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Martedì 22 maggio, ad iniziativa del Centro Sardo di Studi Genealogici e di Storia Locale, si svolgerà presso il salone conferenze della Camera di Commercio una conferenza-dibattito su “Intellettuali e Popolo in Sardegna nell’età del Risorgimento”. Sono stato invitato a partecipare e, nella impossibilità materiale di intervenire, ho affidato all’amica Vittoria Del Piano un brevissimo testo – quello che qui appresso riproduco – che cerca di offrire per flash un contributo forse eccentrico alla analisi della gran questione: cercando le combinazioni invece o ben più degli spazi separati di presenza pubblica, fra intellettuali e popolani. Le aree condivise e quelle in cui i ceti popolari si emancipano moralmente assumendo una consapevolezza delle grandi ragioni della patria sono, a mio avviso, il mutualismo (compreso quello che associa i reduci delle campagne di guerra) e le logge massoniche, i sodalizi sportivi intitolati a Mazzini ed a Garibaldi ed i circoli che s’agitano fra l’economico e l’ideologico in città, nella lunga stagione che va dalla unità d’Italia alla fase della fondazione dei partiti politici (della sinistra), i quali ultimi riusciranno infine a coagulare attorno ad alcune idee forza ed a programmi tendenzialmente organici le risorse più attive e mature della società. Inclusi e per primi, anzi, i lavoratori del braccio e non soltanto i borghesi. Così , nel capoluogo, sarà per il repubblicanesimo (1896) come per il socialismo (1895). La mia tesi è che quell’insieme di corpi associativi (popolari) si esaltarono nella grande idea della patria unita e della democrazia, anche ovviamente nella speranza che quelle conquiste costituissero premessa e garanzia di giustizia sociale. Il repubblicanesimo ebbe un ruolo fondamentale in tutto ciò, ben più oltre dei limiti organizzativi delle sue strutture. Ritenendo che qualche elemento potesse venire dalle mie ricerche sulla storia della massoneria in Sardegna, l’amica Vittoria Del Piano mi ha sollecitato un breve e magari eccentrico contributo alla riflessione sul rapporto fra “Intellettuali e Popolo in Sardegna nell’età del Risorgimento”. E in effetti, pur senza adesso particolare approfondimento, io riterrei che una qualche significativa relazione possa trovarsi, nella realtà concreta di Cagliari, segnatamente a cavallo fra anni ’60 e ’70 del XIX secolo, in talune porzioni del mondo latomistico cittadino: in cui l’elemento associativo interclassista in capo alle logge si combinava con la sensibilità a una idea civile e politica nel senso proprio del patriottismo liberale o democratico. I numeri relativamente modesti degli appartenenti alle logge – cento complessivamente nei due decenni successivi alla unità d’Italia – fanno intuire che qui una tale sensibilità fosse più matura e curata che non nell’associazionismo mutualistico che pure a Cagliari fin dal 1855 aveva preso piede per merito di Stefano Rocca (fondatore della Società degli Operai e futuro Saggissimo del locale Capitolo Rosa+Croce del Rito Scozzese Antico e Accettato, oltreché consigliere comunale). Sappiamo per certo dei rapporti della Società degli Operai cagliaritana con le consorelle di mezza Italia e della sua partecipazione ai congressi nazionali per i quali le capitò di delegare uomini come Giorgio Asproni, esponente già solidamente collocato nel solco politico mazziniano, lo stesso cui facevano maggioritario riferimento le Fratellanze operaie del continente. Perché è vero, e va segnalato, che una certa educazione alle grandi idealità – invero più a quelle sociali che non a quelle strettamente politiche – fu tentata a Cagliari in quel vasto arcipelago dei sodalizi non soltanto mutualistici ma anche sportivi che si intitolarono ancora a Giuseppe Mazzini ed a Giuseppe Garibaldi (per tentare successivamente una fusione fra di loro). Insomma attraverso il rimando ai grandi nomi dell’Italia unita – Mazzini e Garibaldi in primis – si tentava, ancora nel tardo Ottocento, una educazione popolare non soltanto al sentimento patrio ma anche al sentimento democratico. Non per nulla erano le sedi di questi sodalizi popolari ad ospitare le manifestazioni consentite allora più al chiuso che all’aperto: per ricordare la Repubblica Romana a febbraio, o il transito mazziniano a marzo, ecc. fino al venti settembre di Roma capitale. Ed egualmente – nei limiti avari del consentito – nelle pubbliche manifestazioni dei cortei cittadini per celebrare, magari al monumentale, la circostanza di calendario con la deposizione di una corona di fiori, erano ancora i sodalizi popolari sportivi, così come quelli studenteschi del Circolo Democratico, o del Circolo Cairoli, o magari i soci di qualche Filodrammatica, a farsi protagonisti, di fianco alle società mutualistiche. Includendo fra essi non soltanto la Società degli Operai e quell’altra di Mutuo Soccorso e Istruzione, ma anche tutta una serie di sodalizi di categoria, di mestiere cioè, che tanto più fra anni ’70 ed ’80 presero largo piede in città. Fra essi era, non filiazione massonica ma certamente promossa con forte impegno anche da vari esponenti di primo piano della massoneria locale, la Società dei Reduci delle patrie battaglie. Superstiti delle guerre d’indipendenza, di quella di Crimea del 1855, delle campagne garibaldine del 1860-61, di quella di Mentana del 1867 o infine di Porta Pia del 1870, tornavano alle loro famiglie ed ai loro mestieri – operai e artigiani in larga prevalenza – uomini di trenta, quaranta o cinquant’anni, e cercavano copertura sociale in un sodalizio mutualistico che potesse anche proteggere le loro famiglie ove infortuni e malattie (magari anche come postumi dei combattimenti in campo) o infine la morte intervenissero a rovesciare le sorti personali. Anche qui, l’associazionismo di evidenza mutualistica era unito al culto della idea che essi (fossero precettati o fossero volontari) avevano servito con rischio negli anni migliori della loro vita. Pur sudditi del regno, coltivavano l’idea della cittadinanza, che costituiva un portato specifico della cultura democratica e repubblicana (integrante l’elettorato almeno attivo). In campo strettamente massonico è da dire che se tutto borghese e intellettuale fu l’esordio, nel 1861 (loggia Vittoria con sede in Castello), a marcata presenza popolare fu nel 1868 la loggia Fede e Lavoro, che si riuniva non a palazzo Villamarina nel Fossario ma in via Sant’Eulalia, presso l’albergo La Concordia gestito dai Fratelli Castello (tutti e tre dignitari della loggia): cospicua la presenza di lavoratori del mare, marittimi e calafati – ben 17 – , ma anche sarti, falegnami e calzolai, fabbri, ramai e sellai, camerieri di taverna e commessi di negozio, pellai e meccanici. Le circostanze di calendario – che era il calendario civile della patria appena approdata ad unità di territorio e in cerca di unità di ordinamenti – portavano questi operai ed artigiani a servire, con discussioni, e ad onorare anche con gradevoli agapi fraterne, le maggiori ricorrenze. Non poteva essere il livello spesse volte modesto d’istruzione a tenere lontani i massoni, così come i soci del mutualismo, dal sentimento condiviso della patria italiana: una causa per la quale valeva aver combattuto. Tanto più ciò avveniva dacché nel 1864, allorché la capitale venne portata da Torino a Firenze, fu la corrente democratica, variamente declinata mazziniana e garibaldina (ancora viventi l’Apostolo e il Generale), a costituirsi in ampia maggioranza nella Obbedienza. Ciò ebbe diverse e ripetute ricadute anche nella rete territoriale isolana. Leali verso gli istituti costituzionali del regno, e perciò alla monarchia Savoia, le logge popolari a vocazione democratica e radical-repubblicana furono orientate a considerare sempre le ragioni universali del progresso: guardando non soltanto in patria ma anche fuori, sullo scenario internazionale, francese soprattutto. Non per l’unità di classe del proletariato, ma per la rivendicazione laica, tanto più dopo l’avvento della Terza Repubblica nel 1870, o l’affermazione governativa della sinistra in seno alla Terza Repubblica. E’ da dire che dopo questa esperienza della Fede e Lavoro che si protrasse una decina d’anni, anche le logge che sarebbero venute poi avrebbero combinato l’elemento borghese e intellettuale con quello popolare ed operaio, motivando l’interclassismo con le ragioni dell’anticlericalismo che affiancavano quelle tradizionali dell’umanitarismo sociale. Fra esse fu la petizione per l’abolizione della pena di morte, non a caso propagandata insieme con quella per la soppressione delle corporazioni religiose nella provincia romana all’indomani di Porta Pia…
Gianfranco Murtas - 20/05/2012
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