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(E a seguire: un’osservazione sui comportamenti delle logge) |
Il prossimo turno di ballottaggio per l’elezione del sindaco di Cagliari pone i sette repubblicani rimasti sulla scena (intendo quelli che ci credono sul serio, al di là delle tessere) nella condizione di scegliere – se scegliere vogliono comunque – fra due personalità molto diverse fra di loro e quasi altrettanto lontane dal loro mondo ideale, dalla loro cultura etico-civile e politica, dalla loro esperienza pubblica. Uno dei due è un democristiano nipote o pronipote di papalini che fino alla Conciliazione del 1929 il XX settembre si rinchiudevano in casa, sbarrando le finestre e mangiando di magro per solidarietà al papa prigioniero dell’Italia nella città leonina. Radicato sul ciglio destro della politica interclassista (come si diceva un tempo), sul fronte del perbenismo clerico-borghese che la domenica combina la messa delle 11 e le paste per il dopopranzo, che non ha mai osato entrare nella casa di un povero e del cristianesimo ha colto più la dimensione elemosiniera (dissipatrice delle risorse pubbliche) che quella della condivisione personale, e nelle vicende recenti cagliaritane ha onorato l’arcivescovo Mani facendo pollice verso don Cugusi, ha vissuto anni addietro – quelli del crollo del comunismo e anche del crollo democristiano – una stagione referendaria non disprezzabile. Messosi sempre alle costole di un Mario Segni campione capitalizzatore di un credito d’opinione presto sprecato per le irrisolte contraddizioni nel suo orientamento politico (rivelatesi nelle più strane alleanze elettorali seguite nel tempo), ha lavorato per due o tre anni nella trasversalità del Consiglio regionale – dov’era approdato dopo aver esaurito l’esperienza comunale – impegnandosi con molti altri, da Pier Sandro Scano a Salvatore Ghirra, in quel Movimento delle riforme che infine riuscì ad imporre una legge elettorale per taluni aspetti virtuosa e, in essa, la incompatibilità fra le funzioni di consigliere e quelle di assessore. Risucchiato nell’evanescenza d’uno spirito che vuol piacere a tutti (in questo egli mi pare intimamente berlusconiano) si è appropriato – ed i sette repubblicani lo avrebbero dovuto denunciare da tempo – di un marchio d’appartenenza che storicamente è stato il contrario esatto di quello ch’egli ha riconfezionato nel concreto presente: perché nella storia d’Italia i riformatori sono i democratici dell’area repubblicana e radicale (alla Pannunzio, non alla Pannella evidentemente) e gli azionisti di entrambe le anime liberal-socialiste o socialiste non marxiste e mazziniane lato sensu. Quando un giornalista interrogò Ugo La Malfa riferendosi a lui come ad un “riformista”, egli rispose con sdegno che “riformista sarà Craxi, io sono un riformatore”. Ma è chiaro che se “riformatore” era – per certificazione della storia – Ugo La Malfa, “riformatore” non può essere, né molto né poco, Massimo Fantola. La cultura riformatrice è cultura del progressismo, della sinistra non ideologica ma comunque interessata a cogliere le contraddizioni strutturali della società e dell’economia ed a intervenire su quelle contraddizioni. Che c’entra Fantola, o cosa c’entrano questi signori del suo raggruppamento – tutti democristiani o liberali malpentiti – con la cultura della trasformazione della società? Dall’altra parte c’è Zedda, giovane e credo non granché esperto di nulla, anche se con una faccia che induce alla simpatia. Viene dalla sinistra cosiddetta di classe – se il dizionario politico contempla ancora quel lemma – ed ha letture della società forse non tutte condivisibili. Ha certamente buone frequentazioni, ha masticato e gustato la politica da ragazzino – spero come Sergio Atzeni, con la sua propensione (non si pretende la capacità, forse unica) alla rielaborazione creativa, così da capire, infine, e rappresentare la realtà meglio di ogni dettatura di partito. Mi dicono anche però che abbia accolto in questi giorni passati l’invito ad un incontro con l’arcivescovo di Cagliari, e se la circostanza è vera egli ha fatto male, malissimo. Perché ritengo quel presule un autentico “cattivo maestro” come almeno cento situazioni, in cui entra l’interesse generale conculcato dall’interesse particolare, dimostrano in città e nella regione. Questo passo mi fa dubitare che Zedda possa rivelarsi un buon sindaco. (S’intende che non avrei motivato una tale riserva se egli avesse incontrato il cardinale Martini invece dell’arcivescovo generale di corpo d’armata non per meriti militari ma per convenienze profane e venali!). Soprattutto Zedda mi pare – faccia simpatica a parte – che sia uno di quei politici nati d’opposizione che il sistema della partitocrazia – come anche i bilanci milionari dei gruppi al Consiglio regionale rivelano – lo abbia accettato integralmente. E spiace che fra i tanti suoi supporter non abbia trovato chi gli abbia posto domande franche a cui egli avrebbe forse risposto esattamente come Fantola. Intendo riferirmi alla difesa dell’esistente della cittadella dei privilegi, assolutamente scandalosi, della politica, anche della politica di via Roma e di viale Trento. Il che costituisce anch’esso un’offesa oggettiva alla gran massa di giovani, e giovani qualificati, coetanei di Zedda e suoi amici ed elettori, privi lavoro, di reddito e di prospettive. Né si tratta qui di fare del becero qualunquismo. Anche perché credo di avere, per azioni di vita e pagine scritte, un credito inattaccabile. E tuttavia… con Zedda stanno diversi consiglieri eletti che sono fra il meglio che i cagliaritani hanno scelto a rappresentarli la scorsa domenica. Cito Francesca Ghirra, cito Matteo Lecis Cocco Ortu, cito Maurizio Chessa. La prima militante del SEL, gli altri due esponenti del PD. Non conosco gli altri eletti – ma il mio amico Vito Biolchini sempre spende le migliori parole per Filippo Petrucci, inducendomi a credergli – , conosco loro, il loro background etico-civile, e sono loro vicino umanamente e anche politicamente, al di là di una militanza che non ho. Dunque voterò Zedda. Sperando che con lui non governi la città quella certa burocrazia di partito mezzo ex comunista e mezzo ex democristiana (tanto spesso in cordata d’interesse con le “famiglie” che contano a Cagliari, tutte della destra più egoista), ma con lui siano le migliori espressioni dell’aula consiliare (in logica di incompatibilità di carica, of course). Conta l’esperimento. Osserviamo e collaboriamo, la città è cosa troppo importante perché ce ne disinteressiamo. Un’ultima osservazione mi preme aggiungerla, a margine o anzi fuori dall’antagonismo Fantola-Zedda. Riguarda la Massoneria cagliaritana, di cui ogni tanto vedo trattare nei blog con qualche punta polemica quando si ritiene negativa per la propria parte l’influenza che ne emanerebbe. In estrema sintesi (ma ricordo quando nella primavera del 1911 – cento anni fa giusti! – L’Unione Sarda ospitava in prima pagina, nell’arco di quasi un mese, le interviste con tutti gli esponenti dei partiti e delle associazioni civili di Cagliari, in vista del rinnovo elettorale amministrativo, e fra gli intervistati c’era il cav. Romolo Enrico Pernis, per il titolo di Venerabile della loggia Arquer ben più che per quello di consigliere di lungo corso, e ancora con un futuro di assessore con Ottone Bacaredda sindaco). Dire di Massoneria al singolare a Cagliari è uno sbaglio, perché le obbedienze attive e organizzate – e peraltro in logica di esclusività territoriale – sono almeno sette, con altrettanti “centri di comando” che si dichiarano l’uno incompatibile con l’altro. Ogni Massoneria – iniziando ovviamente da quella storicamente più giustificata quale è il GOI di Palazzo Giustiniani – ha al suo interno tutto e il contrario di tutto, il che se è buono nella logica di un ecumenismo umanistico secondo il programma del Fratello Kipling premio Nobel della letteratura, non pare a me congruo rispetto a una tradizione bisecolare che colloca la Massoneria italiana tutta entro un filone “patriottico” con ampie condivisioni fra democratici e moderati (perché i moderati massoni erano cavouriani, o giolittiani, o con Ruini all’Assemblea Costituente, certamente non sarebbero mai stati, a dire di decoro intellettuale, né berlusconiani né finiani né casiniani). L’ecumenismo massonico, o comunque la compresenza di orientamenti diversi – purtroppo con le rapsodiche derive che, mancando un Cavour o un Giolitti o un Ruini, puntano ai “polisti” armonici o disarmonici che siano – impedisce di concluderne che dal mondo delle logge possa esserci alcuna indebita (e invero neppure debita) pressione verso il mondo della pubblica amministrazione e delle istituzioni rappresentative. Come deve essere (mi riferisco alle pressioni indebite), in democrazia e in repubblica. Se vogliamo una democrazia repubblicana matura e dignitosa.
Gianfranco Murtas - 24/05/2011
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