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Ho appena iniziato a lavorare, insieme con alcuni amici, alla preparazione di un dossier sulle vicende della Federazione sarda del Partito Repubblicano Italiano nel cinquantennio 1944-1994: un tempo che prende parte rilevante della mia vita così come della vita di tanti amici. E’ una storia che ho vissuto intensamente, ora nella militanza ora soltanto nella condivisione degli ideali e nella partecipazione sentimentale. Negli anni ho raccolto molto materiale altrimenti destinato al cestino; i documenti, tutti ordinati cronologicamente e tematicamente in alcune centinaia di cartelle e sottocartelle, comprensive anche della rassegna stampa, costituiscono parte di quel Repertorio del Movimento democratico sardo dell’Otto-Novecento (repubblicani, azionisti, sardisti) che ho affiancato all’ Archivio storico generale della Massoneria sarda ed allo Scaffale cattolico e dell’evangelismo in Sardegna (schede dell’Otto-Novecento), che è poi quanto, insieme con una biblioteca di dodici-quattordicimila volumi e ad una ricca filmoteca, lascerò forse presto a chi vorrà studiare e studiare, e ancora studiare, la Sardegna degli ultimi due secoli, o quei filoni di storia politica e religiosa che tanto mi hanno appassionato nella loro evoluzione. Sono carte che rivelano le persone, palpitano emozioni, progetti, aspettative, illusioni e delusioni, rinunce e rilanci, memorie personali e memorie collettive datate. Di più: memorie che io stesso, volta a volta, ho deliberatamente stilato “per la storia” (o la microstoria nostra), consapevole fin da ragazzo della importanza degli episodi che mi toccava vivere, e riflesso del vissuto della mia comunità di partito, della Federazione giovanile, della sezione, degli organismi i più vari della città, della provincia, della regione … In vista anche del dossier che dovrò sbrigarmi a stendere pro quota, e rifacendomi adesso però non alle carte ma pressoché soltanto ai ricordi, ho buttato giù questi appunti forse soltanto per me stesso, forse per condividerli con i pochi rimasti fedeli all’Idea, rimasti immuni dalle deviazioni opportunistiche suggerite o suscitate, negli ultimi sconclusionati vent’anni, ora dalla ontologica cialtroneria della destra (fascismo al deodorante) ora dalla vaghezza permanentemente rissosa della sinistra … Con lui ebbi una frequentazione spezzata. A volerla misurare, considerandola chiusa con la morte, non con l’ultimo incontro, e al lordo dei vuoti, durò 38 anni. Molti, è vero, ma fu tesa lungo un arco che ragioni diverse avevano forzatamente frammentato. Io dico: purtroppo, purtroppo per me, che gli ho comunque voluto bene sempre. Non oso pensare che sia stato un purtroppo anche per lui, per quanto sia vero (o questa è la mia convinzione) che dall’amicizia disinteressata e franca, dunque critica, si ha sempre da guadagnare. Ripenso alla sua fragilità degli ultimi anni. Nel 2005, alla retrospettiva dell’opera di Franco d’Aspro organizzata negli spazi della Pinacoteca, presso la cittadella dei musei, era stato invitato, e anch’io, perché avevo prestato alla Soprintendenza il mio Cristo di Buchenwald, un magnifico Cristo bronzeo alto più di due metri e pesante cento chili. Opera geniale del mio amico e Maestro indimenticato. Ci si era ritrovati, con Armandino, dopo qualche anno di distacco: gli ultimi approcci erano stati – tolti i saluti alla presentazione del mio “Diario di loggia” (nel dicembre 2001) al Mediterraneo –, sul versante professionale, in banca, e seguivano un altro e più lungo vuoto, dopo una dolorosa rottura intervenuta al principio del 1986, quando ero stato a trovarlo in via dei Punici, con Fabio Maria Crivelli (prossimo a riprendere la direzione de L’Unione Sarda) ed altre personalità eccellenti, al fine di perorare una causa nobile. A braccetto, per il necessario sostegno, visitammo dunque, nel 2005, quel gran numero di manufatti d’arte, bronzi religiosi soprattutto, del grande artista che entrambi aveva onorato della sua amicizia. Gli raccontai quel che sapevo della produzione di d’Aspro, mi parve di ricostruire in quell’ora un’amicizia e una solidarietà che erano state, all’inizio e non per breve tempo, cosa vera. Tutto era iniziato ai primi del 1971, quando io m’ero appena iscritto – mi pare a gennaio – alla Federazione Giovanile Repubblicana ed egli guidava ancora, come consigliere regionale eletto nel 1969 e capofila dei più votati sulla scheda, il gruppo del Movimento Sardista Autonomista. Quel Movimento che nel marzo successivo – sabato 20 al XII° congresso regionale repubblicano celebrato all’Enalc Hotel – sarebbe formalmente confluito nel PRI, alla presenza di Ugo La Malfa venuto a Cagliari per solennizzare l’evento con un gran comizio all’Ariston, nella mattina di domenica 21. Fu quella anche la prima volta che io vedevo e sentivo di persona La Malfa, mitico padre della patria repubblicana, il cui carisma democratico e il cui complesso ragionare economico ed istituzionale mi avevano attratto l’anno prima, per quanto vedevo in tv dalle tribune programmate per le elezioni amministrative (che pure interessavano anche la Sardegna: a Cagliari furono eletti alla Provincia Marco Marini e al Comune Vincenzo Racugno, poi assessori rispettivamente all’Ospedale psichiatrico ed alla Sanità) e soprattutto per le regionali nelle quindici esordienti regioni a statuto ordinario, dal Piemonte alla Calabria. Quando Montanelli, il Montanelli difensore di Venezia, s’era prestato a fiancheggiare pubblicamente il nostro leader. E quando Giovanni Spadolini dirigeva ancora il Corriere della Sera che in Montanelli vantava la sua firma di maggior prestigio, in ex aequo con quella del direttore, naturalmente. Con La Malfa, nella tarda mattinata di quel giorno, potei trattenermi, in un improvvisato circolo di sedie, a porgli domande, molte domande. Ne ho scritto di recente in un articolo dedicato al professor Romagnino, uscito sul sito di Fondazione Sardinia. Quando Corona fu eletto, nel 1969, al Consiglio regionale, io – ragazzo di 16-17 anni – avevo seguito quella campagna di propaganda, di pubblici messaggi, di santini diffusi qua e là, con qualche interesse e simpatia, riferendomi alle cronache de L’Unione Sarda: l’interesse non era ancora, però, coinvolgimento e partecipazione. Due anni dopo, appunto al tempo della confluenza, incontrai e conobbi l’uomo – l’uomo Corona – e meglio ancora lo conobbi dopo, quando, raccolta la segreteria regionale da Giovanni Satta, nel frattempo trasferitosi a Roma per la sua professione (mi pare all’ufficio studi della Confindustria), prese a piene mani la leadership del PRI sardo. Direi meglio, precisando: fermi restando gli stalli d’autorità, concessi loro da Mazzini in persona, di Alberto Mario Saba a Sassari – degno erede del padre Michele – e di Lello Puddu, raccordo peripatetico fra Cagliari e Nuoro fin dalla sua adolescenza, prima totale offerta, come poi sarebbero state la giovinezza e l’età adulta, alla santa missione della repubblica, della responsabilità autonomistica, dell’orgoglio democratico. Era curioso e suggestivo quell’amalgama ancora in fieri nella minore delle formazioni politiche isolane: i mazziniani storici, e con i maggiori anche Antonio Chiesa – epigono del grande zio Agostino Senes –, e Luciano Marrazzi, e Rosabianca Cadeddu e Marco Rombi – ultimi testimoni del repubblicanesimo guspinese unitamente a Peppuccio Serru –, e ancora quel Luigino Serrenti fan di Giulio Andrea Belloni (scomparso nello stesso anno di Michele Saba) in cui sembrava incarnarsi il popolano repubblicano dei tempi passati … Quindi i lamalfiani moderni, con Giovanni Satta, giovane talentuoso e alla mano che il suo ufficio politico aveva appena ereditato da Bruno Josto Anedda … Lui, naturalmente, Anedda – una storia di ritorno dall’esilio croato quella della sua famiglia – con quell’innato genio di ricercatore e studioso che tutti ammiravano, lui il biografo del giobertiano Vittorio Angius e soprattutto lo scopritore del monumentale e inedito diario politico di Giorgio Asproni! (fino a quel momento raccontato in solitudine, nell’opportuno e nell’inopportuno, da Lello Puddu l’apostolo) … E con Satta ed Anedda, Pietro Bulla – scomparso anche lui, nei mesi scorsi all’improvviso – che trasferiva al gruppo, con la sua affabulazione gioiosa, un soffio di perenne kennedismo –, e Massimiliano Cabras, e Giovanni Addis, e Lello Aru, e Carlo Usai, e Celestino Badas l’ingegnere angelico, e Daniele Orrù, e Benvenuto Tore, e Massimino Serra … Prestissimo sarebbero arrivati anche Antonello Mascia – presenza colta, informata e vivace, intelligenza analitica, conclusioni tranchant –, Gabriella Martignetti – gran professionismo e signorile generosità a quintali –, Eolo Belardinelli con la sua competenza in materia di trasporti e non solo, e Roberto Cabras, Daniela Nascimben e Tonio Demontis, Sergio Baldussi e Giorgio Pippia, Marco Martis … Pierluigi Zanata sarebbe diventato presto giornalista nel partito, prestandosi a funzionare da corrispondente – e che prolifico corrispondente! – de La Voce Repubblicana … Tutto si sarebbe espanso con sufficiente regolarità, come la pasta lievitata, in pochi altri anni e la nuova militanza di base – quella periferica delle sezioni o degli sparsi gruppi autonomi – e quella giovanile piuttosto concentrata nel capoluogo – non avrebbe guardato più alla matrice ma navigato nel presente integralmente lamalfiano, e avrebbe goduto – dalla seconda metà del decennio – dei nuovi ulteriori arrivi eccellenti, di quei colonnelli con meriti di generali saggiati in battaglia, alle elezioni cioè, come Tancredi Pilato, come Aniello Macciotta, come Franco Farina, come Ignazio Cella, come Franco Latti, come Gianfranco Sabattini e così via. Il partito cambiava, era nell’ordine delle cose, come un’officina che diventa il capannone d’una piccola industria entrando anche nelle complicazioni del marketing. All’inizio non era così. Il numero imponeva la fraternità, la fraternità era dei pochi, dei … molti pochi quanti eravamo noi. Se ripenso e ripasso, anche soltanto – né potrei diversamente – a volo d’uccello le liste che quasi ogni anno si dovevano allora esitare per concorrere, e più spesso soccombere, una volta alle regionali, un’altra volta alle doppie parlamentari, un’altra ancora alle doppie amministrative, rivedo decine e decine di nomi e mi sembrano materializzarsi i volti dei partecipanti, dei generosi. Ripenso, per contro, alla inadeguatezza generale della dirigenza del partito, o alla inadeguatezza complessiva del partito strutturato (nel quale io stesso mi colloco perché c’ero, e condivido i limiti) se è vero che quasi tutti quelli che si erano affacciati sul verso dei fac simile ordinati alfabeticamente, perché avevano aderito ad un invito o a una pressione a prestare il loro nome, non sono poi rimasti attivi e nemmeno presenti nella successione avvenire delle stagioni tutte difficili, tanto più per noi minoranza estrema. Peccato davvero. Quel che soprattutto è mancata allora, a mio avviso, è stata l’attitudine alla pedagogia di partito, che è mestiere proprio di una dirigenza che abbia lo sguardo lungo. Intendo dire: creare spazi di valorizzazione dei talenti, talenti di umanità e di cultura e professionalità, di esperienze e relazioni. C’era Marisa Anedda nel direttivo della sezione di Cagliari che, forse già alla fine del 1974, avevo ottenuto, con un ordine del giorno, fosse intitolata a Bruno Josto deceduto ad agosto… Nel 1976 sarebbe partita poi l’operazione Bruno Fadda, la confluenza del suo MAPS. Lui, Bruno – che io ho tardato a capire, diffidente forse perché veniva a noi dopo l’insuccesso dei suoi approcci con i socialisti – era subentrato in Consiglio regionale a Giovanni Battista Melis, scomparso dopo lunga e invalidante malattia, e sarebbe diventato presto uno degli uomini forti, data la personalità prorompente (ma anche umile), del partito, a lungo anche segretario della sezione Anedda, nei primi anni ’80. All’inizio della storia Corona aveva il suo giro di estrazione sardista di alto livello ed il giovanissimo militante, con gli altri della FGR, osservava, forse ammirava: c’era l’on. Puligheddu il patriarca, anche se poi non era d’età così anziano – classe mi pare 1914 –, ma parlava come un patriarca e la sua stessa figura era quella di un capo tribù, ascetico come i migliori dell’Italia e della Sardegna notabilare d’inizio Novecento, abile nell’arte della retorica, ma competente, colto, esperto; c’era l’altro consigliere regionale uscente, Nino Ruju, sassarese, l’intellettuale disincantato, all’apparenza pigro, ma attento a tutto e capace di grandi sintesi, stimato ed amato da tutti (ci avrebbe lasciati nel 1983 sprofondati in un dolore autentico); c’erano i maggiorenti nuoresi, e fra essi forse spiccavano Bustianu Maccioni, l’ingegnere, uomo di mille scambi e di carattere forte e potente in cui avvertivi materializzarsi la vittoria in ogni sfida, e quel Salvador Athos Vincenzo Marletta, medico e gentiluomo che ad ogni sorriso conquistava un voto in Barbagia, ed anche Luigino Marcello il direttore di banca cortese, quasi flemmatico nel tratto ma vulcano di conoscenze e sapiente regolatore nelle relazioni; c’era, cordialone nella sua timidezza di gentiluomo, Tonino Uras, l’avvocato oristanese, che dava spazio a tutti senza fare ombra a nessuno di quei non molti – ma tutti di valore – che pensavano repubblicano nella patria antica della giudicessa, gli Uda, i Trogu, i Filippo Carboni, i Bonomo, ecc. C’erano, nella leva anagrafica di mezzo, ma più giovani che anziani (tali agli occhi di un giovanissimo, s’intende), il sorsese Salvator Angelo Razzu, il sassarese-algherese Giovanni Merella, i nuoresi Giannetto Massaiu e Annico Pau, l’olianese Antonio Catte – questi meno ideologizzato forse ma drago acchiappa voti –, personalità attrezzate, per studi e passione ad un tempo, e sufficiente pratica chi sui giornali (soprattutto Razzu e Pau, su La Nuova Sardegna) chi nei dibattiti pubblici e presto nelle istituzioni rappresentative locali, ad affermare anche elettoralmente l’edera mazziniana che riportava agli ideali della Giovine Europa: pensare in grande, la Sardegna nell’Europa, anzi la Sardegna con l’Italia nell’Europa, che era quanto stesso un serpeggiante separatismo – quello di Simon Mossa, l’angelo Fidel – però schematizzava espungendo l’Italia, vissuta come potenza dominatrice e colonialista. Erano tutti, o quasi, motori elettorali in sviluppo accelerato: Razzu – consigliere provinciale a Sassari, poi anche sindaco di Sorso –, Catte – ormai fattosi cagliaritano per l’incarico universitario di economia dei trasporti (mi pare di ricordare questo) –, Pau destinato non tardi ad una sindacatura prestigiosa (lontano successore di Pietro Mastino), Merella che, vicino a Saba, si sarebbe presto affermato dialettico abile e movimentista. Restava debole la presa elettorale di Giannetto Massaiu, ma di lui tutti sentivano la necessità, perché era il chiodo arrugginito dell’anima azionista del partito, la coscienza che richiamava al rigore e al nitore delle posizioni sempre. Fossimo vissuti in dittatura, lui sarebbe finito in galera per certo, come Fancello e Pintus. C’erano poi i cagliaritani, i sulcitani, i marmillesi soprattutto – confederazione dei paesi, e delle sezioni della giara tutte coroniane (Tuili, Villamar, Pauli Arbarei … in fila per ritirare la ricetta di “su dottori”, dopo il suo comizio nel chiuso informale dell’assemblea), quelli del Sarrabus – di Villaputzu e Muravera, dove si tornava alle radici parentali e clientelari dei Corona e degli Scarlatta –, insomma c’era la militanza dei piccoli territori elettoralmente rispondenti. Sardisti o sardisti autonomisti, non tanto repubblicani di prima fede. Clientes, certo, militanza semplice e onesta, cordiale che ora arrivava a dare umanità ed energia elettorale a un partito che meritava i nuovi apporti. Con la base fedele nel voto erano, anche nel Cagliaritano, i maggiorenti, gli intellettuali, i dirigenti, i dottori-avvocati-ingegneri che erano amati dai loro elettori e che non interrogavano nessuno sulla biografia né di Mazzini né di Lussu. Anche stavolta personalità di valore che riconoscevano, più ancora di quelli delle altre province, la leadership di Armando Corona: di chi era stato, in anni trascorsi, direttore provinciale del Partito Sardo d’Azione e poi consigliere e assessore provinciale, fino appunto al 1969. I Marcello Tuveri – dal 1972 primo impiegato all’ARST, dopo brillanti performance alla Programmazione e dopo anche molte prove, da giovanissimo, nel giornalismo di partito –, i Francesco Frongia affabile avvocato, i Mario Pinna mite funzionario dell’Esit, i Candido Delogu (origini in Scano Montiferro) tranquillo burocrate dell’Inps, i Francesco Cesare Casula autorevole medievista, gli Antonio Masia direttore dei servizi all’Agricoltura, i Tore Casu, che pure veniva dalle competenze dell’Agricoltura, i Vito Tola il bittese asproniano con la sua Maria Moro, Pietrino Tronci il tuilese modesto e ipercinetico, Giovanni Ena il trovavoti in quel di Uta come Ignazio Podda lo era in quel di Ussaramanna, e gli altri poi di Monserrato e dell’hinterland … Nella compagine anche i sindacalisti della UIL componente sardista-repubblicana, i cooperatori della AGCI. Salvatore Ghirra era il dinamico organizzatore – presto segretario della Consociazione provinciale, lui che aveva maturato esperienze d’oro nella CGIL e nel PCI, e che nel 1967 s’era staccato dal tronco stalinista dei Girolamo Sotgiu e s’era associato a Puligheddu e Ruju nel neo costituito gruppo sardista autonomista del Consiglio regionale. Dal 1973 (mi pare), c’era già anche Benito Orgiana, che veniva dalla socialdemocrazia, e sembrava compensare con la bonomia l’irruenza geometrica di Umberto Figus, divenuto cuore quadrato di un partito che con lui smetteva, o rischiava di smettere, di essere quel che era stato, una famiglia di nobili idee e poco pranzo, una famiglia tutta mazziniana ascetica e sardista solidaristica. La memoria riorienta i suoi riflettori, cerca ancora di distinguere e di cogliere le prossimità, i contenuti veri delle relazioni nella prim’ora. Qua e là i repubblicani … antichi e, in originale sintesi, quelli conquistati nella più recente stagione della segreteria regionale di Bruno Josto Anedda, fra 1968 e 1969 nella sede del Corso (anzi, vico Vittorio Emanuele II, civico 2) e in trasloco di promozione da Stampace a Villanova: gli Oliva e i Selva e i Cecchini ad Alghero, i Cattrocci ad Olbia, i Galardi a Carbonia, i Medda a Furtei, i Giangiorgio Saba a Cagliari … E ancora qualcuno degli accademici, soprattutto di Giurisprudenza-Scienze politiche, quelli rimasti in città ma prossimi a nuove e maggiori sedi del continente, essi che erano stati la crema intellettuale del PRI negli anni della scoperta dei giacimenti asproniani … L’ENDAS con l’imprinting repubblicano (pur se, in verità, i lamalfiani del PSd’A e poi del MSA, tanto nel Nuorese quanto nel Sassarese, la sigla se l’erano presa per loro e l’avevano sapientemente valorizzata sul proprio territorio) e naturalmente l’AMI. C’era stato, e gli ultimi numeri stavano uscendo ancora nel 1971, un “periodico di informazione” – così la sottotestata – all’insegna di «costruiamoci una Sardegna nuova»: era L’Edera, quattro paginette, o sei, od otto alle elezioni, che era stata una produzione di Bruno Josto Anedda il quale, approdando alla RAI, aveva appena chiuso il suo bellissimo giornale La Tribuna della Sardegna e aveva fissato la sede legale a casa sua, alla Fonsarda. La tipografia era la Cartotecnica di Guido Fossataro, in vico II° XX Settembre. Negli spazi de L’Edera erano evidenti le mani di molti, ma soprattutto di quelli che stavano più vicino, forse anche per ragioni anagrafiche, al nuovo segretario regionale: Bulla in particolare. Ecco i rimandi a Bertrand Russel, a qualche dissidente sovietico come Zacharov… Salvo errore, nel 1969, fra marzo ed agosto, uscirono nove numeri: ne ho salvato spezzoni, e neppure di tutti. Ma qualcuno potrebbe avere la collezione completa. Nel 1970, trasferita ormai la sezione in via Sonnino 128 (primo piano, spazi enormi, bellissimi), cambiò la grafica e il colore delle bande di testata: dall’arancione al verde, più pertinente. E anche la tipografia, ora quella di Tullio Mulas che era giusto dirimpetto alla sede. Quattro numeri, fra gennaio e marzo. Nell’ultimo, doppio, anche il resoconto di una tavola rotonda al “circolo Giorgio Asproni di Cagliari” sui rapporti fra programmazione regionale e programmazione nazionale, relatori Marcello Capurso, Italico Santoro (redattore de Il Mondo), Gerolamo Colavitti, Giovanni Satta. Almeno un numero (ma multiplo! 1/8) ancora nel 1971, uscito ad agosto. Ancora con la direzione di Bruno Josto Anedda, ma senza firme di redattori. Titolone in prima pagina: “Basta con gli errori della sinistra parolaia” e nel sommario: “La Malfa: i repubblicani sono per una strategia di riforma globale della Società e dello Stato”. Il tutto in vista dell’imminente congresso nazionale del PRI. Che bella stagione, quante belle intelligenze, quante belle persone nel PRI come io lo conobbi allora, quarantatre anni fa, nella sede di via Sonnino 128, con il circolo ENDAS di lato alla sezione-consociazione-federazione e anche allo spazio riservato al (vezzeggiato) gruppo dei ragazzi della FGR, con Roberto Dessì fraterno sempre e tamburino generoso e sveglio, e Franco Cossu con Salvino anche ed Enza Ferrantelli con cui avrebbe fatto famiglia felice, e Piergiorgio Cadeddu e quanti altri, Sergio Mura con Maria Grazia, Enrico Ruggeri destinato a diventare professore di fisica e purtroppo prematuramente perduto, Cappicciola, Congiu, ecc. Un gruppo cospicuo per numero, adolescenti alle soglie della maggiore età (portata ai 18 anni nel 1975), che sapevano combinare, negli spazi stessi della sede e secondo l’uso del tempo, qualche serata leggera – musica e ballo e aranciate la domenica magari – a una bellissima mostra di pittura, a molte molte discussioni … Nel gruppo anche il nostro Giovanni Bovio, che ancora non capivo (forse non capivamo) nella sua dottrina, poi scoperto come un gigante della morale pubblica e della democrazia, di cui sono fiero di aver salvato, nel 2008, l’effigie ora più che centenaria in gesso pesante, il busto cioè opera di Pippo Boero, che Luciano Marrazzi e Bruno Josto Anedda avevano scovato in un sotterraneo del Comune e che, dopo infinite peripezie, nella stagione del declino dei partiti (e della cosiddetta prima Repubblica) era stato fatto prigioniero da forza italia minuscola minuscola. Presto, prestissimo, nuove energie sarebbero venute alla FGR da altri coetanei o fratelli appena appena più giovani impegnati negli studi in città: i Mariano Pili che frequentava Lettere e veniva nientemeno che da Seneghe caput Sardiniae!, gli Aldo Borghesi, i Roberto Pianta – entrambi iscritti a Lettere –, i Massimo Deiana – destinato a diventare addirittura preside di facoltà a Giurisprudenza –, direi anche i Giovanni Corrao che, adulto già da giovane, portava, come dato spontaneo e non selezionato, le suggestioni del repubblicanesimo siciliano di matrice risorgimentale. Con una sua propria distinzione, della stessa classe anagrafica (sua e anche mia), Alberto Tasca, un pensatore, ascoltatore più che un tribuno. Uno che non faceva mai pettegolezzo, e andava per coordinate sempre ambiziose, alte e larghe, progettuale. E anche i Salvatore Pomata, bel carattere rappresentativo del popolo di Sant’Avendrace, ed i Franco Turco e i Roberto Farci – quartesi – e i Pier Giorgio Massidda si sarebbero aggiunti, coloro che anni dopo avrebbero copulato (tutti mi sembra, Turco forse per breve tempo, in compagnia di tanti neutri poveretti) con quell’aberrazione politica, a pensarla secondo lo spirito dei padri della democrazia, denominata variamente forza italia o partito o popolo o polo o casa delle o della libertà: un partito tutto di cianfrusaglie sicché non si è mai capito neppure se la denominazione fosse al singolare o al plurale, ma che di chiaro aveva l’essere l’esatto rovescio della liberaldemocrazia e più ancora della democrazia. E noi eravamo (e in pochi siamo rimasti sempre, senza cedimenti nella lunga stagione della dittatura conformista e belante, votata al culto della personalità) democratici, mazziniani nell’ispirazione etica, azionisti nella sensibilità politica e nel rigore istituzionale. C’era in noi l’orgoglio della minoranza, dell’essere minoranza, con l’ambizione certo di un’espansione elettorale, di un riconoscimento maggiore nell’opinione politica, di un’accresciuta presenza nelle istituzioni rappresentative, ma mai a discapito della identità ideale e politica. Come, peraltro, la segreteria nazionale di Ugo La Malfa esigeva fornendo, per doverosa legittimazione, anche la personale testimonianza. E come anche, in verità, sarebbe stato negli anni successivi, con la leadership Spadolini: il quale Spadolini, dimissionato dalla presidenza del Senato dall’arroganza spudorata dei nuovi padroni (complici i belanti già sedicenti repubblicani), non a caso nel 1994, lo stesso della sua morte, votò contro il primo governo Berlusconi e documentò tutta la miseria non soltanto di quell’esecutivo a concorso leghista ed eja eja alalà, che fu un’autentica vergogna per la Repubblica, ma dell’intero disegno politico della destra incredula e neopagana (sodale di chi avrebbe tante volte offeso il tricolore e l’inno di Mameli). Le complessità di Armandino Corona. Torno a Corona. Ai primi del 1972, in vista delle elezioni politiche anticipate di quell’anno (quelle da cui sarebbe uscito un infelice governo cosiddetto Andreotti-Malagodi, superato poi da quel ministero Rumor con la famosa troika economica La Malfa-Giolitti-Colombo che lucicò nel pur tremendo 1973 e finì però anzitempo per le dimissioni del ministro del Tesoro), ebbi l’idea di chiedere una intervista politica generale proprio a lui, al consigliere regionale repubblicano, che poi avrei stampato, in economia, in qualche decina di esemplari ciclostilati, secondo le possibilità del momento. Artigianato d’un adolescente che si sentiva missionario come Lello Puddu trent’anni prima (ma lui, Puddu, con un maestro come Giovanni Ciusa Romagna), e prima di attingere alle fonti prime – Mazzini, i padri della democrazia italiana – partiva compulsando le esperienze vissute di quelli che incontrava tutti i giorni. Infatti me ne andavo a studiare nel villino che Corona aveva acquistato nel viale Merello, vicino alla clinica Villa Verde della quale era gestore e direttore sanitario: al piano terra era l’ufficio-deposito medicinali curato da Salvatore Ghirra, poi capo del personale della casa di cura, al primo piano le stanze vuote o semivuote offerte gratuitamente al partito, dato che presto si dovette lasciare l’onerosa sede di via Sonnino. Affabile, paterno anche, Corona, con il giovane neppure ventenne che lo interrogava e con diligenza fissava sulla carta il filo della narrazione, il racconto delle conoscenze e delle esperienze. L’intervistatore, è vero, non aveva ancora sviluppato quel senso critico che forse l’impresa avrebbe preteso. E però quell’intervista fu, nella sua modestia, la rivelazione d’un bisogno, o di un doppio bisogno: quello generale della comunicazione nel partito, e quello dello spazio e del ruolo che i giovani chiamati a “fare esercizio” potevano e dovevano occupare per l’utile di tutti: con la buona volontà, non importa se senza mezzi. L’opuscolo – anzi, il mazzetto di una ventina di fogli A4 pinzati in un margine – e con il titolo pretenzioso di “La Sardegna può essere migliore” (n. 1), che era poi la ripresa di uno slogan utilizzato dal partito nell’Isola da alcuni anni e nuovamente rilanciato successivamente, finì in giro con qualche macchia d’inchiostro e fu il mio contributo alla campagna elettorale per le politiche (anticipate) del 1972. Ripenso ad Armandino Corona per come è stato il mio rapporto personale con lui in quel contesto temporale e dopo: alla frequenza degli incontri, brevi sì ma quasi quotidiani, fra 1972 e 1973, poi alla puntualità settimanale del sabato mattina, fino al suo crollo per l’infarto che doveva restare segreto – nei giorni della campagna elettorale per le regionali, nel 1974 – e dopo ancora. In quel tanto di giorni – forse era soltanto primavera (quando Bruno subì un primo doloroso e illusorio intervento chirurgico) o forse, più probabilmente, dopo, forse a fine luglio – io metto anche la visita che insieme facemmo, Armandino e io, al nostro Bruno Josto Anedda, nella sua casa di via Giudice Guglielmo. Rivedo il calendario: quarant’anni fa! Salì di molto l’intimità amicale nel 1975, e lo spettro dello scambio incluse aspetti privati – non esclusa neppure la sua agiatezza e i suoi redditi! non escluse neppure le cose familiari – e teatri ideali per me originali o praticati soltanto nello studio degli avvenimenti e dei protagonisti del risorgimento patrio, con Carlino Sole e Tito Orrù e gli altri migliori miei professori. Mi disse della Massoneria giustinianea e dello sforzo ch’egli compiva, o avrebbe desiderato compiere, di collocare, in accelerata evoluzione, l’esperienza obbedienziale sarda nel maggior contesto nazionale. E di più: anche di valorizzare la singolarità dei percorsi isolani per quel che erano stati e che rivelavano pari dignità, nei rimandi democratici, repubblicani ed antifascisti, rispetto a quelli propri di altre circoscrizioni. Ho scritto abbondantemente su questa materia, ed è e sarà tutto materiale per una biografia, quando sarà il tempo di esitarla. La presenza repubblicana nei ranghi della Massoneria era storica, documentata, giustificata. Così nella dimensione nazionale come in quella regionale sarda. Non erano mancate, in antico, al tempo delle professioni puritane, le riserve e anche le opposizioni di militanti nei confronti di una associazione-Istituzione ecumenica, aperta a tutti quelli che si riconoscevano nei valori basici della patria e della libertà, compresi perciò i monarchici. L’antimassonismo repubblicano, quello proveniente dai settori certamente minoritari del movimento e del partito, replicava in certo modo l’intransigenza che era stata dei papi e dei clericali i quali, assumendo che la parità di status del cattolico e dell’ebreo o del riformato introducesse un elemento di inaccettabile relativismo religioso, saettavano le scomuniche. Nel nostro campo gli oppositori erano quelli che temevano che la fraterna prossimità di repubblicani e monarchici conservatori potesse attenuare la carica ideologica dei primi e la loro opposizione al sistema dinastico odiabile e odiato. Il tempo aveva quindi, fortunatamente, emancipato tutti dalle rigidezze immotivate, e peraltro il Grande Oriente d’Italia fin dal 1864, cioè dai tempi di Firenze capitale, aveva tratto i suoi Grandi Dignitari e gli stessi Gran Maestri dalla sinistra democratica, dalla vasta area radical-repubblicana, portando in minoranza i moderati e i postcavouriani. I quali, per quanto conservavano e alimentavano della religione patria, continuavano ad occupare i propri stalli, partecipi di una storia che – val bene qui sottolinearlo – maturava inesorabilmente dal liberalismo alla democrazia, certo con contraddizioni e rapsodici arretramenti, ma pure con la convinzione della vittoria finale dei postulati riformatori avanzati, a partire dal suffragio universale. Il radicalismo prefascista funzionò proprio come terreno di evoluzione imperfetta ed i repubblicani – con il massone Salvatore Barzilai prima ed il massone Ubaldo Comandini (che ebbe una sua “storia” sarda) dopo – parteciparono addirittura, negli anni della grande guerra, al governo del re Savoia. Cambiò molto lo scenario nazionale negli anni del fascismo e dell’antifascismo perseguitato ed esule. E il Grande Oriente d’Italia (in uno alla Lega dei Diritti dell’Uomo) ed il Partito Repubblicano Italiano portarono entrambi le proprie direzioni centrali all’estero. E sovente quelle direzioni furono intrecciate. Non era uomo di approfondimenti storici, Corona, ma gustava le storie attraverso cui risaliva alle sintesi della grande storia. Per questo anche amava molto la capacità narrativa, oltreché la dottrina, del suo amico professor Francesco Cesare Casula, cui chiedeva di intrattenere i grandi ospiti – ricordo una volta benissimo il ministro Pietro Bucalossi – perché l’incanto delle nostre millenarie vicende e vicissitudini coinvolgesse e strappasse una solidarietà morale che doveva avere risvolti concreti, legislativi e amministrativi. Per un uomo come Corona, naturaliter ecumenico, propenso alla trasversalità, alla relazione circolare, non alla cordata ideologica, la Libera Muratoria rappresentava comunque, ben più che il Partito Repubblicano come s’era connotato storicamente, col mazzinianesimo prima, con l’azionismo poi, lo spazio d’espressione più valido, rispondente ed efficace. Me ne raccontava e raccoglieva anche, con l’ascolto ed in uno spirito che s’era fatto tendenzialmente paritario (rimarco l’avverbio), notizie e proposte per nuove espansioni. Lo dico chiaramente: espansioni parallele, talvolta incrociate, fra Massoneria e PRI sardo negli anni ‘70. Quando sarà il momento potrà tracciarsi il dettaglio di queste operazioni: si potranno elencare le personalità di varia matrice ed esperienza che Corona indusse, dallo spazio della loggia dove egli le aveva conosciute e frequentate, ad iscriversi al partito, o a candidarsi magari con la specifica dell’indipendente ora alle comunali ora alle politiche regionali o parlamentari, o anche a rappresentare l’Edera – pur senza tessera – in un comitato o in un consiglio d’amministrazione, o nell’ufficio di un commissario di ente. Per non dire dei vertici delle delegazioni statali nell’Isola. Ma anche il contrario: dal partito alla loggia. Portando energie repubblicane nei templi rituali, arricchendo la loggia – o le logge – del sapore d’una tradizione in permanente assestamento, o rinnovamento: dopo la stagione – a dirla per le grandi coordinate – del Fratello Pacciardi, quella degli azionisti Reale e La Malfa, quindi dei Biasini, infine degli Spadolini o dei Giorgio La Malfa, nessuno dei quali massone. D’altra parte nella vita di Armando Corona, meglio: in quella fase della sua vita collocabile fra i 55 ed i 65 anni d’età press’a poco, le due carriere, quella politica di partito e quella dignitaria fra i giustinianei, s’erano sviluppate come in associazione: la presidenza del Collegio nazionale dei probiviri del PRI era precisamente coeva – anno 1975 – di quella dell’interloggia regionale sarda (Venerabile della loggia cagliaritana Hiram e presidente/primus inter pares dei suoi colleghi nella circoscrizione isolana); da questa seconda sarebbe venuta, nel 1978, la presidenza della commissione elettorale nazionale per il rinnovo delle cariche apicali del Grande Oriente d’Italia, e la conseguente presidenza della Corte Centrale dello stesso GOI. Proprio questa funzione al vertice della giustizia massonica, rimasta negli annali per la sentenza di espulsione, nell’ottobre 1981, di Licio Gelli, si sarebbe svolta in parallelo, all’inizio, con la guida dell’assessorato agli Affari generali della Regione e, quindi, con la presidenza del Consiglio regionale, e nella parte finale, con la vice segreteria nazionale del PRI, supporto collegiale a Giovanni Spadolini divenuto presidente del Consiglio dei ministri. Pur senza tessera di partito (dal 1976), ma con un autonomo e critico fiancheggiamento soprattutto sulla stampa (e nuovamente con la tessera all’esaurimento della esperienza di governo di Spadolini, alla fine del 1982), seguivo le vicende sarde del partito e la vicinanza personale ad Armandino Corona – alcune cui dolorose vicende familiari ancor più me lo facevano amico – facilitava la conoscenza delle cose e la relazione con i repubblicani. La sua elezione alla carica di Gran Maestro cambiò molto nei suoi nessi con il partito e, per quel che vale – ma qui vale come testimonianza – anche nei rapporti miei personali. Egli disse, in prima battuta, che avrebbe rinunciato alla militanza, cioè alla tessera (e naturalmente ad ogni carica di dirigente), perché il capo di una Comunione apolitica ed ecumenica, pur legittimato ovviamente a conservare le sue proprie opinioni, era bene mostrasse una sua piena terzietà rispetto al sistema dei partiti in generale ed a quello che storicamente s’era rivelato più prossimo all’Obbedienza: repubblicani, radicali, liberali, socialdemocratici, socialisti, sardisti, insomma la variegata area laica di centro-sinistra. Fu in sé un bene purtroppo però contraddetto, dal punto di vista politico o del rapporto con il suo partito di provenienza, sotto diversi aspetti: innanzi tutto dalla sua accettazione che un mezzo PRI, in Sardegna, facesse riferimento a lui, trovando il coagulo non in opzioni ideali, ma soltanto nella condiscendenza con la sua decisione di non rinunciare, dopo che alla tessera, anche al seggio consiliare. Poi dalla dichiarata volontà di non partecipare ai lavori del Consiglio regionale, fino a che una commissione d’inchiesta interna all’Assemblea non si fosse pronunciata, o avesse indotto l’Assemblea stessa a pronunciarsi, circa un addebito mossogli relativamente ad un atto compiuto quand’era presidente del Consiglio riguardo agli assetti proprietari de La Nuova Sardegna. Il PRI infatti, avendo perduto il terzo consigliere (Demontis) passato al gruppo del PSd’A, ed avendo il secondo (Catte) imprigionato dai compiti di assessore, non poteva contare che su di lui, benché nel rango formale di indipendente, per lo svolgimento delle attività di aula. Va poi ricordato che, man mano che si facevano più insistenti le pressioni perché egli comunque assicurasse la sua presenza (o cedesse il posto al primo dei non eletti, Tarquini), s’alzava di tono la reazione – ed è ben logico che fosse lui il motore di questa, per cui funzionava da banditore il giornale Sassari Sera. Dal periodico sassarese, che a pro delle sue vendite andava pubblicando con sempre maggiore frequenza articoli riguardanti la Massoneria e la gran maestranza Corona, venivano in crescendo duri e ingenerosi attacchi alla dirigenza regionale repubblicana, o a quella parte che insisteva con il leader per una amichevole composizione del conflitto, giusto sulla linea della mutua comprensione delle legittime ragioni. Quando, in coscienza, avvertii io stesso la insostenibilità di quella dilacerazione (per curare la quale molto mi impegnai con mezzi i più vari) intervenni per iscritto, formalmente, su Corona. Unicamente riferendomi all’esigenza e anche alla urgenza di dare corso effettivo a quanto egli stesso aveva tante volte dichiarato circa la terzietà politica del Gran Maestro e circa l’inattaccabilità della sua posizione intrinsecamente connessa alla prudenza selettiva adottata nelle sue frequentazioni. Il che, dato lo stile di Sassari Sera, era dubbio fosse stata, nel concreto, applicata. Fu deferenza formale nei suoi riguardi e insieme sentimento amicale e senso di responsabilità istituzionale e politica – delle ragioni della politica, come rappresentanza di un interesse generale – tutto quanto io potei spendere per un equanime riconoscimento dei diritti e dei doveri. Ne ebbi un doloroso, duro rimbrotto. Con un bis verbale, ancor più alta nei toni, un anno e mezzo dopo. In quegli anni miei di militanza replicata – lungo il decennio dopo il 1982 – quando il PRI sardo era diviso verticalmente fra coroniani e anticoroniani, nella mia sezione cagliaritana intitolata a Bruno Josto Anedda, nelle sedute correnti e in quelle congressuali, io credo di essere sempre intervenuto esponendo un punto di vista sul merito delle materie all’ordine del giorno, e di non aver quasi mai votato quando i documenti conclusivi proposti dalle parti parevano opporsi per ragioni estranee all’oggetto e rimontanti a quell’inconcluso contrasto. Fui contro l’accordo coi radicali alle politiche del 1987, perché i due partiti erano appena reduci dal feroce contrasto che li aveva opposti riguardo alle materie del referendum, così sulla responsabilità civile dei giudici come sul nucleare. Il cartello elettorale mi parve allora una operazione trasformistica (e il risultato del voto mi avrebbe dato ragione). Soltanto allora proposi un documento che prendeva posizione, ampiamente respinto dalla sezione che si era allineata alla volontà del nazionale. Ben sapevo che il Partito Radicale di Pannella e di Spadaccia o della Faccio ecc. non era il Partito Radicale con cui nel 1958 il PRI s’era alleato … Ho accennato a questo episodio perché nel decennio 1982-1992 era stato il solo in cui m’ero speso a sostegno di una parte orgogliosamente datasi alla sconfitta; per il resto sempre avevo cercato di favorire l’incontro, dopo il confronto, fra le anime e le correnti del partito che prendevano spessore soltanto nella conta dei favorevoli e dei contrari al … perenne convitato di pietra. Seguii con maggior distacco le vicende che, con la stagione deflagrante di mani pulite, sembravano chiudere tutta una fase della vita della Repubblica. Nel 1992, ormai esaurita la sua esperienza di Gran Maestro e cessata ormai da tre anni anche la presidenza di Mario Melis, Corona ripensò ad un ritorno alla politica, vagheggiando una candidatura senatoriale da indipendente, in una improbabile scheda PRI-PSd’A (dico improbabile com’era stata improbabile quella PRI-PR alle politiche del 1987). Ebbi sulla questione uno scambio epistolare con Giorgio La Malfa, segretario nazionale del partito, favorevole a questa ipotesi che ritenevo proprio campata in aria sotto il profilo sia ideale (il PSd’A era ancora prigioniero delle delibere congressuali che lo connotavano indipendentista e nazionalitario) che politico-programmatico. Potrei anche aggiungere, benché si tratti al momento di una pagina non ancora suffragata da adeguate prove, altro che da quelle testimoniali, della rottura dell’amicizia che nel 1987 si consumò fra il Gran Maestro e il segretario politico del PRI (prossimo a divenire presidente del Senato) Giovanni Spadolini. Fu detto trattarsi di una lontana conseguenza della disapprovazione di quest’ultimo della mancata rinuncia al seggio consiliare non a fronte di un’attività, o almeno di una presenza, nell’Assemblea legislativa del leader massonico. Una incomprensione che trovava, a distanza di anni, altri elementi di divaricazione, forse in certe inframmettenze dal seggio di Palazzo Giustiniani nelle vicende repubblicane della Sardegna. Seguii con malinconia l’endorsement, nel 1994, a quella cosa triste che è stata ed è forza italia (che ho sempre ritenuto e ritengo una formazione di stampo peronista, con il suo culto della personalità e l’andar per slogan, un corredo di classe dirigente piccola piccola e rimandi internazionali da temere, ecc.). Seguii con minor diffidenza o sofferenza l’adesione, nel 1998, al progetto cossighiano dell’UDR. Lui, Corona, con il gruppo minuscolo cosiddetto di Unità repubblicana – simbolo tre edere ciascuna con uno dei colori della bandiera nazionale –, poi confluito nuovamente nel PRI, ma nel momento (2001) in cui la confusione mentale di Giorgio La Malfa aveva condotto il partito di Mazzini e Bovio, di Parri e Ugo La Malfa, di Asproni e Soro Pirino, di Giovanni Battista Tuveri e Michele Saba, nella bagna della destra incredula e neopagana. E’ una storia dolorosa questa anche solo a ripensarla, figurarsi a scriverne. Ma credo meriti quest’altra osservazione che vale anche a contestualizzare ed a trovare attenuanti e spiegazioni. Nell’autunno 1993 i giornali regionali dettero ampio spazio a cronache piuttosto gridate ed a lenzuolate autentiche delle composizioni delle logge isolane. Forse cento articoli L’Unione Sarda, altrettanti La Nuova Sardegna in quelle settimane fra ottobre e novembre, ma non per illustrare al pubblico una realtà poco conosciuta, bensì per cuocere allo spiedo, fra il divertimento della plebe che neppure conosce il nome del sindaco della propria città o la differenza fra governo e parlamento, storie personali onorate, idee e relazioni associative. Nel contesto, qualche eccezione, certo, ma il tutto raccontava quanto corrisponda al vero che una democrazia matura sia tale soltanto quando può contare su una opposizione che conosca il suo mestiere e su una stampa libera e capace di servire la verità senza spettacolarizzarla. In generale, anche allora, la figura pubblica di Corona fu caricaturata più che rappresentata: opzione facile per giornalisti dalla biro rapida e capace di graffiare restando in superficie, ché fare inchiesta era ed è sempre troppo faticoso. Ma il modo in cui lo stesso Corona reagì a quel bombardamento a me parve, e a ripensarci ancora pare, incongruo. Perché affidandosi all’arte intervistatrice del direttore de L’Unione Sarda, Antonangelo Liori – certamente una delle penne più belle cresciute nel giornale e sostenuto da una humanitas autentica, ma fattosi al tempo della responsabilità del giornale incapace di cogliere il peggio che andava salendo non soltanto dentro la compagine da lui odiata di Palomba, ma soprattutto attorno e contro quella compagine –, s’era dato a scontrarsi a viso aperto, ma a puntate e con linguaggio allusivo (secondo me improprio in un uomo comunque delle istituzioni), con i maggiorenti, oltreché del Patto Segni, dei partiti della sinistra. Quelli stessi – il PDS soprattutto – che erano stati gli imbecilli ispiratori delle lenzuolate scandalistiche del 1993. Si era ormai nel 1995. Corona aveva dovuto abbandonare la militanza attiva nel Grande Oriente d’Italia, poiché una clausola del patto stipulato dal nuovo Gran Maestro Gaito e il capo della polizia Parisi prevedeva l’automatica sospensione cautelativa di chiunque, affiliato al GOI, fosse raggiunto da un avviso di garanzia, e lui, Corona, trovandosi in quella situazione concreta, onde evitare la sgradevolezza del provvedimento cautelativo, giustamente concordò la sua uscita. Che da temporanea divenne poi definitiva. Ma per capire più profondamente il personaggio e le motivazioni profonde di un certo atteggiarsi pubblico, occorre seguire anche qui il percorso associativo da lui scelto che non poteva non porre problemi nel giudizio sulle ragioni ideali che avrebbero dovuto ispirarlo. Nel 1996 egli infatti si fece promotore della costituzione di una organizzazione massonica concorrente di quella storica e di gran passato democratico da lui stesso presieduta per otto anni: si trattava – basta leggere le videate del sito internet di riferimento – della Gran Loggia d’Italia – USMOI, Obbedienza che egli rinunciò allora a coltivare salvo farsene abbracciare giusto dieci anni dopo e della quale fu riconosciuto Sovrano Gran Commendatore del Rito (lui che si era sempre fatto un punto d’orgoglio di non aver mai appartenuto al Rito Scozzese né ad altro Rito) e nella quale fu imbrigliato dalle discolpe conferite ad abundantiam alle imprese di Licio Gelli (lui che si era sempre vantato di aver espulso, con la firma in calce ad una sentenza, il capo della P2). Dunque, nato repubblicano (nella continuità da una certa linea ideale e politica del sardismo repubblicano, anche se non sarebbe da dimenticare che intorno al 1966, dopo una bruciante sconfitta elettorale, egli tentò, da sardista, un accostamento al Partito Socialista Unificato, materia su cui c’è ormai abbondante documentazione) e massonicamente nato giustinianeo, e giunto addirittura tanto in un ambito quanto nell’altro a posizioni apicali di responsabilità, si era fatto trasformare dalle circostanze in uomo di destra – la destra non ideologica dei neopagani di forza italia – e in Sovrano dell’USMOI, di un circuito latomistico senza storia e anche senza presente, a volerlo confrontare ovviamente con quello ricco del Grande Oriente d’Italia e anche di altre Obbedienze, com’è quella di Palazzo Vitelleschi. Mi capitò nel febbraio 2010, aderendo all’invito della presidente dell’associazione Amici del libro, ed appoggiato dall’amico carissimo e benemerito Armando Serri (che nella sua giovinezza ebbe anche lui, come me, una esperienza nella FGR), di intrattenere un pubblico alquanto numeroso di soci ed ospiti per onorare la figura di Armando Corona a quasi un anno dalla scomparsa. Dico qui, per semplicità, “la figura”, ma in realtà quando mi fu chiesto quale titolo dare alla conferenza io proposi il seguente: “Armando Corona, la figura e la persona”, operando quindi una differenza fra l’uomo pubblico conosciuto e da taluno ammirato e da talaltro detestato e perfino dileggiato, e la persona che con la sua complessità andava accolta e rispettata (e direi anche amata), cogliendone con discrezione virtù e vizi, limiti e potenzialità, meriti e contraddizioni. Non ho ancora pubblicato quel testo, che tutto si muoveva lungo questo asse, della doppia lettura dell’uomo pubblico (leader politico e leader massonico) e della persona con i dati della sua formazione, dei suoi obiettivi, delle sue riflessioni, dei suoi affetti. Al netto, in chi ne parlava, restava la sostanza, molta sostanza positiva, restava la persona che era stata capace di piangere in pubblico raccontando di vicende private brucianti, restava la persona che era stata capace di sfidare tutte le convenzioni per dare gratuito spazio a chi ancora non aveva mostrato i suoi meriti, restava il medico che si era speso sino alla fine per offrire un consulto a chi, in un dramma di vita, non sapeva a chi rivolgersi. Al lordo c’erano però quelle altre vicende della vita pubblica che, poiché di vita pubblica si trattava, ben potevano opinarsi dichiarando onestamente a quale codice valoriale si facesse riferimento per dire questo bene e questo male. I ritmi rapidi della vita ci portano a frettolose sintesi, sempre più raramente a pacate analisi. Io credo d’aver confidato più volte come Armandino Corona sia stato una delle persone che di più hanno inciso nella mia formazione per i molti aspetti di essa. Ma non soltanto: anche per taluni approdi che hanno mostrato di valere proprio perché fattisi sede di letture critiche e sede anche di oneste relazioni, costasse quel che costasse. Tutto resta nella memoria, ma certo è bello – come in un album fotografico – poter indugiare davanti alle sequenze più grate, e quelle degli anni 1971 e immediatamente seguenti, nel gran movimento della nostra unificazione repubblicana con i sardisti autonomisti, e il pur modesto protagonismo della FGR nel suo mezzo, sono senz’altro, per me, fra le più care. Non per l’età verde, però, per gli ideali (mai abbandonati) e l’entusiasmo (purtroppo perduto).
a cura di Gianfranco Murtas - 03/03/2014
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