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Nel palazzo viceregio – o regio, come ormai si chiama in obbedienza alle pretese (!?) del professor Francesco Cesare Casula – si è parlato, questa sera, di Mazzini! Certo, le suggestioni anche pittoriche della maggior sala affrescata dal Bruschi ormai da un secolo e vent’anni, aggiungono suggestioni o confusioni, perché con i grandi della storia sarda – Eleonora d’Arborea e Sigismondo Arquer fra gli altri - e i Savoia s’affaccia dai riquadri alti alle pareti anche il volto di Giovanni Battista Tuveri … E dunque Mazzini aveva, può dirsi, un alleato ideale e non parlava da straniero in quelle sale stuccate ed eleganti. E peraltro chissà quante volte, nelle tornate del Consiglio provinciale postunitario – che era organismo dello Stato centrale nel sistema politico-amministrativo arrivato fino al fascismo (con presidenza del prefetto) –, il suo nome sarà echeggiato. Bisognerebbe svolgere una ricerca e sarebbero interessanti gli esiti. In quelle sale dovrebbe trovarsi anche quel busto del Tuveri che faceva bella mostra di sé, secondo le cronache locali, al terzo congresso regionale repubblicano del 1905, quello svoltosi a palazzo Valdes (dopo i precedenti di Sassari e di Guspini). Un certo verbale mi pare del 1916 parlava della acquisizione della statua (a memoria, opera di G.B.Trojani) … Dunque s’ è parlato di Mazzini perché, ad iniziativa della Provincia e della facoltà di Scienze politiche, è stato presentato il libro “Giuseppe Mazzini: la democrazia europea e i diritti delle donne”, scritto da una giovane ricercatrice (“non strutturata” e meno che meno “stabilizzata”) della stessa facoltà: Federica Falchi. La quale ha concluso la serata con un intervento bello e misurato, che dava il senso preciso della competenza e – come lei stessa ha detto – della passione che l’ha presa in questa esplorazione del “pianeta” mazziniano, tanto più nella parte riguardante tre filoni distinti ma che – neppure per breve tempo – hanno interagito positivamente per la nobile causa: l’esilio inglese, la frequentazione di donne inglesi o americane e la condivisa battaglia emancipazionista e per il suffragio elettorale femminile, il giornalismo democratico, di testimonianza più che informativo . Brillantemente coordinato da Maria Corona Corrias, il dibattito ha dato voce – dopo che alla vicepresidente della Provincia Angela Quaquero, alla consigliera provinciale di Parità Tonina Dedoni, alla preside di Scienze politiche Paola Piras, alle storiche Anna Lazzarino Del Grosso e Laura Pisano – docenti nelle università rispettivamente di Genova e Cagliari – che hanno svolto efficaci interventi sì di presentazione del bel lavoro della Falchi ma inserendo questo nelle coordinate larghe del pensiero e della travagliatissima vicenda esistenziale dell’Apostolo repubblicano. Lo si è visto nella sua predicazione, nella collaborazione (e talvolta anche nella fondazione e conduzione) di giornali – ben 21 sono le testate che a lui si sono direttamente ricondotte ad iniziare dalla “Giovine Italia” –, nelle relazioni con la democrazia sarda (attraverso Asproni e Tuveri, ma non solo: penso ora a Gavino Soro Pirino, e non si poteva non parlarne) e con quella addirittura d’oltre oceano, a ripensare alla sua condanna dello schiavismo americano espressa nel 1865. Perché molto del dibattito ha giocato sul confronto fra la democrazia europea (continentale ed inglese) e quella americana teorizzata dal Tocqueville, avanzatissima ma appunto con la permanente tara dello schiavismo … Singolare, per certi versi, la simpatia repubblicana da lui, dall’Apostolo, raccolta nella più monarchica delle democrazie europee; belli molti passaggi del “privato” mazziniano in un contesto tanto difficile ma pure ricco di personalità – donne e uomini – ricettive degli ideali affermati, motivati, testimoniati, animati da una tensione morale che tanto distingueva, quando meno nelle opere scritte, Mazzini da Marx suo coevo. Ma non è tanto della discussione, di altissimo livello, svoltasi a palazzo viceregio/regio che vorrei trattare, bensì vorrei cogliere lo spunto per una riflessione dalla presenza di un centinaio, forse più, di giovani studenti e giovani ricercatori (e ricercatrici evidentemente) alla manifestazione. Mi sono domandato quanto del fascino umano e ideale del Genovese facesse presa nella intimità sentimentale e intellettuale di quei giovani e se e come e quanto ciò potesse esprimersi anche in una consapevolezza di lettura “orientata” dalle categorie politiche del Maestro, della nostra storia nazionale di questi ultimi decenni e di oggi stesso. Fra la inadeguatezza rivelatasi drammatica della classe dirigente di quella che fu l’espressione politica e partitica del movimento repubblicano italiano, tanto più dopo la morte di Ugo La Malfa nel 1979 e di Giovanni Spadolini nel 1994 (cui associo sempre la figura di Bruno Visentini, scomparso nel 1996), gli sbandamenti valoriali che hanno esitato alleanze innaturali con la destra nelle sue peggiori versioni, l’oggettiva difficoltà di portare avanti una testimonianza sul filo dell’aggiornamento continuo da premesse che permangono intatte – compito ben svolto, mi pare, soltanto dall’Associazione Mazziniana Italiana –, niente di quanto si era compiuto, faticando, da sei-sette generazioni susseguitesi dopo il fatidico 1872, da Bovio e Colajanni in qua, noi oggi lo troviamo nelle istituzioni, nella società del dibattito civile, nella stampa un tempo attentissima e rispettosissima di tante invidiabili stature. La scomparsa di altri grandi vecchi che erano, nella militanza civile e intellettuale, i grandi fari della democrazia repubblicana, come Leo Valiani e Alessandro Galante Garrone, ma anche pur su altri fronti, come Emilia Morelli (che da giovane insegnò anche a Cagliari) e Norberto Bobbio (studioso del Tuveri e della sua formula democratica) e l’uscita di scena – per ragioni ora anagrafiche ora di condizioni date – di personalità come Carlo Azeglio Ciampi, presidente nato mazziniano e azionista, e Giuseppe Galasso – per il quale auspicherei il seggio di senatore a vita – ha complicato e forse determinato tutto. Ha centrifugato la scarsa fede (e fedeltà come categoria dello spirito) di molti nelle più improbabili delle collocazioni. Ha fatto perdere alla minoranza il gusto di essere minoranza che gode della sua purezza anche quando s’immerge senza risparmio di energie nelle più rischiose e faticose delle incombenze in cui è l’interesse pubblico ad essere in gioco (così nella politica estera, così nella scuola, così nella tenuta dei conti in rapporto allo sviluppo della economia, così nella riforma dell’ordinamento regolatore o in quello della giustizia ecc.). Chi siamo, cosa siamo, a che ci interessiamo? Ci riconosciamo reciprocamente? I giovani che ascoltavano attentamente la tavola rotonda di questa sera – giovani che forse hanno conosciuto quasi soltanto di nome Ugo La Malfa, che hanno sfiorato la conoscenza della fama di Giovanni Spadolini – cosa sanno o possono sapere di un movimento democratico repubblicano organizzato che ha combattuto, dopo la battaglia del risorgimento, tutte le migliori battaglie contro il trasformismo e il crispismo, contro talune degenerazioni giolittiane e toto corde contro il fascismo ideologico e di regime, fino al governo Parri e al compimento del santo 2 giugno 1946, fino alla stagione della costituente e della costituzione, della ricostruzione con i governi De Gasperi (e Pacciardi e La Malfa) e quelli successivi del centro-sinistra nei moderni termini della programmazione flessibile? Quale autorevolezza potremmo avere noi ai loro occhi? In quale modo essi potrebbero vederci, oggi anno 2011, come degni continuatori, nelle mutatissime condizioni storiche, di quella antica semina e di quella predicazione e di quella testimonianza pubblica e privata? Se la risposta fosse negativa dovremmo concluderne che siamo morti e ancora non lo sappiamo.
Gianfranco Murtas - 09/06/2011
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