più a lungo parlato alla cena che seguì, in un locale di Posada, ad un convegno sulla figura di Luigi Oggiano, del quale nel dicembre 1996 fui relatore insieme con Salvatore Cubeddu e appunto il presidente. Melis era intimamente e profondamente tollerante, pur se in molti, amici ed avversari, lo consideravano rigido ed irruento: da avvocato colto ed esperto, e di grande scuola nuorese, sapeva cogliere invece in ciascuno di quelli in cui s’imbatteva i fili segreti di una umanità sensibile e complessa, forse contraddittoria, ma autentica e rispettabile. «Il fascino di Giovanni Spadolini – sono ancora parole sue – emergeva nel discorso fluente, elegante (sino al compiacimento), esente da pesantezze erudite, ma ricco di sprazzi di luce ora introdotti con vigore ideologico, ora con l’umanità dell’aneddoto …». Quella volta a La Maddalena, e poi a Cagliari. «Con Spadolini, allora Presidente del Consiglio dei Ministri, ho vissuto la celebrazione Garibaldina a La Maddalena nel 1982, alla presenza del Presidente della Repubblica Pertini. Tenemmo entrambi un discorso ai cittadini di La Maddalena, ma di fatto rivolto agli italiani. Mi pare di poter dire che ci siamo reciprocamente apprezzati tanto che mi volle regalare un libro con sua dedica che suona testualmente: “Al Presidente Mario Melis nel ricordo di un giorno garibaldino sacro a tutta la Sardegna. Con affetto, Giovanni Spadolini”. Mi rimproverava un’intervista con la quale auspicavo il superamento degli attuali Stati nella prospettiva di un’Europa delle Regioni; senza ipotizzarne la soppressione auspicavo un forte ridimensionamento del ruolo degli Stati e relativi poteri d’imperio. Disse che ne evocavo un’immagine cimiteriale e si appellò all’unità di Mazzini nel legittimarne l’attualità politica. Inutile dire che il contrasto era più sulle parole che nei concetti cui entrambi ispiravamo il rispettivo credo. Dopo una mia replica lui concluse prendendo atto della dignità e della serietà del diverso approccio culturale e politico a temi ed istituzioni che fanno parte della nostra storia e sui quali si fonda il futuro dei popoli. «Altro momento di rilevante incontro-scontro-incontro lo ebbi con Giovanni Spadolini Ministro della Difesa. Alla Maddalena le Autorità Militari avevano intrapreso lavori che modificavano in modo sostanziale il governo del territorio senza preventivo parere della Regione, per altro neppure richiesto. Quale Presidente della Regione gli telegrafai la nostra protesta e, soprattutto, la richiesta d’immediata sospensione dei lavori. Non mi rispose. Forse il mio messaggio non giunse sino a lui, cestinato dai soliti onnipotenti burocrati. «I tempi stringevano. Lo convenni perciò in giudizio avanti al Tribunale Amministrativo Regionale. Successe il finimondo! Rappresentanti del Partito Repubblicano in Sardegna mi accusarono di lesa maestà dello Stato, non parliamo dei missini! Per loro l’aver messo in discussione il potere del Ministro nel realizzare opere finalizzate alla difesa dello Stato significava mettere questo in pericolo dando mano alla sua disgregazione. Non capivano che la stessa Regione è Stato ed è quindi preciso dovere dei suoi governanti concorrere alla corretta gestione denunziando e contrastando azioni ed iniziative di segno contrario. «Grande fu perciò la meraviglia dei contraddittori sardi quando il Ministro Spadolini, per nulla offeso dalla mia iniziativa, dette atto che questa era non solo giusta e legittima ma ispirata a consapevole senso dello Stato per cui riteneva doveroso riparare all’errore dei dipendenti organi militari sospendendo i lavori e venendo a Cagliari (non convocandoci a Roma!) per aprire con la Giunta un più ampio discorso sulla presenza militare in Sardegna. «In breve: dispose la restituzione di ben 2.500 ettari di demanio militare non più necessari ai fini della difesa; per inerzia dei poteri militari questi continuavano a detenerli del tutto inutilizzati». Con Spadolini anche Bruno Visentini (scomparso sei mesi dopo, nel febbraio 1995). Conclusione: «Negli ultimi mesi della loro vita un comune umano destino ha allontanato entrambi, in modi diversi, dalle rispettive trincee: la Presidenza del PRI per Visentini, la Presidenza del Senato per Spadolini. Ma nessuna forza li ha mai potuti allontanare da se stessi, dalla fedeltà gelosa e limpida alla propria coscienza ed intelligenza che sono poi coscienza ed intelligenza di un’umanità che pensa, ama e realizza il futuro. Non hanno conosciuto abbandono. Sono morti sul campo». Le tappe di una biografia. Sembra irriconoscibile l’Italia politica di oggi rispetto a quella che visse, servì (nelle sue espressioni migliori) o combatté (nelle sue degenerazioni), Giovanni Spadolini, personalità eminente della democrazia nella quale in molti ci siamo riconosciuti: intellettuale di prim’ordine, giornalista e docente universitario, storico e saggista, parlamentare dal 1972 ed uomo di Stato come ministro (per i Beni Culturali e Ambientali, della Pubblica Istruzione, della Difesa) e come presidente del Consiglio nel biennio 1981-82. Direttore per quasi tre lustri del carducciano Il Resto del Carlino e per quattro anni – quelli tormentatissimi della strategia della tensione e del primo terrorismo – del Corriere della Sera, e già da giovanissimo collaboratore fisso e prezioso de Il Mondo di Mario Pannunzio, che portava al confronto nobile delle idee la linea di un liberalismo di sinistra echeggiante Gobetti e sostenuto da uomini che, in parte almeno, nel 1955 avrebbero costituito, come scheggia del Partito Liberale Italiano, il Partito Radicale: il partito di Villabruna e Carandini, Calogero e Piccardi, Giovanni Ferrara ed Eugenio Scalfari, il partito anche di Valiani e Rossi che saldavano la nuova formazione ad un retroterra di vivida testimonianza antifascista sul fronte di Giustizia e Libertà. (Quel partito, aggiungerei, che nel tempo seppe introdurre nel dibattito politico, pur dalle sue posizioni di minoranza estrema, il sale dell’intelligenza e la competenza dell’analisi uniti ad una passione alla politica giustamente intesa, sempre e comunque, come interesse generale, e uniti dunque ad uno spirito modernamente patriottico: si pensi alla battaglia contro i “padroni del vapore” e l’industria assistita, contro la speculazione immobiliare in parte coinvolgente strutture della Chiesa cattolica tanto più nella capitale “corrotta” annunciante una nazione “infetta”, per la pubblicizzazione delle fonti energetiche pur all’interno delle regole di un’economia di mercato). La produzione giornalistica e saggistica (compresa quella storica risorgimentalista) degli anni che vanno dal 1947-48 – quando escono i primi scritti storici (dapprima il “Sorel”, poi “Il 48. Realtà e leggenda di una rivoluzione”) – o dal 1949 – quando comincia l’esperienza de Il Mondo – o dal 1950 – quando compare in libreria la prima edizione del “Papato socialista” (recensita su La Nuova Sardegna da Michele Saba) – alla prima direzione di quotidiano, cioè al 1955 ed al passaggio, trentenne appena, alla guida del bolognese Il Resto Carlino, qui battendo … un concorrente forse però non interessato, giovane quasi quanto lui, l’istriano-romano Fabio Maria Crivelli, da un anno a Cagliari a dirigere L’Unione Sarda. In quelle esperienze di studio e professionali c’è già tutto lo Spadolini che avremmo conosciuto nell’età matura. Ne fanno fede le raccolte degli scritti giornalistici, sospesi sempre fra storia e attualità politica, fra indagine del passato e analisi del presente, pubblicate in ben sedici corposi ed eleganti tomi, su progetto editoriale di Cosimo Ceccuti, dalle fiorentine Edizioni Polistampa. Spadolini, lo Spadolini che abbiamo amato – quando lo abbiamo incrociato, noi magari ancora nel corso degli studi adolescenziali (in quelle letture parallele ai programmi scolastici, letture personali, forse suggerite, certo godibili e preziose) – perché alla dottrina associava quella scrittura così chiara e insieme ritmata, rapida e netta che ce lo consegnava comprensibile e coinvolgente. Ricordo un elzeviro di Carlo Bo sul Corriere, sarà stata la metà degli anni ’70, in cui il grande critico esaminava e spiegava il portento di quella scrittura fiorentina. Scrittura direi io pittorica, anzi impressionistica, nella delineazione degli sfondi, dei contesti, e precisa, mirata, nella resa del fatto, dell’agire. E dei perché di quell’agire, per cui importava almeno un flash sulla formazione valoriale, sulle dinamiche morali, sui processi psicologici dei protagonisti. Spadolini: capace di partire da un episodio – come la promessa quasi segreta ma giurata, del frate francescano a Cavour scomunicato, della assoluzione in articulo mortis al tempo che sarebbe venuto – per presentare la complessa e complicata relazione fra lo Stato liberale e la Chiesa di Roma nell’età risorgimentale. Dando quindi concretezza di umanità ai quadri della grande storia. Portai alla maturità due tesine: una sulla Deledda, alla vigilia del centenario della nascita della grande scrittrice nuorese, ed una seconda sulle relazioni Stato-Chiesa nell’opera di Giovanni Spadolini, allora ancora alla direzione del Corriere. Richiesto, mi mandò una sua scheda bio-bibliografica, e per sovrappiù di generosità, una copia con dedica del volume “Il venti settembre nella storia d’Italia”, con scritti anche di Jemolo, Margiotta Broglio, Luigi Lotti, e Valsecchi e Frosini e Camerani, ed anche di Wandruszka – grande storico austriaco chiamato a lumeggiare l’atteggiamento dei cattolici austriaci verso la presa di Roma, e le conclusioni (“Considerazioni di un laico”) di Giacomo Devoto. Un fascicolo speciale – il 2038 dell’ottobre 1970 – della Nuova Antologia, una testata che avrei conosciuto e amato a fondo più tardi. (E alla Nuova Antologia sono abbonato ormai da quasi quarant’anni). L’adesione all’invito formulatogli da Ugo La Malfa nella primavera del 1972, giusto all’indomani del suo brutale e ingiusto licenziamento dalla direzione del Corriere – quella direzione, lo si ricordi, che appoggiò la riforma regionalista e promosse una serie di inserti illustrativi delle diversificate realtà territoriali dell’Italia chiamata ad un più responsabile autogoverno locale –, a candidarsi come indipendente in tre dei quattro collegi senatoriali di Milano mi fece fremere di gioia. Da un anno e qualcosa ero entrato anche io nella famiglia repubblicana, nei quadri sparuti, ora giocosi ora impegnati, della FGR, nella sede di via Sonnino a Cagliari. Ancora nel 1972, avemmo un rapido scambio di corrispondenza, allorché pubblicai sulla terza pagina de L’Unione Sarda un lungo articolo su sei colonne dedicato alle reazioni sarde alla breccia di Porta Pia. C’era stato anche un riferimento ai giudizi storici di Spadolini, e lui aveva signorilmente apprezzato e ringraziato, alludendo – così mi scrisse – all’«ideale solidarietà che tanto mi conforta, nella dura battaglia di ogni giorno per la difesa degli ideali di libertà, di tolleranza, di democrazia». Accompagnai il senatore, e fra breve ministro fondatore del dicastero per i Beni culturali e ambientali, presentandolo al pubblico su un palco innalzato nella piazza Yenne a conclusione della campagna elettorale per le regionali, nel giugno 1974. Credo di non essere stato, o di non poter essere stato, all’altezza del compito, ma certamente lui sì, oratore facondo e gradevole, profondo e insieme leggero, fiorentino. Non avemmo un grande pubblico, ma ne avemmo, e facemmo alla conta dei voti una figura dignitosa come repubblicani, minoranza profetica e necessaria alla vita politica nazionale e regionale. Ancora scambi nel settembre 1976, a seguito di un mio editoriale che il direttore Crivelli accolse per L’Unione Sarda. Titolo: “Venti settembre ieri e oggi”. Evidente la ragione dell’interesse, perché non era tanto ad un articolo di stampa, ma nuovamente ad un argomento sempre centrale nella riflessione di politici e statisti, che ci si riferiva. «Grazie ottimo articolo et toccante ricordo», il testo del telegramma del senatore, cui avevo doverosamente inviato copia del pezzo. Per alcuni anni, io ragno di periferia, non ebbi contatti con Spadolini. Soltanto un volume da lui mi venne, gentilmente dedicatomi – “L’Italia della ragione. Lotta politica e cultura nel Novecento“, la cui prima edizione è del 1978 – e procuratomi dall’amico Mario Pinna, al tempo segretario regionale, in occasione di un congresso o di un consiglio nazionale del partito dopo la morte di Ugo La Malfa e la ascesa del senatore alla guida del PRI. Per il sardismo repubblicano. Fra 1984 e 1985 collaborai intensamente con La Voce Repubblicana, a direzione Spadolini (segretario del partito), responsabile Stefano Folli. Si trattò forse d’una trentina di articoli, molti dei quali a tutta pagina, sulla storia del PRI sardo in due distinte fasi della vicenda nazionale e regionale: nel passaggio fra Ottocento e Novecento, dunque nel rigore testimoniale dei suoi militanti e sovente sotto la sferza della censura e l’occhiuta vigilanza prefettizia e poliziesca, e negli anni fra ’50 e ’60 del Novecento, e cioè al tempo dell’alleanza e poi della rottura del patto con il Partito Sardo d’Azione. Mio interlocutore fu allora Folli, che mi fece conoscere il gradimento del segretario nazionale, storico nato, per l’offerta di così copiosi materiali utili a un compiuta ricostruzione della biografia collettiva del partito e del movimento, materiali di studio che presentavano tutti evidenti segni di originalità legati anche alla nostra condizione insulare. La mia interpretazione di quello che era stato e avrebbe potuto o dovuto essere ancora il rapporto fra repubblicani e sardisti – i sardisti che venivano dalla storia del combattentismo degli anni ’20, della ricerca di un’intesa federativa con gli omologhi partiti del continente (all’insegna del Partito Italiano d’Azione, sogno di Bellieni e Fancello) e dalla storia dell’opposizione clandestina al regime nella file di Giustizia e Libertà – l’ho scritta, ricordando quel riconoscimento che Ugo La Malfa dette al PSd’A al tempo del primo centro-sinistra e delle battaglie per il Piano di rinascita: «i sardisti sono i repubblicani di Sardegna». Un riconoscimento che forse non fu gradito dai seguaci di Fidel, in crescita allora nel PSd’A, e dai nazionalitari di dopo – corsari autodefinitisi perfino “nazionalisti”–, ma che io continuo a credere fosse un elogio ed un omaggio ad una storia che riportava, com’era stato nella riflessione di un Mastino o un Oggiano o un Titino Melis, dalle trincee del 1915-18 alla scuola mazziniana e cattaneana – scuola di respiro europeo, scuola di valori universali –, così insistentemente richiamata da Il Solco degli anni prefascisti e anche di dopo e inverata dai tanti che vennero nell’Isola a sostenere nel 1949 l’autonomia speciale all’esordio, di fianco alle bandiere del sardismo: Ferruccio Parri e Giulio Andrea Belloni sopra tutti e con loro altri dieci profeti, apostoli, combattenti dell’Edera. La mia interpretazione recuperava la linea lamalfiana e Spadolini stesso si riconosceva in essa, seppure a lui sarebbe toccato di trattare con il sardismo degli anni ’80, a fatica indirizzato da Mario Melis verso una logica di responsabilità istituzionale, fuori dalle demagogie pre-o-paraleghiste. La mia tesi centrale – debbo qui autocitarmi – «era quella della complementarità fra Edera e Quattro Mori, della loro piena compatibilità ideologica, politica e programmatica, per l’associazione o l’inquadramento del regionalismo sardista nel più vasto ambito del meridionalismo democratico e delle correnti più sensibili all’esigenza della riforma generale della pubblica amministrazione e delle istituzioni politiche da sempre sostenuta dalle varie scuole repubblicane. «Ugo La Malfa e Giovanni Battista Melis rappresentavano i giusti poli di quell’intesa che era stata determinante per l’impostazione autonomistica del primo Piano di rinascita, quello del 1962, e per la partecipazione attiva del Partito Sardo d’Azione alla politica, anche nazionale, di centro-sinistra». Per questo potevo e posso dire, riferendomi alle molte pagine speciali da me consegnate a La Voce Repubblicana, che «Spadolini apprezzò quella ricostruzione dei fatti, di un lungo percorso della nostra storia politica, tutta basata sui documenti, editi ed inediti, che intendevo come canovaccio per una storia che avrei voluto, un giorno, scrivere e di cui qualche capitolo importante è già uscito nella collana sul sardo-azionismo, dei primissimi anni ’90, e in “Con cuore di sardo e d’italiano… Giovanni Battista Melis deputato alla I e IV legislatura repubblicana”, che è del 1993. E da segretario nazionale del PRI – siamo qui nel triennio 1984-1986 – più volte intervenne su La Voce Repubblicana per richiamare l’antico alleato ed ormai avversario e concorrente al rispetto della sua stessa tradizione storica ed ideale, nella quale qualcosa contavano Mazzini e Cattaneo, fino a Zuccarini e invece non potevano entrare le fumisterie nazionalitarie ed indipendentiste…». All’ottobre 1986 risale il rapido e confuso incontro, alla Fiera, in occasione del congresso dell’Istituto per la storia del Risorgimento, su “Le città capitali degli stati pre-unitari”. E’ il tempo, questo che va dal 1979 al 1986, in cui Spadolini non manca agli appuntamenti con la Sardegna anche per ragioni extrapolitiche o extrapartitiche. Era venuto per il convegno nuorese su Giorgio Asproni, nel 1979 appunto, e in progress il suo referente, fra gli storici isolani, era divenuto Tito Orrù – mio professore di storia della Sardegna e dei movimenti politici –, che da noi era stato il motore organizzativo anche del congresso dei risorgimentisti italiani. Attraverso il professore – fra Asproni e capitali pre-unitarie – fui tenuto nel… giro degli spadoliniani. Il contrasto con Corona e il dileggio di Sassari Sera. Non ebbi altri rapporti né diretti né mediati, dico a memoria, con il “segretario fiorentino” (come lo chiamò toscanamente Indro Montanelli), se non quanto mi rimbalzò per qualche tempo dall’amicizia al tempo con Armando Corona, esponente della politica e della massoneria che ho, anche lui, molto amato, prima di una rottura rimasta, di fatto, insanata, anche se ritornò fra noi la cordialità della relazione. E Corona ebbe con Spadolini, per molti anni, un rapporto intenso, fino, mi pare di ricordare, al 1987, al momento della assunzione della presidenza del Senato. Qualcosa s’era incrinata fra di loro allorché, dopo l’elezione a gran maestro, Corona restituì la tessera repubblicana ma non rinunciò ad interessarsi alle vicende, anche e soprattutto interne (congressi, direttivi, ecc.), del partito, attivando una corrente che a molti parve impropria. Soprattutto quel che non gradì il segretario nazionale fu la mancata rinuncia al seggio consiliare, tanto più considerato l’assenteismo alle tornate dell’Assemblea fattosi rilevante negli anni 1983-84, gli ultimi della legislatura apertasi invece proprio con Corona presidente del Consiglio regionale. Successivamente furono altre vicende ad alterare il rapporto, e io ne venni messo a conoscenza, spettatore addolorato e comunque, per quanto potevo, non inattivo. (Verrà il momento di meglio articolare questa breve nota destinata ora soltanto ad onorare la memoria di Giovanni Spadolini). Fino ad uno scambio polemico, ai limiti del personale, fra le due parti, fra i due autori di corsivi ed editoriali rispettivamente su La Voce Repubblicana ed il mensile Hiram. Con un giornale isolano – Sassari Sera, che passava per tutore degli interessi regionali di Corona – il quale, nella congiuntura, superò ogni limite nell’incredibile, assurdo e immorale dileggio del presidente del Senato. Seguii come altri i posizionamenti politici e la sequenza dei ruoli istituzionali di Spadolini (presidente del Senato dopo che segretario di partito, senatore a vita dal 1991 per nomina del presidente Cossiga, presidente della Repubblica ad interim per le anticipate dimissioni del capo dello Stato nel 1992), seguii la sua inarrestabile produzione storica e letteraria, seguii la vitalità, la facondia, il pregio delle mille espressioni pubbliche dei conclusivi anni della sua vita. Fino alla scena ultima. Mostri di repubblicani in camicia azzurra. Anche in Sardegna, anche a Cagliari, nei primi mesi del 1994, molti repubblicani – meglio: tesserati al PRI – abbandonarono lesti il campo per intrupparsi nelle file di Forza Italia, come certamente avrebbero fatto, ove fossero stati nel 1922 o 1923, fra le schiere del Partito Nazionale Fascista. Non fece differenza, per la loro contabilità utilitaristica, un Ugo La Malfa padre della patria o un Giovanni Spadolini protagonista delle pagine migliori della storia repubblicana ed un Silvio Berlusconi miliardario senza un grammo di senso dello Stato, rozzo e pifferaio. Si intrupparono dove conveniva, nelle liste parlamentari e in quelle per il Consiglio regionale, salvo poi, nell’agosto di quello stesso anno, scrivere un necrologio per rimpiangere Spadolini statista. Spadolini che il loro padrone aveva sacrificato alla presidenza del Senato, perché «noi forzisti, postfascisti, leghisti siamo la maggioranza ed abbiamo il diritto di sceglierci i presidenti delle Camere». Senza vergogna. Spadolini era già malato, pochi lo sapevano. Lo sapeva però lui e ciò nonostante non si ritraeva. Come non si era ritratto Ugo La Malfa, tre lustri prima, quando il presidente Pertini gli aveva chiesto di formare un nuovo governo con una larga intesa di programma. Fino, si sa, alla emorragia cerebrale e alla morte, là nel pieno delle incomprensioni, anzi delle incomprensibili ostilità degli uomini dei partiti forti nelle tattiche della cronaca e poveri nella consapevolezza della storia. Poi disse, Spadolini, il suo no – nella forma dell’astensione, che regolamentarmente significava rigetto – alla fiducia al primo governo Berlusconi, scadentissimo, prima ancora che nella formazione, nella sua ispirazione e nella sua guida. Disse il suo no Spadolini: qualcuno di recente ha ricordato alcuni passi di quel discorso – anche Cosimo Ceccuti ed Antonio Duva –, io lo pubblicai integralmente in quel libro a lui (prevalentemente) dedicato e presentato a Cagliari nel dicembre 1995, appunto “Per Giovanni Spadolini Per Bruno Visentini”. Un libro forse oggi introvabile, omaggiato allora, dall’associazione Cesare Pintus, ai partecipanti alla grande assemblea presso la sala convegni del CIS, e illustrato dall’amico Franco Farina e dal prefetto Mazzitello. Omaggio non personale, nelle intenzioni, ma della Sardegna intera alla sua memoria. Un libro a molte firme, da Paolo De Magistris a Francesco Cossiga, da Armando Serri a Gianni Filippini, da Maurizio Battelli a Marco Piredda, da Martino Contu a Massimiliano Rais, da Piero Cossu a, appunto, Melis e Farina e me stesso … Tengo sul tavolo, in questi giorni, il bel libro “Viaggio in Sardegna” con cento e più di cento fotografie di luoghi ed uomini della nostra Isola scattate ai primi del Novecento in prevalenza da Vittorio Alinari, che da noi venne, nel 1913 (o nel 1914), con la compagnia dell’allora giovane incisore e pittore Guido Spadolini, il padre di Giovanni. Il quale Guido Spadolini realizzò anche la copertina del volume edito dai Fratelli Alinari, con la Fontana del Rosello e sullo sfondo le case di Sassari, e in primo piano una donna con le pesanti brocche sul fianco ed un asinello da soma, carico e paziente… Non ho fatto ricerca, ma ben posso pensare le prime immagini della nostra Sardegna siano state offerte al futuro “segretario fiorentino”, al futuro storico ed al futuro statista magari ancora bambino o ragazzo dai racconti del padre … Un italiano. Come quella di Giuseppe Mazzini a Staglieno, anche la tomba di Giovanni Spadolini, alle Porte Sante di Firenze, reca l’epitaffio «un italiano». La circostanza non sorprende sol che si pensi alla personale esposizione nella vita pubblica del profeta della nostra unità nazionale così come, un secolo dopo, a quella del grande storico risorgimentista e dello statista che in molti abbiamo conosciuto e anche, lo dico convintamente, ammirato ed amato. Sono passati vent’anni ormai dalla sua scomparsa, avvenuta nella notte fra il 3 ed il 4 agosto 1994, e se la vita culturale in senso stretto – quella della ricerca e produzione storica e letteraria – potrebbe dirsi non averne granché risentito grazie alla prodigiosa attività che la Fondazione Spadolini-Nuova Antologia continua ad esercitare, sulla scia del fondatore, con la prosecuzione delle uscite trimestrali della rivista – Nuova Antologia appunto, lontana derivazione di quella Vieusseux! – protetta dal comitato presieduto da Carlo Azeglio Ciampi, diverso è stato ed è per la vita politica ed istituzionale. In tutti questi tristi anni di cosiddetta “seconda Repubblica”, essa ha drammaticamente sofferto, infatti, il vuoto di personalità moralmente autorevoli ed equilibratrici, portatrici di alto senso dello Stato e consapevolezza della prospettiva storica entro cui la sorte della comunità nazionale andava sviluppandosi. Ripasso ultimo di una vita onorevole. Uomo di minoranza, ma dentro le pieghe della migliore Italia contemporanea – quella erede delle anticipatrici ed anticonformiste istanze laiche e repubblicane in anni di confessionalismo o di autoritarismo monarchico, atlantiche in politica estera e di mercato a vigilanza pubblica in politica economica nel secondo dopoguerra – Spadolini aveva rappresentato per lungo tempo, di fianco e dopo Ugo La Malfa, la via nobile di dialogo fra il complesso mondo politico (e non solo) cattolico e la variegata sinistra di classe e marxista. Dialogo e confronto sì, ma contro gli approcci compromissori e di pura convenienza allora definiti della “Repubblica conciliare”. Dapprima nel mondo degli studi – titolare di cattedra a soli venticinque anni – e del giornalismo – collaboratore de Il Mondo di Pannunzio e de Il Messaggero di Missiroli, direttore poi del carducciano Il Resto del Carlino e quindi del Corriere della Sera –, infine nella politica aveva rappresentato, con modalità evidentemente diverse, i valori della scuola democratica, in cui il centro della libertà è collocato nel “fare cittadino” e nell’istituzionale. Come presidente dei senatori repubblicani dapprima, poi come ministro fondatore dei Beni Culturali e Ambientali, ministro della Pubblica Istruzione, capo del governo scelto dal presidente Pertini all’indomani dello scandalo P2 e nel pieno ancora della tormenta terroristica così come della sofferenza del bilancio statale (con l’inflazione allora a due cifre), Giovanni Spadolini portò al vertice dello Stato quanto di meglio la politica poteva esprimere. Condannato a morte dalle BR, come si seppe allorché dovette prendere alloggio e copertura in una caserma dei carabinieri, fu un delitto nel 1994, quando già la malattia l’aveva colpito, negargli il riguardo della conferma alla presidenza del Senato che egli aveva onorato fin dal 1987 saldando costantemente l’Italia “civile”, l’Italia della cultura, della ricerca, dell’arte, del lavoro e dell’impresa alle istituzioni della Repubblica. Fu quello il primo passo, da parte della maggioranza sedicente “nuovista” che portava invece una feudale visione proprietaria dello Stato e dei suoi organi, verso la deriva del costume pubblico quale abbiamo dovuto registrare per quasi due decenni. Per ragioni di studio e di militanza nel Partito Repubblicano Italiano – che presentava se stesso riecheggiando con l’edera la simbologia della mazziniana Giovine Europa (come alleanza delle genti latine, anglosassoni e slave) – ebbi modo diverse volte di entrare in rapporto con lo storico, il direttore del “Corriere”, il parlamentare e ministro, il segretario di partito. A Cagliari lo presentai perfino a un comizio in piazza e gli dedicai, ora saranno già tre lustri, un libro che cercava di ricostruire le molte tappe della sua relazione con la Sardegna. Passando anche per la recensione, alla fine degli anni ’40, che Michele Saba – l’avvocato antifascista (tre volte galeotto) e primo presidente dell’associazione della Stampa sassarese – pubblicò del suo giovanile “Il Papato Socialista”, dedicato alla dottrina sociale della Chiesa ed alle relazioni fra le due rive del Tevere al sorgere della Repubblica, ma cominciando da prima: dai racconti che suo padre, il grande pittore Guido Spadolini, caduto in guerra mentre si prodigava nell’assistenza come capitano della Croce Rossa, gli faceva riferendogli del primo viaggio da noi, cento anni fa, con Vittorio Alinari, e di cui è prova il libro fotografico sulla Sardegna che si preparava anch’essa alla “grande guerra”. Montanelli, definendo il suo amico giornalista, scrisse che Spadolini lasciava attorno a sé «un odore di bucato». Per dire della onestà praticata nel servizio della politica vissuta come interesse generale. E mi piace qui concludere con la testimonianza che Gaetano Afeltra, un altro grande giornalista del tempo passato, e intimo, al Corriere, sia di Spadolini che di Montanelli, offerse, vent’anni fa, dei giorni della straziante agonia del presidente-direttore. Soprattutto riflettendo sul suo rapporto con il denaro, ch’egli indirizzava, per quanto gli arrivava, a una istituzione culturale destinata a sopravvivergli per favorire le nuove generazioni di studiosi. Ecco le parole di Afeltra: «Così accadeva per i premi letterari: e quando gliene assegnavano uno e appariva la notizia sui giornali, c'era chi, non sapendo come stavano le cose, pensava: "Ancora premi a Spadolini!". Cinquanta milioni da una parte, trenta da un'altra, il minimo erano dieci. E lui felice. Non era ingordigia ma bisogno. Spadolini, come un monaco di cerca, faceva la questua per il suo "convento" di Pian dei Giullari, perché domani potesse accogliere i giovani studiosi e educarli all' amore dell'Italia».
di Gianfranco Murtas - 04/08/2014
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