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Democratici e pensiero laico: un libro e le domande,
fra la Sardegna di ieri e di oggi ed il vasto mondo


     Mi è occorso recentemente di trovare e leggere un bel libro: meno di ottanta pagine ma tutte suggestive e per molte ragioni. Intanto per il titolo che fa capire il gustoso contenuto: “Democratici e pensiero laico da Giorgio Asproni a Guido Laj”, a cura di Paolo Virginio Gastaldi, docente dell’università di Pavia (la stessa, per lunghissimi anni, del professor Arturo Colombo, ben conosciuto dai repubblicani/mazziniani e in generale dagli appassionati alla storia risorgimentale di parte democratica anche sarda).
     Pagine suggestive per i temi che il titolo annuncia e anticipa perfino nel dettaglio, e che sono stati oggetto di diverse conferenze e tavole rotonde organizzate dalla benemerita associazione culturale Giorgio Asproni, cagliaritana, presieduta dall’infaticabile Idimo (Mimmo) Corte, medico umanista presentissimo da quasi un decennio come promotore di manifestazioni di dibattito storico-civile nel capoluogo (e a sa Illetta) ma non solo, in sinergia molto spesso ora con l’editrice (di assoluto riguardo) AMD – Anna Maria Delogu –, con storici di nome come il compianto Tito Orrù o l’amico Stefano Pira (e molti altri, soprattutto giovani, con loro) – per restare alla Sardegna – o come Anna Maria Isastia e Santi Fedele – per proiettarci sul più vasto scenario nazionale –, con intellettuali come Aldo Borghesi impegnati anche nelle battaglie attualissime di quell’antifascismo democratico che integra una propria permanente natura pedagogica, e anche con il circuito delle logge giustinianee, cui rimandano soprattutto i nomi dei soci e dirigenti Gavino Angius e Priamo Moi, esponenti di quel mondo associativo sensibile agli stretti nessi fra storia di ieri – il depositum fidei lasciato alle nuove generazioni per rielaborarlo criticamente e impreziosirlo delle nuove esperienze – e storia di oggi, che chiama nelle scelte concrete civili e politiche all’obbligo morale della coerenza.
     Con un testo introduttivo dell’attuale Gran Maestro del GOI Gustavo Raffi, il libro si apre proprio riflettendo sui ponti ideali e civili gettati fin dal risorgimento e consolidati nei decenni cosiddetti umbertini e poi anche nell’età giolittiana, fra democratici e massoni. Se ne potrebbe dire. Intanto per caratterizzare, un’altra volta ancora, la natura della corrente democratica rispetto alle altre coeve sul grande teatro del pensiero politico, e poi per applicarsi a qualche considerazione sulla essenza di quell’aggettivo che in Italia ha avuto sempre connotazioni diverse che non nel resto dell’Europa e del mondo occidentale: “laico”. Per capire anche quanto di quel che convenzionalmente si attribuisce al laicismo (e/o alla laicità, categoria distinta su cui si fa molta letteratura soprattutto da parte cattolica) si giustapponga alla democrazia e quanto la travalichi ponendosi come stella polare ideologica anche di altre culture civili, quella moderata liberale (e un tempo anche monarchica) soprattutto.
     Mi pare di dover iniziare questa pur breve ”passeggiata” nel bel mondo delle idee recuperando quanto anche altre volte, in discorsi o in testi scritti, ho teso a evidenziare, e che trova supporto o riferimento colto in molti lavori di storia del pensiero politico, inclusa la fondamentale “Italia democratica” (con sottotitolo “Dai giacobini al Partito d’Azione”) di Giuseppe Galasso: opera non recente – risale infatti al 1986, uscita nella collana dei Quaderni di storia diretta da Giovanni Spadolini per Le Monnier – ma preziosa fonte di orientamento.
     E dunque la distinzione fra democrazia e i “concorrenti” liberalismo e socialismo: concorrenti e/o avversari (della democrazia) entrambi però associati per quel nucleo dottrinario che li riporta all’economico, mentre la democrazia guarda al civile e all’istituzionale. In altre parole: liberalismo e socialismo costituiscono filoni ideali che collocano il centro della libertà, o il luogo di affermazione del maggior progresso (secondo i propri postulati), uno nel mercato aperto ed in esso nei liberi statuti d’impresa, nonché in quelle tavole di riferimento che usano denominarsi “libertà formali”, l’altro nella unità di classe e nella proprietà pubblica dei mezzi di produzione per il conseguimento delle “libertà materiali” che integrano quella libertà dal bisogno che tutto giustifica. Diverso invece è per la democrazia, secondo cui – ecco la dottrina mazziniana classica – la riforma sociale può derivare soltanto dalla riforma politica, e quindi da un assetto istituzionale che delinei i passaggi evolutivi da una società di sudditi e di classi contrapposte ad un’altra società costituita da cittadini titolari della sovranità “repubblicana” (il popolo fatto sede di una missione da Dio stesso) che inquadri l’economico in relazione alle ragioni e ai bisogni in logica inclusiva, con modalità associativa e non di contrasto: in un sistema mosso sempre da una istanza etica, in cui il bisogno pedagogico sociale è soddisfatto dal protagonismo politico riconosciuto a ciascuno degli operai-cittadini.
     Mi permetto una rapida digressione… sentimentale ritornando alla memoria di quando, ragazzo, andavo ad ascoltare i comizi: dalla sinistra social-comunista ci si appellava ai “Compagni e lavoratori!”, dai moderati di centro democristiani e liberali ai “Cari amici!”, dai reazionari di destra al nazionalistico “Italiani!”, dai repubblicani – infima minoranza – ai “Cittadini!”. C’era in quella parola come una reminiscenza della rivoluzione francese, per le virtù non per i vizi, evidentemente, di quella stagione lontana anzi lontanissima, che pur meritava in età repubblicana di essere rilanciata …
     A dirla ancora con altre parole: puntando all’istituzionale e al civile, la democrazia guarda storicamente al suffragio elettorale universale, alla forma repubblicana, alle autonomie locali – municipali e regionali –, al governo dell’economia in capo a un esecutivo (organo politico) che tenga per sé le leve programmatorie nel rispetto del sistema di mercato.
     C’è poi la questione dell’aggettivo “laico” che sul piano della dottrina rimanda a un agnosticismo religioso, a una dimensione immanente della storia, alla categoria del cosiddetto libero pensiero – razionalista e positivista –, a un umanesimo del tutto svincolato a riferimenti spirituali, sostituiti al più da una ricerca esoterica che, nel nostro Paese, ha trovato terreno fertile nel mondo delle logge ottocentesche e del primo Novecento. Talvolta addirittura (o paradossalmente) recuperando – in un complicato trionfo degli ossimori, come religione irreligiosa, o meglio irreligione religiosa! – una specie di proiezione dei valori dogmatici interni alle liturgie cattoliche ma riconvertiti in proposizioni e ammonimenti civili, per la nuova Italia. Anche in Sardegna: quando si battezzavano i bambini sul sasso garibaldino di Caprera, o si procedeva ai riconoscimenti coniugali con una esplicita pronuncia favorevole al divorzio, inteso come doverosa riparazione dell’ordinamento a dolorose situazioni familiari, o ancora si accompagnavano al sepolcro i Fratelli passati all’Oriente Eterno, bruciando molto incenso, onorando con i fiori il tumulo ed invocando pietà dal Cielo (il Grande Architetto dell’Universo) e giusta ricompensa alle virtù dell’estinto.
     Ricorderò sul punto – soltanto come rapida (e seconda) digressione – che nel novembre 1872, pochi mesi dopo la morte di Mazzini , un autentico “caso” scoppiò a Cagliari per il passaggio all’Oriente Eterno di un grande democratico e mazziniano e massone autorevole: quell’Enrico Serpieri che fu segretario alla Costituente della Repubblica Romana del 1849, e in Sardegna riparò nel 1850 per salvarsi dalla galera promessagli dal papa-re rientrato nel possedimento dei suoi stati. Nel corso di due lunghi decenni, nell’Isola egli aveva fatto molto: industrie di lavorazioni minerarie, la Camera di commercio, il Banco di Cagliari, il Corriere di Sardegna, il Ricovero di Mendicità e un’infinità di altri interventi ora sul fronte economico per moltiplicare le risorse, ora sul piano sociale per impiegarle alleggerendo i pesi dei ceti deboli non sovvenuti da alcun welfare… E dunque, poiché alcune logge accompagnarono ne il feretro, dalla via Barcellona e lungo la via Roma e il viale Bonaria fino al monumentale, con i propri labari e taluno celebrò tanta impegnativa memoria come di dovere all’arrivo, creando incontenibile imbarazzo in quei parroci della collegiata di Sant’Eulalia pure essi presenti, s’indusse il nuovo arcivescovo Giovanni Antonio Balma a imporre con severità al clero di accertarsi prima di intervenire a tali cortei che gli infedeli non facessero la propria parte insinuandosi in essi!
     Dunque la dimensione dell’immanente, dello spirito razionale, o anche della trascendenza ripensata però fuori dagli schemi canonici delle religioni storiche (da cui peraltro si derivano spunti testuali ed estetici nella ritualità) è parsa per molti decenni – un secolo e più – marcare una alterità all’apparenza inconciliabile fra il pensare laico e il pensare religioso o cristiano. Con singolari relazioni anche con la politica che, tanto più a metà e fine Ottocento, significava, né più né meno, che diretta e personale applicazione a un disegno costituzionale-istituzionale e patriottico: prima per l’unità territoriale, quindi per l’unità degli ordinamenti. In odio, o in opposizione, alle remore di quel grande potere dalle risonanze planetarie, ma pur intransigente nella difesa del proprio principato, che era la Chiesa di Pio IX, e di chi lo aveva preceduto – fior fiore di reazionari – e di chi gli era succeduto, tutto preso dall’ansia sociale giocata in chiave antistatuale (il Leone XIII della “Rerum Novarum” e anche il Pio X antimodernista).
     Nel contesto delle opzioni positive – l’unità con l’indipendenza e gli statuti di libertà dell’Italia – e di quelle negative – l’opposizione ad una Chiesa refrattaria a rinunciare al suo principato per favorire quel disegno “di Provvidenza” (come sarebbe stato qualificato dai papi moderni) –, la militanza civile e patriottica liberale (e/o democratica) si identificava nel “pensiero laico”, nella rivendicazione di una piena autonomia della politica dalla religione, e della responsabilità dell’impegno nelle istituzioni dello Stato da qualsivoglia condizionamento ideologico o extra-civile.
     Seppure non come corporazione, ma certamente come uomini segnati però dall’input della corporazione, la Massoneria operò nel risorgimento per i fini unitari e liberali, sui postulati laici e cioè di autonomia da interferenze di sedi estranee a quel cast il solo legittimato a passare nei titoli: quello dei politici. Non mancarono, a supporto ed arricchimento nella gran scena, anche i cattolici che non si fecero imprigionare negli schemi delle scissioni fra la coscienza del credente e quella del cittadino. Basterebbe fare il nome di Alessandro Manzoni (divenuto sentore del regno), e da noi in Sardegna quello magari di Giovanni Siotto Pintor del post-neoguelfismo, quello dei cattolici liberali che avrebbero anche doppiato il secolo, arrivando al modernismo e pagandone qualche prezzo: si pensi al Fogazzaro del “Santo”. Ma certamente era dal fronte liberal-moderato e da quello democratico non influenzato da ragioni religiose che vennero – non con gli stessi strumenti – le maggiori spendite di energie per il disegno italiano.
     Certamente la Massoneria costituì come un collante fra i due fronti, e affrontò al suo interno, già dagli anni ’60 dell’Ottocento, il dibattito e il confronto e anche lo scontro delle sue componenti politico/ideologiche (e geografiche) non per l’obiettivo, almeno in un primo momento, ma soprattutto per gli strumenti. Per chiarire preliminarmente se essa dovesse essere, com’era l’ottica cavouriana e dei moderati piemontesi, una sorta di agenzia governativa parallela alla Società Nazionale, magari regista della stessa azione garibaldina da tenere comunque a bada secondo gli interessi superiori della corte e del governo di Torino; oppure se dal sistema delle logge dovesse venire, per il prevalente carisma ideale mazziniano – recepito con diversità di accenti ma comunque assunto come propellente di un disegno ben più ricco di quello pur ricco della unità ed indipendenza e degli statuti di libertà – un contributo più consono alla vitalità morale del patrimonio iniziatico ed espresso in quello slancio dichiarato “per il bene e il progresso dell’Umanità”.
     Così dal 1864, in coincidenza press’a poco con il passaggio della capitale del regno da Torino a Firenze e del parlamento da Palazzo Carignano a Palazzo Vecchio, la barra politica dell’Obbedienza va in mano dei democratici – variamente mazziniani e variamente garibaldini, ma unitariamente repubblicani (l’accentuazione divaricante della transigenza radicale sarà degli anni successivi). Passa cioè, la leadership, a quel certo repubblicanesimo che precede il partito repubblicano come noi lo abbiamo conosciuto – il quale è creazione di un ancora lontano 1895 –, ed è costituito da legami di varia natura come sono, nel molto altro, le società operaie e i patti di fratellanza, la lega della democrazia, le testate giornalistiche ed anche i comitati elettorali locali, ecc.
     Si potrebbe anche aggiungere – ed è un caso nel caso – che dal 1867 la loggia fiorentina (della Firenze capitale già da due anni!) denominata Universo assume tutte le caratteristiche di una loggia politica, costituita quasi integralmente da parlamentari democratici e ministri o prossimi ministri, alti dirigenti ministeriali ed ufficiali dell’esercito. La loggia alla quale, nel luglio di quello stesso anno d’esordio, aderisce anche Giorgio Asproni, destinato a divenire uno degli esponenti di maggior rango della Obbedienza. Una loggia democratica – destinata a trasportarsi a Roma nel 1873, dopo cioè il trasferimento della capitale –, nella vasta gamma dalla lealtà “critica” liberale alla monarchia alla intransigenza repubblicana, ma passando per prevalenti appartenenze (mai strutturate organizzativamente) liberal-radicali e radical-repubblicane.
     Certo è, comunque, che dal 1864 il pensiero cosiddetto laico filtrato in Italia dalle esperienze di loggia si identifica con il campo vasto della democrazia, che dalla metà degli anni ’70 diventa anche il soggetto protagonista della scena politico-istituzionale, uscendo cioè dai ruoli della opposizione parlamentare per montare sui banchi della maggioranza e del governo (di sua maestà). Sarà la successione dei governi dei massoni Depretis, Cairoli e Crispi – personalità fra loro diversissime, nonostante la comune appartenenza alle logge e anche alla democrazia – ad offrire sul piano legislativo, almeno per due decenni (fino ai governi di Rudinì in alternanza a quelli Giolitti prima tranche), dimostrazione dei postulati ideali-ideologici della corrente: allargando il suffragio (e così promuovendo alla cittadinanza un numero crescente di italiani!) e intervenendo con le leggi del massone Coppino sul diritto-dovere della istruzione elementare nella scuola pubblica. Pubblica e laica. La libera istruzione fa il cittadino.
     E intanto sul fronte massonico – luogo di elaborazione di quel pensiero laico, secondo una certa vulgata – ecco susseguirsi, come reggitori del Supremo Maglietto, i democratici repubblicani: Lodovico Frapolli dopo Francesco De Luca, Giuseppe Petroni (già galeotto nelle segrete del papa-re) dopo Giuseppe Mazzoni (l’ex triumviro toscano), Ernesto Nathan dopo Adriano Lemmi – il banchiere del risorgimento – e ancora, a cavallo dei primi due decenni del Novecento Ettore Ferrari, il grande artista che sarà anche l’autore di quel Mazzini che sarà scoperto nel 1949, cioè nel centenario della Repubblica Romana (e vent’anni dopo la morte dello scultore e Gran Maestro). Quando da pochi mesi Ugo Lenzi – socialista umanitario e mazziniano anche lui – è subentrato a Guido Laj, il Gran Maestro di sangue cagliaritano che era stato genero di Giovanni Pantaleo, il famoso frate francescano che accompagnò Garibaldi nelle sue campagne e fu spogliato dell’abito religioso.
Fenomeno interessante, sotto il profilo della storia nazionale insieme del fronte democratico – o laico democratico – e del fronte massonico – o laico massonico –, è quello zanardelliano, che dopo le deviazioni (perfino autoritarie) crispine si pone come sintesi dell’area liberale progressista e di quella storica democratica radicale e repubblicana. Con il suo governo (fra il 1901 e i 1903, segnata dalla presenza come guardasigilli di Francesco Cocco Ortu), ma già prima come ministro di grazia e giustizia (autore del nuovo codice penale del 1890 che sancisce l’abolizione della pena di morte) e come autorevolissimo presidente della Camera, egli afferma insieme l’umanitarismo sociale della Libera Muratoria e il portato riformatore della liberaldemocrazia, variante qui della democrazia, o luogo di convergenza possibile fra le aree del liberal-progressismo e della democrazia nel nome dello Stato di diritto aperto alla socialità: meglio, incisivo sulle materie dei diritti civili e dei diritti sociali ma leale con il sistema costituzionale monarchico. Ancorché vada sottolineato che intanto il radicalismo escissosi dal repubblicanesimo storico abbia esso stesso, in forme tacite ma poi anche esplicite, con la partecipazione ministeriale, fatto adesione al quadro costituzionale-istituzionale. Mentre il repubblicanesimo ha ormai definitivamente assorbito o superato il dogma astensionista di un parte della sua militanza ideale ed abbia accettato il ruolo di opposizione di un sistema sufficientemente stabilizzato. Potrebbe anche sostenersi che, pur all’interno di una cornice ecumenica ed aideologica impostale dagli Antichi Doveri e dai Landmarks, la Massoneria italiana – con accentuazioni maggiori o minori a seconda della visione del Gran Maestro (pur tutti mazziniani, come detto, non tutti egualmente propensi a marcare di mazzinianesimo, se non con gli alti principi, la Comunione) ed a seconda di circostanze interne ed esterne – nel lungo passaggio fra Ottocento e Novecento tende a collocarsi sul fronte dei soggetti civili della democrazia, non forzando all’interno, incoraggiando l’evoluzione liberale nelle tavole del radicalismo e della democrazia: valga lo stesso caso cagliaritano, con la sezione radicale istituita nel 1904 (quella dei Sanna-Randaccio , dei Binaghi o degli Scano) e l’Associazione democratica del 1910-1911 (quella dei Pernis e dei Satta-Semidei), in cui gli antichi liberali frequentatori della loggia Sigismondo Arquer finiscono per guardare con crescente interesse alla linea ormai democratica o del liberalismo “organizzatore” del Bacaredda. Il rispetto per la religione è pari alla distanza personale dai suoi dogmi e dalle sue liturgie; l’opzione politica prevalente poggia sul lealismo monarchico (vissuto patriotticamente, come simbolo di unità nazionale, e in costante connubio con la ribadita laicità dell’ordinamento giuridico, scolastico ecc.) e su un certo progressismo sociale in uno alla difesa dei postulati civili della democrazia (ulteriori espansioni della base elettorale che sarà ancora materia giolittiana: 1913, patto Gentiloni).
     Ritorno al libro “Democratici e pensiero laico da Giorgio Asproni a Guido Laj”. E recupero dal testo introduttivo di Gustavo Raffi, repubblicano in quanto a storia politica personale e dal 1999 Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, una frase pronunciata a Cagliari il 1° marzo 2008, a chiusura della tavola rotonda su “Massoni e democratici tra ’800 e ’900”: “E’ la Massoneria dei democratici che fa la storia delle nostre città e allora è importante anche la storia di personaggi apparentemente minori, come la storia delle localizzazioni, dei municipi…”. Il riferimento immediato – anche se certo qui non si tratta davvero dei minori – è ad Ernesto Nathan, Magister Maximus dal 1896 al 1904 e poi nuovamente negli anni della grande guerra, sindaco di Roma dal 1907 al 1913, l’autore del grande piano regolatore della capitale in crescita abnorme dopo la sua “italianizzazione” per merito dei bersaglieri del generale Cadorna.
     Fu con Nathan nella squadra degli assessori – se posso aggiungere un particolare flash – anche quel Gustavo Canti, prossimo Gran Segretario e prossimo Gran Maestro aggiunto del GOI, che a Cagliari fu negli ultimissimi anni dell’Ottocento, nonché Venerabile della Sigismondo Arquer, anche preside dell’Istituto Pietro Martini e tra i promotori della sezione della Dante Alighieri (che doveva accompagnare le correnti migratorie assicurando ai figli degli emigrati la conoscenza della cultura e della lingua italiana!).
     E c’è un altro nome che pronuncia Raffi nel suo discorso: quello di Alessandro Tedeschi, che fu pure lui un suo predecessore, Gran Maestro negli anni dell’esilio antifascista di Parigi. Il suo nome mi costringe a una terza digressione.
     Tedeschi era anch’egli un democratico che per alcuni anni – alla fine dell’ultimo decennio dell’Ottocento (lo stesso del Canti cagliaritano) – aveva vissuto nel nostro capoluogo, per un incarico universitario in facoltà di Medicina. Pur non politico in prima persona, ma forse proprio per questo, la sua gran maestranza di trent’anni dopo, naturaliter democratica, spesa nella contingenza e fra i rischi dell’antifascismo militante, induce a riflessioni di qualche amarezza su certo scadimento della tensione ideale che è dato di registrare oggi in molte logge italiane e sarde, in verità non meno che in molte sedi della tradizionale democrazia, ora nei ruoli di partito ora in quelli addirittura della rappresentanza ed istituzionali: rassegnati noi al peggio che ci è toccato vivere – lo voglio dire apertis verbis – con forzisti, leghisti, parafascisti al governo della Repubblica, e amici e compagni nostri talvolta complici di tanta scempia cosiddetta classe dirigente!
     Dall’intervento di Raffi recupero alcuni passaggi. Il primo riguarda una iniziativa culturale all’insegna di “La città di Dio e la città degli uomini” promossa a Villa il Vascello il 20 settembre 1999. Dice Raffi: “Laicità: per noi significa qualcosa di diverso da quello che ci attribuiscono. Laicità significa tolleranza, dialogo, fermo convincimento nelle proprie idee senza esserne succubi; significa emanciparsi dal culto di sé. In questo contesto, la distinzione da fare è tra laici credenti e non da un lato, e intolleranti credenti e non dall’altro. La laicità è il rispetto dell’altro; è l’affermazione che lo Stato necessità di un legislazione “leggera” nel senso che non devono esistere le dittature della maggioranza come diceva Mazzini: tu non puoi imporre ad altri, in nome dei numeri, quello che un altro non intende subire, e sopratutto quello che deve credere nella sfera della propria coscienza. E’ la regola della convivenza della coesistenza. Ed è la nostra costante”.
     Ma noi sappiamo come è andato il referendum sulla legge circa la procreazione assistita, sappiamo con quante scimitarre i governi che hanno afflitto l’Italia negli ultimi anni (quelli della destra più sgangherata moralmente e politicamente) hanno trattato le materie della bioetica, e come in generale trattano le materie chiamale anche della morale individuale e familiare, come sono quelle delle unioni civili. I democratici e i massoni che in questi ultimi anni hanno fiancheggiato penosamente quegli esecutivi e ingrossato quelle meste e rumorose maggioranze (relative) certamente – oso dire – non hanno onorato la loro storia né la loro persona.
     La tolleranza delle idee alla quale fa riferimento Gustavo Raffi non ha nulla a che vedere con la complicità opportunista di molti che hanno deciso di rinnegare (senza manco rendersene conto forse!) la dignità di una tradizione di pensiero, un abito mentale addirittura: quello di chi aveva combattuto fieramente, affrontando ogni pericolo, contro ogni dittatura: fosse quella papalina del risorgimento o quella crispina del postrisorgimento, quella fascista del primo Novecento o quella (tante volte, osando… con Lelio Basso) definibile democristiana. In ultimo quella della scempia compagnia che per tre anni, e anche prima, ha disonorato la patria, fino al (necessario) golpe Napolitano.
     Vorrei al riguardo segnalare un libro uscito di recente: “l’intransigente”, così, dimesso,tutto al minuscolo, ma firmato da un signor autore come Maurizio Viroli, che fu per vari anni presidente dell’Associazione Mazziniana Italiana ed è professore di Teoria politica a Princeton. Basti a dare l’idea il distico anticipatore della copertina: “Con un nemico potente che vuole distruggerti e distruggere la libertà è da dissennati cercare accordi. Nessuna concessione basterà a placarlo o a fermarlo. Purtroppo, un popolo abituato a transigere con la coscienza e con Dio non è capace di essere intransigente con gli uomini”. E ancora. “L’intransigente non sopporta i fanatici e gli intolleranti. L’intransigente ama dialogare perché sa che il dialogo rafforza le convinzioni. L’intransigente vuole comprendere i più deboli, gli incerti, i timorosi e vuole camminare con loro, non innanzi a loro, per realizzare fini d’emancipazione e di giustizia. L’intransigente è mite, sempre disponibile al confronto e a capire le ragioni degli altri, consapevole della varietà e della complessità dell’esperienza umana”.
     Se dovessi materializzare quell’identikit avrei subito un nome da proporre. Di un democratico e di un mazziniano non classificabile negli schemi di partito, ma che pur ebbe una esperienza politica importante, negli anni della ricostruzione (che per lui furono quelli che seguirono alla lunga detenzione nelle carceri fasciste e alla tragedia della guerra): Ferruccio Parri, azionista e repubblicano.
     L’intransigente è mite ma sa quale è la virtù, perché essa coincide con la causa di vita dei più – i più che non godono di protezioni –, e per essa egli si è sacrificato, senza calcolo meschino. L’intransigente è razionale, spera ma non s’illude, e sa che può non esserci materia di intesa con chi non è disposto a rinunciare all’egoismo soprafattore.
     Aggiunge Raffi: “Quando si ha una classe politica che vuole imporre una sorta di pensiero unico; che vede in chi dissente non l’avversario ma il nemico, che non dialoga, che prende posizioni muro contro muro, quando regnano insieme l’incoerenza e il settarismo, per cui se quello che sostengo io oggi è giusto e sacrosanto, detto da te domani non vale più niente, vuol e dire che la democrazia è in pericolo. Vediamo pure segni dei tempi a dir poco inquietanti […]. E la degenerazione sembra ormai inarrestabile. A tutto questo noi [massoni] diciamo no”.
     Ma qui potrei chiosare, permettendomi un’altra digressione. Aggiungendo che a quel malcostume si è associato (e per quanto potere sia rimasto in quelle mani ancora s’associa) lo sprezzo sostanziale delle istituzioni. Non si dimentichi che ancora una settimana prima di quella data critica che ci è stata poi raccontata come quella della catastrofe incombente per l’impatto malvagio con quei mercati a cui pur chiediamo di acquistare i nostri titoli pubblici (rischio default), il governo era precettato uno o due giorni mattina e sera in Parlamento perché si doveva votare la legge sul processo lungo o il processo breve… Priorità delle priorità. Ritornano alla mente le profezie di Ugo La Malfa, i suoi riferimenti al Titanic, le sue invettive contro una classe non dirigente …
     Non si dimentichi che ancora poche settimane prima di quella data-dinamite il ministro del Tesoro e i suoi colleghi puntavano a caricare gli oneri dei tagli alla spesa pubblica negli esercizi post-elezioni, così da lucrare essi benevolenza nell’immediato e inguaiare gli avversari, immaginati vincitori, nell’esercizio 2014. Furbizie certe. Furbizie deliberate e alimentate e accettate da molti dell’Italia politica, ora uomini del palazzo ora semplici elettori, che pur si dicono repubblicani (magari di confusa memoria mazziniana o lamalfiana o spadoliniana!) o massoni frequentanti le logge che lavorano “al bene e al progresso dell’Umanità” scavando “prigioni al vizio”.
      “Cosa chiediamo noi a noi stessi?” si domanda retoricamente Raffi. E si risponde: “Chiediamo la testimonianza di valori; chiediamo che i massoni siano uomini liberi; chiediamo che siano uomini che credono nella libertà e nella fratellanza; chiediamo che credano nell’umanità e pratichino la tolleranza”.
     Ma l’intransigente-vocato potrebbe rispondergli a sua volta con una contro-domanda: ma se a Cagliari un tale che in un quarto d’ora e per un piatto di lenticchie è passato dall’Edera gloriosa della Giovine Europa, dalle idealità mazziniane, dal robusto senso dello Stato di un Ugo La Malfa o un Giovanni Spadolini, alla canzone “Per fortuna Silvio c’è” e al carrozzone di Previti e della Brambilla, della Santanché e del resto del circo, e se questi – che pur dovrebbe onorare, per la carica di Caput Magister conferitagli dalla loggia, la tradizione di Nathan e Ferrari, e magari di Garibaldi –, si dichiara orientato piuttosto da un Floris! senza il briciolo di decenza, dove è finito quel che il Gran Maestro chiede: “la testimonianza di valori”. Quali valori? E dov’è la democrazia, quel pensiero maturo della tradizione democratica che in Massoneria è venuto dai repubblicani del risorgimento e da quelli che hanno sofferto l’esilio e l’umiliazione, come Eugenio Chiesa, come Giuseppe Leti, come Randolfo Pacciardi, o come Chiostergi, Braccialarghe, Facchinetti, o ancora come Bergamo, Conti, Angeloni che morì nella guerra di Spagna? Uomini della democrazia, che onorarono l’umanesimo e l’umanitarismo delle logge al pari dei postulati ideali della democrazia repubblicana.
     La testimonianza è un obbligo di coscienza per chi ci crede. Ed è tale – obbligo morale cioè – in tempi di pace come di guerra.
     Io credo di potermi permettere queste osservazioni perché esse appartengono al mio presente, e non è mai mio proposito quello di lasciare nell’algida dimensione della storia trascorsa che “non relaziona” con l’attualità la riflessione su quella storia, su quei fatti e quei protagonisti; mestiere dello storico forse, non il mio che non sono uno storico, ma soltanto un lettore delle carte remote e prossime ed operaio dei cantieri dell’oggi in cui fatica per sdebitarsi di quanto ha ricevuto come esempio di nobiltà intellettuale, civica e morale.
     Riprendo, ora in velocità qualche pagina del prezioso volume curato da Gastaldi per conto dell’associazione Giorgio Asproni e come quaderno numero 1 di una collana chiamata “Libero Pensiero”.
      Ad Asproni indirizzano le loro speciali attenzioni Gastaldi, Moi, Angius; a Guido Laj, oltre la Isastia, Santi Fedele e Tito Orrù. Non metto nel conto, con tutto il rispetto anche per l’impegno da lui profuso per l’istituzione della Fondazione, Attilio Dedoni, democristiano del gruppo cosiddetto riformatore (nome usurpato: i riformatori sono, nella storia delle dottrine politiche, i democratici – appunto i democratici, non i democristiani! –, i cosiddetti laici di sinistra, radicali e repubblicani, niente a che vedere con le arti e le tradizioni democristiane, oltretutto piegate negli ultimi tempi dalle contingenze a sostenere il peggio della politica regionale com’è stato in sede nazionale in questi anni. Fatico ad immaginarmi un Asproni che votasse la legge regionale sul golf! priorità delle priorità nella Sardegna d’oggi (secondo qualche cantore riformatore …).
      Nel mezzo il saggio sulla scuola e la laicità in Italia, di Aldo Borghesi. Esito di conoscenza dei dati di fatto, e di una riflessione critica ad ampio spettro.
     Colgo dal suo intervento due o tre passaggi per me più interessanti ed intriganti e maggiormente connessi, per il positivo e per il negativo, con il titolo dell’intera raccolta (appunto “Democratici e pensiero laico”).
     Bollata – qui forse con qualche ingenerosità (ma è il prezzo che si paga alle sintesi forzose) – la funzione della Chiesa come “ritardante” la diffusione culturale fra i vari ceti popolari (che è verità di storia ma parziale, perché poi è anche vero che dalla Chiesa sono anche venuti autentici apostoli della istruzione popolare e anche cento anni prima di don Milani!), Borghesi guarda con apprezzamento a chi ha sentito l’istruzione come “strumento fondamentale di libertà”. In tale contesto ha giustamente inquadrato “tutti gli schieramenti della sinistra risorgimentale, i repubblicani e i democratici in tutti i loro orientamenti, dai mazziniani ai garibaldini, ai cavallottiani, ai radicali; con essi, le diverse correnti della sinistra socialista, che marcano l’accento sulla lotta contro il sentimento religioso; ma anche componenti rilevanti del mondo liberale, dagli orientamenti più avanzati a quelli più moderati”. Nel novero egli inserisce altresì le associazioni del Libero Pensiero - una galassia ideologica di cui anch’io mi sono occupato, ancorché solo con riferimento alla Sardegna e ai nessi con il sistema dei partiti da una parte e con l’associazionismo massonico dall’altra – e non manca neppure di far cenno anche e proprio a quanto la materia coinvolse, ai primi del Novecento, i giustinianei che subirono una dolorosa scissione – quella del 1908 – la cui occasione fu fornita giusto dalla discussione parlamentare sulla famosa mozione Bissolati relativa alla istruzione religiosa nella scuola pubblica.
     D’indubbio interesse sono poi le riflessioni riguardanti le ricadute sulla scuola provocate dalla introduzione dei Patti Lateranensi nella Costituzione, in logica di repubblica conciliare. Scrive Borghesi: “Attraverso il sostegno all’articolo 7 si manifesta con estrema chiarezza il peso di un elemento fondante della posizione tenuta dal PCI e della linea di pensiero ed azione politica che esso rappresenta per tutto il corso della storia dell’Italia repubblicana. Per una sinistra italiana gravemente condizionata dall’egemonia elettorale, numerica, culturale del PCI, la laicità è un valore molto secondario, poco più che un vecchio pregiudizio borghese. Come conseguenza, gli schieramenti laici sono votati nell’Italia repubblicana a una condanna di subalternità che non riusciranno mai a scrollarsi di dosso: il loro peso elettorale complessivo non oltrepassa, nei momenti più felici, il 20-25 per cento; ciò fa sì che nel Parlamento e nel paese le battaglie laiche saranno, fino agli anni Sessanta, patrimonio di piccole minoranze culturali che solo in parte si riconoscono in questi partiti”. E qui è opportuna la citazione di testate come “Il Mondo” e “Il Ponte” e di formazioni politiche sovente anche “extraparlamentari” come quella radicale.
     A questo punto Borghesi si porta alla legislazione divorzista con conseguenti campagne referendarie, e poi sulla riforma del Concordato, che prenderà lunghi anni risolvendosi nel 1984 con la revisione del testo (in buona parte deludente anche circa le ricadute in campo scolastico) a firma del presidente Craxi e del cardinale Casaroli. Forse una parola egli – che ben conosce la materia per vita vissuta e non soltanto vita studiata – avrebbe potuto aggiungere riguardo all’impegno repubblicano, sì proprio del PRI, circa la riforma della scuola media dei primi anni ’60. E sul punto richiamerei la sensibilità mostrata proprio dalla dirigenza del tempo – quando Ugo La Malfa passava dal ministero del Bilancio alla guida del partito, avvicendandosi con Oronzo Reale –, attraverso anche l’operatività di un gruppo di lavoro di specialisti di alta dottrina e professionalità, e anche con l’intensa partecipazione nelle discussioni parlamentari, di Giovanni Battista Melis, deputato sardista iscritto al gruppo repubblicano. Una bella storia.
     Le conclusioni vanno all’oggi, alla marginalità sofferta dai laici in entrambi gli schieramenti in competizione elettorale, ed alla persistenza degli effetti negativi dei tabù (e degli opportunismi) del PCI sulla sinistra ridenominata oggi con varietà di sostantivi e di aggettivi e cui soltanto possono guardare, con qualche timida speranza di modernizzazione del paese, i repubblicani.
     Vero è che la società va trasformandosi – secolarizzandosi e impoverendosi per molti aspetti ideali, e però anche aprendo varchi clamorosi a nuove tavole di valori positivi – e la politica, quella dei moderati e quella dei cosiddetti riformisti, dovrà inseguire. Perché questo è quel che avviene in un paese che difetta di una reale classe dirigente: se è vero che questa si connota nella sua capacità di antivedere i problemi, e di guidare la trasformazione, non di rincorrere fatti e fenomeni …
     La sezione asproniana del quaderno presenta una gustosa (secondo personali preferenze) indagine compiuta da Priamo Moi sul “sentire religioso e moralità” del Bittese come il Diario politico li rivela. Intrigante. E ancora una volta, scorrendo pagine come sono queste, mi ritorna quel desiderio sempre inappagato del documento da cui risulti la data e il luogo e le circostanze dell’ultima messa celebrata da don Giorgio Asproni.
     Moi insiste, e fa benissimo e lo fa benissimo, nel cercare nelle pagine del monumentale Diario tutto quanto riveli l’evoluzione della riflessione spirituale ed ecclesiale, e direi anche esistenziale, del canonico ribelle, avvocato e giornalista, e rappresentante del popolo nelle istituzioni dello Stato. Non è indelicata la insistenza di Moi, anzi mi pare educata e rispettosa; però, per quanto pur emerga in materia e sia colto dallo studioso, io credo che volutamente nel Diario non si trovino le risposte decisive alla maggiore delle domande: quanto della dogmatica studiata e assunta negli anni del seminario e dell’insegnamento e dell’esercizio sacerdotale, sia rimasto e quanto sia caduto perché ritenuto superfetazione dottrinaria indotta dai condizionamenti dei tempi talvolta perfino in contraddizione evangelica, da interpretazioni non più sostenibili alla luce anche degli studi esegetici (che, in verità, proprio nell’ultima stagione di vita di Asproni iniziano a prendere corpo: si pensi a Renan, ma si pensi poi al corso di quelli che arriveranno fino al modernismo, ad autori come Loisy ecc.).
     Asproni scrive di voler appuntare il diario giornaliero per se stesso e forse neppure per se stesso – se è vero che non rilegge e non ha tempo né voglia di rileggere –, ma non mi sentirei… pur non avendone discusso a quattr’occhi con lui, ch’egli in questo sia sincero. Io tenderei a credere al suo bisogno di rendere testimonianza di sé e del suo mondo ideale, della sua partecipazione agli eventi civili e della storia pubblica dell’Italia del suo tempo. Per cui le annotazioni sono tutte a futura memoria, sono tutte destinate ad essere lette. E nel suo raccontarsi non c’è tutto il possibile raccontarsi. No, c’è una parte della sua intimità che egli cela, da buon prete, nel segreto della sua coscienza. Non la rivela. Rivela soltanto quanto gli pare sia sufficiente a terzi per comprendere chi egli sia stato, senza necessità di frugare indiscretamente nel travaglio di quel foro che è il luogo dei nessi fra la creatura e il suo creatore come egli lo sente e con cui intende relazionarsi. Bisognerà riparlarne, ancor meglio documentandosi.
     Quanto ho qui espresso trova conferme, sia pure indirette, in quella gran quantità di domande che anche Gavino Angius pone, riguardo alla identità vera e profonda del canonico di cultura classica, del giurista concessosi alla politica dopo che, per la metà e più della sua vita, alla Chiesa.
     Dice Angius che Asproni scrive per sé, ma – e qui è il punto – per il sé da intendersi come “uomo universale”. Per comprendere meglio questo punto occorrerà andare per le vie di un biografia. Dopo quella, di necessità condizionata dai tempi in cui fu redatta, di Bruno Josto Anedda, per il volume introduttivo dei Diari – e rimontante ormai a quarant’anni fa! – Asproni esige un nuovo biografo e un nuovo racconto di sé. Gli studi compiuti su di lui, sul suo epistolario privato e politico ed ecclesiastico, sui suoi scritti giornalistici, sui suoi discorsi parlamentari, naturalmente sul suo monumentale Diario politico, aiuteranno, saranno anzi determinanti. Ma pur ci sarà, speriamo, presto, qualcuno che si offra alla gran fatica!
     Nella sezione dedicata all’altro protagonista del bel libro edito dall’associazione presieduta da Idimo Corte – a Guido Laj cioè – l’intervento della Isastia è intenzionalmente riassuntivo, e serve a collegare idealmente la personalità e l’azione magisteriale del leader di Palazzo Giustiniani alla ripresa democratica (fra il 1945 e il 1948) alla figura di Ernesto Nathan, approfondita a più riprese dalla stessa Isastia. Peraltro, le esperienze anche amministrative nella capitale avvicinano oggettivamente l’uno all’altro.
     Bene si riassocia a questa pagina della Isastia il saggio di Santi Fedele che pone nei due momenti storici clou della vigilia della grande guerra e del la ricostruzione postfascista l’ambientazione operativa di Guido Laj massone o dignitario apicale della Massoneria. In associazione profana al socialismo riformista ma anche, nei primi anni ’20, a quella vasta area dell’amendolismo dell’UDN, al quale partecipano non pochi massoni né pochi – per tornare al discorso iniziale – della democrazia variamente declinata, e nella sequenza di due, forse tre generazioni, destinati poi – i più – alle formazioni della risorta democrazia, dagli azionisti ai repubblicani: oltre Amendola e Nello Rosselli – sacrificati per la testimonianza –, da Einaudi a Bonomi, da Calamandrei a Sforza, da De Ruggero a Salvatorelli al giovanissimo Ugo La Malfa, da Achille Battaglia ad Alberto Cianca, da Mario Ferrara a Silvio Trentin, da Mario Berlinguer a Francesco Cocco Ortu (che morrà nel 1929) – per dire di alcuni dei sardi –, da Meuccio Ruini a Umberto Cipollone (prossimo Gran Maestro anche lui) passando appunto per Guido Laj… Ritorna qui il binomio democrazia e pensiero laico e sullo sfondo tornano i nessi massonici.
     Interessante la ricostruzione della genealogia dei Laj com’è stata effettuta, su materiali forniti credo dalla Isastia o attraverso lei dalla famiglia, da Tito Orrù. Sul punto ho anch’io effettuato qualche ricerca mirata – magari sugli studi dettorini, nel quartiere della Marina – che mi ero ripromesso di esitare unitamente ad altri appunti biografici relativi a quegli altri cinque o sei Gran Maestri titolari o aggiunti, o Sovrani Gran Commendatori che sardi di nascita o di elezione hanno governato le loro comunità iniziatiche, ordiniste o rituali, fra Ottocento e Novecento. Speriamo di farcela un giorno.
     Chiudo recuperando un passaggio asproniano che, ripreso nella relazione di Gastaldi, mi pare associ la moralità pubblica vissuta come missione tanto dal canonico bittese quanto dal Gran Maestro cagliaritano (e pur di nascita messinese) richiamati nel sottotitolo del libro di tanta gustosa lettura. Perché poi è verità sentita, in cuor nostro, da tutti noi che ci sentiamo collegati a quel filone di pensiero ed esperienza civile della democrazia: “Se vi sarà buona politica, la coltivazione sarà più estesa e più ben diretta, e i campi daranno frutti più abbondanti a chi l’innaffia col suo sudore. Se vi sarà buona politica, le ricchezze saranno più equamente compartite e cesserà la piaga della mendicità. Sevi sarà buona politica, non vi saranno privilegi e le persone di merito occuperanno il posto in cui possono essere più utili alla società,né più vi saranno rivoluzioni violente, perché la rivoluzione sarà incessante e regolare”.
     Sì, può essere un bel motto: come democratici siamo protagonisti di quella rivoluzione pacifica ed efficace perché “incessante e regolare”.

Gianfranco Murtas - 08/05/2012


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