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L’esito elettorale amministrativo nazionale e quello cagliaritano in particolare mi suggeriscono alcune brevi riflessioni che coinvolgono in parte anche l’area ideale e politica della democrazia repubblicana i cui militanti persistono, in quanto a collocazione, in un amaro generale smarrimento. L’incipit di queste righe me lo suggerisce l’intervento, bello e serrato, tutto a braccio, svolto da Aldo Borghesi ad una recente giornata di studio convocata a Cagliari (lo scorso sabato 28 maggio 2011) dalla Gran Loggia d’Italia di Piazza del Gesù/Palazzo Vitelleschi all’insegna de “i volti dell’Unità d’Italia. Eventi, questioni e tematiche del processo di unificazione italiano”. Convegno che ha avuto il suo momento più alto nella lectio magistralis del professor Luigi Lotti, e ricche suggestioni o provocazioni intellettuali ha raccolto da diverse altre relazioni, fra cui, a mio avviso, degne di speciale segnalazione sono state quelle di Sergio Ciannella (sui rapporti fra carboneria e massoneria), di Maria Corrias Corona (sull’identità italiana nelle definizioni delle dottrine politiche), di Stefano Pira (sulla questione della terra all’interno del maggior dibattito unitario in Sardegna), di Francesca Pau (sulle tavole valoriali di Giorgio Asproni). In tale contesto si è posto il discorso di Borghesi con l’obiettivo di trattare il tema e sciogliere il nodo di un’accezione plurale al travaglio risorgimentale. Così da poter iniziare dicendola chiara chiara: non festeggio il 17 marzo 1861, festeggio il 2 giugno 1946. E ancorché possa – tale impostazione – trovarmi soltanto in parte consenziente (ovviamente per il rigetto in blocco del “prima”, non certo per la valorizzazione del “dopo”), è indubbio che egli abbia posto, muovendo da questa dichiarazione partigiana ed efficacemente estrema, e con riferimenti puntuali alla storia civica ed alla statuaria sassarese di fine Ottocento – fra Mazzini, Garibaldi e Vittorio Emanuele II –, le premesse per una riflessione impegnativa e, per taluno, forse anche scomoda. Nel corso di questa lunga notte della democrazia italiana, che rimonta ormai a due decenni – includendo nella pochezza politico-legislativo-amministrativa e soprattutto nel disastro valoriale prodotto e carezzato dal centro-destra, a tanto sostenuto dalla inconsistenza e contraddittorietà della opposizione, anche la stagione chiamata di tangentopoli e del crepuscolo andreottiano – più e più volte mi sono posto il problema di comprendere quali strade potesse imboccare una formazione di democrazia, assolutamente minoritaria nelle sue dimensioni, per mantenere alta la bandiera, confessando la perenne validità di un pensiero politico ereditato dai maggiori. E credo che fra libri, articoli, relazioni a convegni, comparsate in televisione o alla radio, siano stati almeno cento i luoghi e i momenti di una personale testimonianza orgogliosa anche se non più felice. Dopo la deriva del PRI ancora a segreteria di Giorgio La Malfa (quando – 1992 – con lui ebbi uno scambio epistolare, io contro una paventata candidatura senatoriale di Armando Corona, a simboli abbinati dell’edera e dei quattro mori fattisi intanto nazionalitari ed indipendentisti, e sempre clientelari, lui a favore nel nome di esperienze maturatesi in tutt’altro e remoto contesto storico e nel nome anche e direi soprattutto di … contingenti convenienze); dopo la, secondo me, disinvolta e leggera prossimità dei Repubblicani europei all’Ulivo di Prodi ed a quello sardo di Soru, di fatto disinteressati alla cultura della democrazia repubblicana come elemento partecipante ad un più complesso disegno come poté essere quello dei costituenti repubblicani, esterni all’esperienza del CLN, nell’aula di Montecitorio al tempo della elaborazione della carta fondamentale della Repubblica – parte di un tutto, ma parte qualificata e onorata; dopo la malinconica dispersione di molte valide energie nate repubblicane all’interno dei DS e poi del PD come cartello a radice democristiano-comunista (senza che mai una revisione ideologica abbia coinvolto nel profondo i protagonisti di remote storie e remote militanze); e mentre ho sempre pensato, da solo – e perciò forse sbagliando – che piuttosto che dilaniarsi in casa per le aggregazioni di coalizione sarebbe valso scegliere la strada della terzietà, cioè della astensione elettorale fra i due blocchi, caricando l’impegno politico di valenze piuttosto civili in una sorta di riproposta dei circoli del Mondo e/o radicali (alla Pannunzio) di grata memoria… – proprio quel che in Sardegna e a Cagliari avrebbe potuto essere l’associazione Cesare Pintus – mi ritrovo con altri, nell’anno 150° della unità statuale e 65° della Repubblica, a ripensare al passato e anche, e più ancora, al futuro. E mi ritrovo in primo luogo a prendere atto che gli uomini sanno essere anche miserabili, come miserabili furono molti, negli anni dell’incipiente regime, a passare nei ranghi del fascismo. Anche perché io considero, né mai l’ho nascosto, Forza Italia e il PDL che ne è derivato un fascismo al deodorante, con tutti i tratti dei carismi duceschi e dei conformismi di corte, premio per le diffuse mediocrità. Ho letto e riletto, anche per alcuni lavori destinati alla pubblicazione (sulla storia politica e della massoneria sarda), la stampa sarda del tempo – metti il quotidiano dei fasciomori, “Il Giornale di Sardegna” – e da lì meglio che da qualsiasi altra fonte ho registrato la sequenza penosa dei voltagabbana, anche dal campo della democrazia repubblicana e sardista come pure dal mondo delle logge…, per restare alla sola area di tradizione laica a radicamento risorgimentale. E tanto spesso l’immagine mentale che mi ha sconfortato era vedere – settant’anni dopo – la replica delle scene e delle sceneggiate senza decenza di uomini piccoli, ignari di ogni sentimento di coerenza e neppure di dignità personale oltreché di senso delle istituzioni. Ne sono perfino volati in Parlamento, altri – gerarchetti della pantomima – hanno scaldato sedie e incassato indennità nelle assemblee rappresentative locali o nelle segreterie politiche, apprezzati per il giusto contrario di quel che avevano detto a noi, per tanti anni, di essere! Anche nelle logge di Cagliari, tradizionalmente – intendo dalla fine dell’Ottocento e fino agli anni ’70-80 del Novecento – a forte presenza repubblicana (oltreché sardista, socialista, socialdemocratica e liberale). Una volta anno 2006 – ero relatore a un convegno su Asproni – ne intercettai uno a palazzo Sanjust e, raccolti attorno a noi due i suoi supporter, scoppiai in un risentitissimo “non vi fidate: come ha tradito il PRI in un solo quarto d’ora, impiegherà lo stesso tempo a tradire voi per un salto dov’è la paga migliore”, ottenendo dalla povera vittima, ignara perfino del senso del ridicolo, una giustificazione che avrebbe mandato in crisi i Gran Maestri massoni, dopo Garibaldi, Frapolli-Mazzoni-Petroni-Lemmi-Nathan-Ferrari, tutti mazziniani e repubblicani: “non è vero che sono passato con Berlusconi, io sono con Emilio Floris!”. Una comica tragica. Sì – nell’anno 150° dell’unità d’Italia e 65° della Repubblica – ora mi ritrovo ad aver dovuto votare (senza alcun pentimento, sia chiaro, anzi con un sentimento di simpatia umana per l’eletto) un candidato della sinistra già estrema e per una coalizione in cui gli elementi, i gusti perfino della cultura repubblicana sono del tutto inesistenti. Sinistra ecologia e libertà sono tre sostantivi tutti e tre programmaticamente belli e condivisi, non so quanto nella loro combinazione o traduzione partitica. Ma hanno attivato, i militanti di quel sogno politico-amministrativo, un meccanismo di raccolta del consenso, dopo due decenni di cattivo governo (a guardare oltre i giardini fioriti), che comunque, uscitone con il risultato, rincuora. Rincuora il cagliaritano – che spera di non rimanere deluso da una mobilitazione che sa di democrazia e partecipazione – ma tiene fuori dalla condivisione dei valori della cultura politica, che sono e rimangono molta cosa nella mia e nostra personale formazione intellettuale e civile, il repubblicano che resta legato alle memorie di Cesare Pintus, di Angelo Garau (consigliere eletto cento anni fa giusti nella lista di Bacaredda!) e degli altri entrati negli anni di prima e di dopo in municipio. E’ chiaro che quello che eravamo, come entità partitica organizzata, non lo siamo più e credo non potremo né potremmo mai più esserlo. E’ cambiato il sistema elettorale e quanto direttamente ne scaturisce, è cambiato anche il costume politico, l‘approccio intellettuale all’impegno politico e noi forse siamo diventati troppo vecchi e stanchi per recuperare trascorse dinamiche. Sono emerse, per ciclo di natura, nuove generazioni e da esse ho visto belle persone e bei nomi (anche i nomi di famiglia!) raccogliere apprezzamento e conquistare un seggio in Consiglio comunale. A rappresentarmi – dico così come testimonianza personale – avverto sia quel… dna morale e vitale che riporta onore di tradizione in una aula divenuta grigia negli anni del malgoverno di Forza Italia/PDL e degli utili idioti che hanno saccheggiato le casse pubbliche con una politica elemosiniera inenarrabile e con sconquassi urbanistici sotto gli occhi di tutti. Ho dunque personalmente gioito quando ho visto affermarsi, nella recente gara elettorale, persone di cui tutti mi han detto un gran bene, o che conosco, come di primissim’ordine: Francesca Ghirra, Matteo Lecis Cocco-Ortu, Maurizio Chessa, Filippo Petrucci. E altri con loro, mi dicono, faranno bene nella prossima assemblea civica. Tutti dalla parte del sindaco Zedda, tutti a rappresentare una cultura democratica progressista e laica. Toccherà a noi, nelle nuove forme consentite dalle circostanze e dalle nostre abilità, trovare spazi di riflessione e di proposta. Trovare spazi, anzi, di rilancio dei valori che non muoiono con le stagioni della politica perché sono i valori della democrazia, quelli che – a differenza del socialismo e del liberalismo – pongono il centro della libertà nel civile e nell’istituzionale, da essi facendo derivare o disciplinare, per esaltarle e potenziarle, le libertà sociali e quelle economiche.
Gianfranco Murtas - 02/06/2011
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