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Riceviamo una e.mail da Gian Paolo Piana, che ci chiede: "Mi e' sorto un dubbio: la Sardegna e' Italia. Il fatto di avere una lingua indipendente non è indice di una nazionalità diversa? Vorrei ricordare che l'Unesco Red Book of endangered languages ha rilevato che tutti i cosiddetti "dialetti italiani" in realtà sono lingue indipendenti, nate direttamente dal latino fatta eccezione per il Toscano e il Romanesco. Molto probabilmente l'italia non esiste come ha scritto Sergio Salvi. Nell'attesa di una Vostra cortese risposta Vi saluto cordialmente." Una prima risposta viene data da Giovanni Corrao: Amministrativamente parlando la Sardegna è Italia, come dici tu, ma ha al suo interno una forte caratterizzazione sardista che viene dallo storico isolamento in cui si è trovata nei secoli passati. La lingua sarda, che poi sono basilarmente due, (il campidanese ed il logudorese), non è un dialetto come accade nelle altre regioni italiane, e ha discendenza diretta dal latino, per via delle dominazioni subite. Il popolo sardo ha una lunga tradizione di popolo fiero, è animato da un forte orgoglio, e non è facilmente incline ai compromessi. Inoltre ha sempre osteggiato gli "invasori", rifiutandosi di assorbire altre civiltà, al contrario di quanto è sucesso nella parte meridionale dello stivale. In effetti è possibile dire che la Sardegna, nel suo piccolo, è una nazione. La globalizazione sta incidendo irrimediabilmente sulle tradizioni sarde più intime, tanto che molti bambini nati e cresciuti in Sardegna ormai non parlano più il sardo dei loro genitori. Politicamente da noi c'è una forte componente sardista autonomista, ma anche a tratti indipendendentista o al limite separatista (il Partito Sardo d'Azione proviene dagli stessi fermenti ideali del Partito d'Azione, che ha poi dato origine al Pri). Ti invito a leggere in proposito l'intervista rilasciata da Giacomo Sanna (leader del P. Sardo d'Azione) dove sostiene che la Sardegna è una nazione senza stato, e si oppone alla posizione politica di Mariolino Floris (presidente della Giunta regionale nella scorsa legislatura), che ha avanzato un "Progetto nazionalitario sardo": http://www.psdaz-ichnos.com/IntervistaGSannaObiettivo.htm. C'è poi un movimento sardo (Democratzia) che nel secondo punto del proprio statuto identifica la Sardegna proprio come nazione: http://www.democratzia.it/home.html. Storicamente ti ricordo i nuraghi, costruzioni uniche nel suo genere: http://www.mondosardegna.net/nuraghi/nuraghi.htm . Puoi trovare brevi cenni sulla lingua sarda all'indirizzo: http://www.mondosardegna.net/linguasarda/linguasarda.htm. Ulteriori e più profondi ragguagli vengono forniti da Gianfranco Murtas. Ho letto la corrispondenza Piana/Corrao riguardo all’italianità della Sardegna. Si tratta evidentemente di una "questione" che si è posta come centrale, in varie fasi della nostra storia collettiva, tanto in politica quanto in accademia o nel dibattito culturale o pubblicistico. Gli aspetti che, come un prisma, danno corpo alla "questione" – tra passato e attualità – sono troppe per poter essere riassunte in poche righe quasi improvvisate. Mi limito a ricordare e chiosare alcuni passaggi della bella lettera "agli amici del movimento cagliaritano" di Camillo Bellieni, uscita sulla "Voce" – l’organo del movimento dei combattenti – il 31 dicembre 1920, dunque prima della fondazione formale del Partito Sardo d’Azione. Queste: "Che noi sardi non siamo etnicamente e linguisticamente italiani, questo è un fatto incontrovertibile… il lungo isolamento ha creato un tipo di razza con tali specifici caratteri fisici e sentimentali, che esso non ha niente che fare né con il tipo di italiano del Nord, tenace e disciplinato, che ha subito influssi gallici e germanici, né con quello del Sud, d’umor lieto, espansivo e ciarliero, con incroci di sangue ellenico ed arabo … La nostra lingua è una corruzione ed uno sviluppo del latino rustico alla stessa maniera delle altre lingue romanze …" "Non la razza, non la lingua, non gli istituti giuridici, neppure la storia fino al 1848 noi abbiamo comune con l’Italia, neppure gli interessi economici quali sorgono dalle condizioni naturali dell’ambiente, prima che altri rapporti politici artificiosi vengano a modificarli …" "Col 1847, venne l’Italia. I cagliaritani in un giorno ed una notte di delirio consegnarono i loro privilegi, le antiche costituzioni dell’isola tutte le garanzie di autonomia e di libertà nelle mani del Re. In un istante sublime di entusiasmo trasformarono in una provincia lontana quello che era lo Stato Sardo. E da allora ha inizio una quistione sarda". "Cari amici, sono passati 72 anni. In questo periodo molti fatti nuovi sono avvenuti, che non è possibile annullare, dimenticare. Innanzi tutto noi giovani colti parliamo e pensiamo in italiano… Ora siamo imbevuti fino alle midolla di cultura italiana, ed ogni giorno un piroscafo parte da Terranova per andare a finire sui moli di Civitavecchia. In ventiquattro ore siamo a Roma. L’economia sarda si è completamente mutata… Abbiamo combattuto con gli italiani in Crimea, nelle guerre d’indipendenza, in Africa, in questa guerra. C’è molto sangue sparso assieme. Anche di esso occorre tener conto". "E allora! Consideriamo freddamente la nostra posizione presente nei rapporti con l’Italia… Ma anche nell’interesse nostro, ci sarebbe possibile separarci dalla penisola? Non vengo a trattare la questione dei tributi, della possibilità di provvedere alla propria esistenza indipendentemente, perché io la do per risolta a nostro favore. Noi abbiamo tante ricchezze… Ma qui è il nodo centrale della questione. Abbiamo noi la forza morale di creare nel nostro organismo, di fare balzare fuori dall’oscura matrice della storia, una nazione sarda, concreta individualità che abbia un suo compito ed una sua funzione nella vita europea? Problema morale che è fondamento di tutti gli altri problemi… Essere Stato a sé dovrebbe significare negazione del patrimonio ideale italiano che è nostro patrimonio individuale, creazione di una coltura sarda di là da venire. E’ ciò possibile? "Per quanto cerchi prospettarmi la questione in senso favorevole, a me sembra di no… siamo di razza e di materno linguaggio sardi, irrimediabilmente sardi, e se fummo sentimentalmente ed eticamente spagnuoli, ora non lo siamo più affatto: siamo italiani. Noi non possiamo divenire Stato… il giorno in cui la separazione fosse un fatto compiuto, noi sentiremmo balzare nel cuore un sentimento dolorosamente soffocato sino allora, che ci costringerebbe a rialzare sulle nostre case il tricolore abbattuto. Bisogna rassegnarci alla constatazione che noi siamo una nazione abortiva …" "Noi dobbiamo arricchire la realtà spirituale italiana con il nostro contributo di vita sarda, dobbiamo rappresentare un elemento necessario nel gioco delle forze della economia nazionale. Noi dobbiamo volere l’autonomia, non l’indipendenza, dobbiamo divenire concretamente italiani attraverso la conoscenza della nostra tradizione isolana …" "Noi non abbiamo intenzione di negare l’Italia. Neghiamo quell’astratta italianità che ci fa schiavi dei burocrati principali, nelle quali sono accentrati tutti i privilegi di un organismo sfruttatore e parassitario. Noi neghiamo un’Italia siffatta perché vogliamo che il significato e il valore di questa parola investa una realtà più profonda che non sia quella delle tabelle di sale e tabacchi. Noi vogliamo riconoscerci sardi per essere veramente italiani …" Le polemiche, anche crude, fra il PRI d’inizio anni ’20 e il primo sardismo (PSd’A) d’impronta cooperativo-liberista ad obbedienza bellieniana non negano la comune appartenenza al filone storico e teorico della democrazia italiana marcata Cattaneo e, per altri aspetti, Mazzini stesso. Basterebbe anche consultare le annate del "Solco" (al tempo quotidiano stampato a Cagliari) prima del fascismo e per quanto il fascismo andato al potere nel 1922 tollerò (fino al 1926, fra un sequestro e l’altro, al pari della "Voce Repubblicana" sequestrata alla stazione d’arrivo) per trovare conferma della rispondenza ideale e ideologica ai motivi della democrazia repubblicana del sardismo all’esordio della stagione autonomistica. Bisognerebbe dire: quanto più oggi, essendo trascorsi altri 86 anni da quel 1920 che contabilizzava i 72 anni d’unità costituzionale fra Sardegna e Piemonte, il sentimento italiano si è rafforzato nella vita morale del nostro popolo. Dalla quarta guerra dell’indipendenza italiana (come i repubblicani e gli interventisti democratici intesero la guerra del 1915-18) ad oggi sono trascorse altre quattro generazioni ed i fenomeni d’omologazione culturale ed socio-economica ancor più ci hanno fatto italiani non meno che i lombardi e i lucani. Sarebbe necessario forse interrogarci quello che siamo rispetto a categorie come "patria", "nazione", "paese", "repubblica", ecc. L’impostazione generale che, anche con le tante pubblicazioni nelle cui copertine ho associato i simboli della democrazia sardista (le bandiere al vento) e della repubblica italiana (il tricolore), io ho offerto al dibattito pubblico in questi ultimi vent’anni (dai tempi dell’Edera sui bastioni, 1988, e anche da prima: vedi le pagine sulla seconda scissione sardista apparse sulla "Voce Repubblicana" di Spadolini e Folli) è stata quella dell’Italia come mosaico che vive di irriducibili diversità regionali e municipali, ma tutte le integra in un disegno alto di comune destino. Mazzinianamente: di comune missione. Come sardi partecipiamo alla vita italiana, come italiani partecipiamo alla vita europea. Ma vorrei dire, al riguardo (sono pensieri qui in libertà): niente nasce da niente. Nel 1992 ebbi uno scambio epistolare con Giorgio La Malfa che pareva favorevole a un’alleanza elettorale del PRI con il PSd’A di Giorgio Ladu; a parte la disistima mia per larga parte della dirigenza sardista del tempo (come di oggi), v’era allora ancora il fiato indipendentista che riscaldava le assemblee dei rituali qualunquisti praticati dal PSd’A. Chiedevo a La Malfa jr: ma se La Malfa sr. era arrivato alla rottura con il Partito Sardo nel 1968 per una mezza frase ("elementi di statualità") della mozione congressuale del PSd’A, se Spadolini era arrivato ad avere riserve sulla linea di Mario Melis (che pure incarnava il meglio di quella tradizione attualizzata: con statura di statista), come avrebbe potuto il PRI degli anni ’90 sposare un Ladu ed un PSd’A indipendentista e chiacchierone, nazionalitario-nazionalista (sic!) e reazionario? … Quando poi Amato, insipientemente, non ha trovato posto al governo per Guglielmo Negri, che era stato sottosegretario alla presidenza con Dini; e quando si sono rafforzati i vincoli d’interesse elettorale (e non solo) di vari esponenti del PRI con gli ambienti del polo, ecco che, in crescendo, si è compiuta la svolta tremenda: fino a che la morte di un Valiani, di un Galante Garrone, di un Cingano, di così alte coscienze, ha tolto alla dirigenza ogni residuo senso di vergogna per il tradimento compiuto. Mi spiace usare questa parola: tradimento; la si attribuisce al linguaggio staliniano, del vecchio PCI. Ma non riesco, in coscienza, a trovare altra espressione. Forse sono anch’io un po’ staliniano? Così la barbarie ideologica ha preso insieme il PRI e il PSd’A, il quale ultimo – avendo teorizzato l’indifferenza del partito per i valori universali e il suo unico riferimento agli interessi della Sardegna e dei sardi (quali interessi? sardi sono anche certi speculatori, certi ladri pubblici, ecc.: questione che io ponevo spesso a Mario Melis, "meglio un Pili speculatore delle coste" o "un governo di Roma che ha la forza di bloccare le speculazione"?) – è poi arrivato ad allearsi con la Lega! In questo quadro hanno operato anche i neofrazionisti (?) del PRI autodefinitisi "repubblicani europei", dopo le sbandate in seno ai Ds. Mi sarebbe piaciuta di più l’espressione "Democrazia repubblicana", come si chiamò il gruppo di La Malfa sr. e Parri all’uscita, nel febbraio 1946, e prima della partecipazione alle elezioni per la Costituente, dal Partito d’Azione. Da questa parte, per quanto io possa aver ascoltato e capito (tante trasmissioni speciali anche da Radio Parlamento), sono venuti molti slogan, molta piaggeria verso Prodi, in Sardegna molta sudditanza verso Soru (dal quale si è perfino subito in silenzio il ridicolo dell’alleanza rientrata). Non è venuto nessun decalogo di memoria offerto all’opinione pubblica, anche a quella giovane che non sa quasi niente, sui cardini di una tradizione che vive nonostante bilance e metri non la onorino. Peccato.
G. Corrao - G.franco Murtas - maggio 2006
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