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E Mariano nella cospirazione gielle. L’azteco dell’azionismo italiano, repubblicano e socialista |
A Cala Gonone, in comune di Dorgali, il 26 e 27 maggio 2000 si tenne un convegno dal titolo “Omaggio a Francesco Fancello politico, giornalista, scrittore”, patrocinato dalla presidenza de Consiglio della Regione Autonoma della Sardegna ed organizzato dalla associazione “Raichinas e Chimas” – radici e germogli, splendido poetico binomio che sa di storia e più ancora di vita –, costituitasi in Dorgali stessa nel 1997 con l’obiettivo di curare la raccolta e promuovere la valorizzazione della cultura materiale, scritta ed orale della Sardegna e in particolare della Baronia. Ad un baroniese e dorgalese di speciale prestigio quale appunto è stato Francesco Fancello “Raichinas e Chimas” volle dunque dedicare non la prima, ma certamente la più importante iniziativa della sua (allora) breve storia chiamando a darne lettura storica e testimonianza alcuni dei maggiori studiosi delle varie discipline che il nome del leader del primo sardismo e poi del sardoazionismo, protagonista dell’antifascismo combattente (clandestino e galeotto) e anche autore di letteratura hanno via via incrociato: da Luigi Nieddu a Gianfranco Contu, da Mario Melis a Mimmo Melis (loro le relazioni della prima giornata del convegno), da Giovanni Sabbatucci a Franco Mereghetti, da Vindice Ribichesu a Mario Boninu, da Rita De Muro a Nicola Tanda, da Franco Figus a Vannina Mulas (relatori nella seconda e ultima giornata, quando anche furono letti i messaggi di testimonianza di Vittorio Foa e Paolo Vittorelli, mentre nella prima venne data lettura del messaggio, fra gli altri, di Giorgio Pastorino, collega di Fancello a Il Lavoro Nuovo di Genova, il giornale che aveva Sandro Pertini quale direttore e Fancello vice ma direttore di fatto). Gli atti del convegno di studi furono pubblicati l’anno successivo (2001), a cura di Nunzia Secci – neopresidente dell’Associazione –, dall’editrice cagliaritana Condaghes. Non avendo potuto partecipare, a suo tempo, all’incontro dorgalese, a me fu chiesto di introdurre il volume. A seguire è quindi il mio testo che veniva come terzo contributo originale dopo quelli rifluiti nei corposi tomi di “Documenti e testimonianze” dedicati, fra il 1990 ed il 1992, al complesso ed articolato protagonismo delle formazioni di democrazia repubblicana ed autonomista, in Sardegna e sul continente, negli anni della guerra di liberazione e della Costituente: Cesare Pintus e l’Azionismo lussiano, poi Sardismo e Azionismo negli anni del CLN, quindi Bastianina, il sardoAzionismo / Saba, Berlinguer e Mastino, infine Titino Melis, il PSd’A mazziniano / Fancello, Siglienti, i gielle, con i due successivi d’integrazione Alla fabbrica della Repubblica e dell’Autonomia. E dopo anche quel più sobrio volume dal titolo Francesco Fancello – secondo della breve serie “Biblioteca del sardoAzionismo” (1998) – in cui, pur con inedita introduzione, erano rifluiti, ordinati e sistematizzati in chiave monografica, i vari scritti apparsi nelle precedenti uscite editoriali: “Un eroe alla Consulta Nazionale”, “Buon lavoro a Montecitorio”, “Quel sardo azteco del silenzio”, “La novità del Partito d’Azione”, “Scrivere per comunicare ideali” (qui con i due ottimi interventi di Marco Piredda su “Il giornalismo come missione” e di Vito Biolchini su “Brundu, scrittore dostoevskijano”). Sabato 28 settembre 2002 partecipai come relatore, unitamente al professor Manlio Brigaglia (questi su “L’idea della Autonomia e la Storia della Sardegna”), al nuovo convegno proposto, ancora da “Raichinas e Chimas”, con il seguente tema: “Omaggio a Francesco Fancello. Ripensare l’Autonomia, dal Sardo-Azionismo alla Riforma dello Statuto”. Il mio titolo fu “Il sardismo universale di Fancello”. Così nella seduta mattutina, all’auditorium Hotel Smeraldo di Cala Gonone. In quella pomeridiana si svolse invece una interessante tavola rotonda, moderata da Gianni Massa e all’insegna di “Autonomia e federalismo: la specialità della Sardegna e la Riforma dello Statuto”, con alcuni esponenti della politica regionale: Benedetto Ballero, Mario Melis, Emanuele Sanna, Efisio Serrenti e Pietro Soddu. Riporto di seguito anche questo secondo contributo. 1 – Fancello l’antieroe. Introduzione agli atti del convegno “Omaggio a Francesco Fancello politico, narratore, giornalista” L’“antieroe” fu detto, credo, di Parri, il presidente del Consiglio dell’Italia finalmente liberata in quello storico 25 aprile 1945. E ancora per antitesi questi fu, per la penna del compagno azionista Mario Berlinguer, chiamato, in un bellissimo articolo comparso su Riscossa del 1° ottobre 1945, l’«antiMussolini», e così, dopo, descritto proprio come il campione della «semplicità»: «appare come un buon padre di famiglia borghese, schivo di pubblicità, modesto; è lo “zio” non il “condottiero” dei partigiani, l’uomo medio che non compie che gesti comuni, non dice che parole consuete e proprio perciò più toccanti..., non urla per esaltare o richiamare il popolo al suo dovere ma si limita a chiedere anche agli altri cittadini di “tirarsi su le maniche” per intraprendere con lui un duro lavoro; ed ama gli amici, come lui semplici, e quelli popolani più degli altri. Del suo ingegno come del suo coraggio e specialmente della sua bontà ha un istintivo pudore; e soltanto nel ritorno alle gioie più elementari e familiari egli ritrova riposo alla sua fatica». Il ritratto potrebbe adattarsi, per filo e per segno, almeno ad un altro dei capi dell’antifascismo militante di parte azionista: Francesco Fancello. Il riserbo e la grande dottrina, la bontà e il coraggio da stoico, la povertà francescana e lo spirito ilare e quant’altro ancora del suo temperamento sobrio e misurato, della sua personalità schiva e determinata, della sua intelligenza vivida, del suo senso del collettivo, dell’azione combinata e finalizzata ad un alto fine, tutto concorre infatti a definire un identikit morale ed umano che farebbe, del grande democratico di radici profondamente sarde e insieme di fronde così universali, degno della più alta tribuna della moderna storia repubblicana dell’Italia. Il suo nome resta consegnato alla più contrastata delle stagioni di lotta fra il male ed il bene, fra l’oppressione lungamente sofferta e l’ansia di definitivo riscatto della libertà. Della libertà in nesso indissolubile con la giustizia sociale, secondo quell’associazione di categorie che ha distinto il movimento politico che in lui, ad appena pochi mesi dalla sua fondazione parigina, ha trovato un leader militante: nella clandestinità e nel rischio sempre incombente di tradursi in sconfitta, come infatti avverrà da quel 2 novembre 1930, data del suo arresto, il primo dei 4665 giorni – l’ultimo sarà il 12 agosto 1943 – che egli offrirà per la redenzione democratica della patria. Uscirà dall’ottennio del confino, dopo il lustro trascorso in cella, con un mese di ritardo rispetto alla caduta del duce e del fascismo: come a voler simboleggiare, quei 18 giorni di supplemento badogliano, la sua permanenza, o persistenza, quale straniero in patria, quale anche in precedenza era stato, e quale sarebbe rimasto anche in futuro, in democrazia, ma una democrazia tanto spesso scaduta nell’abuso e nel famelico conformismo partitocratico. Va spiegata, forse, anche questa metafora dello “straniero in patria”, o forse meglio riformulata in quella di un “italiano di minoranza, e minoranza nella sua minoranza”. Minoranza come interventista democratico nella guerra 1915-1918; minoranza con i militanti del pur grande e generoso disegno della democrazia meridionalista e contadina, all’indomani del conflitto mondiale; minoranza nella fermezza etica ed ideologica, al di là delle apparenti convenienze, del sardismo nei confronti della seduzione fascista; minoranza sul fronte dell’antifascismo operante in clandestinità e poi nel patimento della cattività, anche negli anni pur cosiddetti “del consenso”; minoranza fra gli spiriti tutti nobili dell’azionismo al tempo della resistenza (e minoranza nel sostegno delle ragioni unitarie fra democratici e socialisti all’interno del partito); minoranza nella vicenda del PSI fin dall’indomani della sua confluenza, con gli altri lussiani (ottobre-novembre 1947) e lungo un arco temporale che giunge alla sua morte, nel settembre 1970, sempre al fianco di Pertini e contro l’oltranzismo dottrinario degli “unitari” di classe. Una roccia di mitezza Egli nasce, nel 1884, ad Oristano da genitori uno (Pietro) di Dorgali e l’altra (Giovannina Marchi) di Osidda, terzo di una nidiata di otto. Cresce senza miti, ma con valori saldi. E sono valori che la successione delle residenze familiari, conseguenza diretta della mobilità di carriera paterna – dopo le sedi isolane, ecco Messina, Bologna, Roma... –, irrobustisce conferendo ad essi la linfa dell’esperienza, delle conoscenze non soltanto libresche ma acquisite nel contatto con luoghi ed ambienti umani i più vari. Della figura del padre, ancorché soltanto nell’amara fase del declino, esiste una testimonianza indiretta che, nel settembre 1934, fornisce Ernesto Rossi, al tempo compagno di detenzione di Fancello a Regina Coeli: «Prima della guerra, suo padre, magistrato, fu preso da un colpo, che lo tenne per parecchio tempo paralizzato, in letto, facendogli perdere la vista di un occhio. Per risparmiargli qualunque emozione, che gli sarebbe stata fatale, andarono ad abitare fuori di Roma, tenendogli nascosta la dichiarazione di guerra dell’Italia, e continuando a leggergli i giornali come se si fosse sempre in periodo di neutralità, mentre tre figlioli erano al fronte, uno veniva ferito e l’altro ucciso. Gli fecero credere che quello morto fosse stato inviato in America per dei contratti militari, e per rassicurarlo gli leggevano delle lettere false piene di buone notizie». Una situazione evidentemente drammatica, di difficile gestione pratica e prima ancora emotiva, ancor più pesante perché prolungata nel tempo, «durata fino a quando il padre è morto – un anno dopo la pace – senza sapere che c’era stata la guerra, malgrado si alzasse e facesse anche delle passeggiate fuori di casa». L’intimità della cella mette Rossi in condizione di conoscere anche altri aspetti della vita familiare del suo compagno, da questi rivelatagli con spontanea confidenza: «Poi una sorella ventenne è stata colpita dall’encefalite letargica, che la ha tenuta a letto per una diecina di anni, come un corpo morto in tutto, meno che negli occhi. Solo negli ultimi tempi ha potuto ricominciare a mangiare per suo conto e a parlare un poco. Poi un fratello che mandava al mio giornale (il Giornale degli agricoltori toscani) – ha dovuto essere rinchiuso in una casa di salute per mania di persecuzione e non guarisce nonostante tutte le cure. Poi lui licenziato da un ottimo impiego, in cui era da una ventina d’anni, ed infine il processo e la galera...»... Potrebbe chiosarsi, volando però al 1970, che della «tragica famiglia» a lui sopravvivrà un solo familiare, la sorella Pia, che lo assisterà nel mesto tramonto... L’umanesimo d’una biografia pubblica Certo saprebbe suscitare singolari suggestioni il personale rapporto che fosse instaurato fra il ricercatore, od anche il semplice lettore di ricerche storiche, ed il protagonista della vicenda indagata, che appare sempre, e forse sempre è, come segnato da un’impronta sempre e comunque di speciale livello di nobiltà. Lungi dall’enfatizzare e mirabolare, questa tecnica del ripasso per fotogrammi dell’ideale pellicola biografica riuscirebbe invece, forse come nient’altro, ad accostare alla concreta condizione esistenziale di chi è ben più che “figura” o “personaggio”. Per compiere la laica magia bisognerebbe dunque saper selezionare, dal gran novero, l’istantanea più significativa, la sequenza più efficace e rispondente, per le forme e gli snodi di causa ed effetto, l’intero corso di una esperienza di vita, in cui tratto privato e tratto pubblico inestricabilmente si combinano fra di loro. A voler applicare il metodo alla vicenda umana di Fancello... non potrebbe che guardarsi – al di là della (purtroppo ancora) nebulosa della infanzia ed adolescenza – al suo debutto in guerra, nel 1915, trentunenne, nella divisa degli arditi... Ufficiale, viene medagliato due volte con l’argento per le coraggiose gesta compiute in azioni di contrasto dell’esercito austriaco. O alla sua presenza, di fatto come vice direttore, proprio all’indomani della guerra, al periodico Volontà, nato fra le trincee e spintosi fino alle soglie quasi della trasformazione del governo “maggioritario” del PNF in regime dittatoriale: con Bellieni e Lussu stesso rappresenta l’anima autonomistica isolana, ma non un’anima chiusa a più larghe convergenze di riflessione e di propositi, bensì un’anima che, anzi, si fonde bene con quella a larga consapevolezza meridionalistica di un Salvemini, tanto da iniziare a definire un originale impianto anche teorico che sarà chiamato del “socialismo contadino”, ed a prefigurare anche il lancio dapprima di una formazione parlamentare cosiddetta del “Rinnovamento” (cui aderiscono gli eletti sardi della lista dell’Elmetto, nel 1919), poi di uno schieramento delle forze regionali federate in un Partito Italiano d’Azione. O alla sua partecipazione, a cavallo fra la Sardegna ed il continente, al gruppo degli scrittori del Solco, già prima della fondazione – che pure lo vedrà tra i protagonisti – del partito dei Quattro Mori, così evolutosi dalla federazione regionale dell’Associazione Nazionale Combattenti (e del quale difenderà con argomenti e pathos la fermezza democratica, contro ogni rischio di deriva populista in direzione dei nuovi padroni d’Italia). O al suo ufficio di alta gerarchia nell’amministrazione ospedaliera romana, risultato di un concorso in cui ha potuto far valere la sua cultura giuridica (è laureato in Legge), e dal quale dovrà per forza dimettersi allorché, nel 1927 – quarantatreenne – rifiuterà di prestare il richiesto giuramento di fedeltà al regime illiberale ormai insediatosi in Italia. O al suo trasferimento di residenza nella campagna toscana, come amministratore dell’azienda agricola del conte Lucangelo Bracci – il finanziatore di Volontà –, a Montepulciano, e come precettore dei suoi figli adolescenti. O ancora al suo arresto, a Roma, al Gianicolense, nell’autunno 1930, vittima fra molte altre della rete tesa dall’OVRA mussoliniana per impigliare tutti i giellisti del nord e poi del centro Italia... Ha 46 anni, Francello, quando entra nelle patrie galere. Ne avrà 59 quando ne uscirà, chiudendo – se così può dirsi – la prima parte della sua biografia. Ché v’è intimo nesso di coerenza ideale fra tutte le vicende che l’hanno intessuta: dall’arrischiata militanza bellica alla non meno arrischiata opposizione alla dittatura, svoltasi nella sequenza clandestinità-carcere-resistenza. Là erano state ferite, qua è stata la prigionia. La confessione di fede, però, sempre la stessa: l’Italia ed i valori universali della libertà e della democrazia. E’ una riflessione, già altre volte affacciata, ma che meriterebbe altri approfondimenti questa sulle idealità dei leader dell’antifascismo provenienti dalle dirette esperienze della prima guerra mondiale, che suggellava mazzinianamente la lunga fase del risorgimento patrio e unitario. Circostanza che legittima il parallelismo fra primo e secondo risorgimento, insomma l’attribuzione alla guerra partigiana di un connotato prettamente patriottico, come nel risorgimento poteva sentirsi, della resistenza come replica della epopea da cui sarebbe scaturita l’Italia una e indipendente, libera e repubblicana. Intellettuale e militante. Detenuto Il nuovo regolamento degli istituti di prevenzione e pena approvato con R.D. 18 giugno 1931 n. 787, contempla, all’art. 70, una tabella (la F) che elenca, fra l’altro, i capi di vestiario e biancheria d’uso personale dei detenuti. E’ anche la fornitura assegnata a Fancello, dopo che nel carcere di Viterbo, in quello di Civitavecchia e poi di Regina Coeli: una giubba di panno lana (durata tre anni), un panciotto pure di panno lana (due anni), un paio di calzoni anch’essi di panno lana (due anni), un berretto ancora di panno lana (due anni), un paio di calzoni di mezza olona (un anno), due camicioni pure di mezza olona (due anni), una borsa a sacco anch’essa di mezza olona (durata indeterminata), tre camicie di tela di canapa (nove mesi), due paia di mutande pure di tela di canapa (nove mesi). Giustizia e Libertà – il settimanale del “Movimento unitario d’azione per l’autonomia operaia, la repubblica socialista, un nuovo umanesimo”, come si legge nella sua originaria sottotestata del maggio 1934, successivamente – luglio 1937 – riformulatasi in quella di “Movimento di unificazione socialista”– non offre pressoché nulla, nella sua pur lunga serie, che faccia riferimento ai suoi detenuti. Qualche accenno vago, sempre in lista con altri nomi, in omaggio all’antiretorica che distingue sensibilità e cultura dei militanti di GL. Soltanto quando, nell’edizione del 27 settembre 1935, si fa riferimento in un titolo di prima pagina al trasferimento di Pertini all’isola di Ponza (“Il regime ‘fortissimo’ deporta Alessandro Pertini gravemente malato, a Ponza”), anche il nome di Fancello s’affaccia dalle colonne del giornale: «... Ma è inutile protestare a parole. Pertini, Bauer, Terracini, Rossi, Fancello, Lucetti, Roberto, Cianca, e i mille e mille altri carcerati e deportati resteranno inchiodati alla loro croce sino a tanto che il fascismo resterà in piedi, sino a tanto che Mussolini vivrà...»). Ha scritto molto, Francesco Fancello, della “grande storia”, o del “grande scontro” fra l’oscurantismo totalitario e tirannico e l’ansia libertaria e di giustizia sociale in un sistema compiutamente democratico e, ovviamente, repubblicano. Esemplari, anche come rigore di scrittura, sono le pagine dei suoi contributi all’edizione monografica del Ponte del 1951 dedicata alla Sardegna. Ma poco, tutto sommato, forse (o senz’altro) a motivo della riservatezza tipica del suo carattere, egli ci ha lasciato della stagione paradossalmente forse più ricca, più fertile, della sua vita: i tredici lunghi anni della costrizione carceraria e/o confinaria. Quel che si sa, del cadenzato procedere quotidiano all’interno di una cella, è in quel tanto di carteggio che è stato pubblicato nell’antologia Lettere di antifascisti dal carcere e dal confino, pubblicato dagli Editori Riuniti nel 1962, e da cui io stesso ho tratto la dozzina di lettere riproposte, con commenti o inquadramenti biografici in alcuni dei volumi dedicati all’esponente sardoAzionista (da Sardismo e Azionismo negli anni del CLN a Titino Melis, il PSd’A mazziniano / Fancello, Siglienti, i gielle, agli stessi tomi della Biblioteca del sardoAzionismo, ed in particolare ai primi tre della serie biografica, vale a dire Ines Berlinguer Stefano Siglienti, ovviamente Francesco Fancello, e Cesare Pintus). Va da sé che una più organica raccolta di tale materiale meriterebbe di essere compiuta, compulsando i fascicoli dell’Archivio Centrale dello Stato e le carte domestiche che certo dovranno pur esserci in qualcuna delle residenze dei familiari, sul continente forse più che nell’Isola. Non da lui, dunque, ma fortunatamente almeno da un suo compagno di detenzione, sia pure per il limitato periodo 1931-1939, disponiamo di notizie che ben possono integrarsi con quelle estrapolabili dalle lettere alla madre Elide, già pubblicate e note. E’ Ernesto Rossi – un altro gigante della democrazia italiana – a fornirci, col suo epistolario familiare (lettere alla madre e quindi alla moglie), un notiziario ricco nella varietà dei temi e diffuso lungo la traiettoria del tempo, nel quale Fancello campeggia con altre quattro o cinque figure tutte assolutamente di spicco: da Bauer a Calace, da Roberto a Domaschi, a Rossi stesso evidentemente... Le due raccolte del carteggio privato – seviziato quanto è impossibile dire dalla censura – sono apparse in libreria in epoche molto distanti fra di loro: Elogio della galera. Lettere 1930/1943 (Bari, Laterza, 1968) e «Nove anni sono troppi». Lettere dal carcere 1930-39, recentissimo (Torino, Bollati Boringhieri, 2001): il primo a cura di Manlio Magini, il secondo di Mimmo Franzinelli. «Mi farai un piacere se mi ritroverai i giornali che hanno riportato i processi nostro e degli altri due gruppi», «Dammi notizie di Traquandi e di Fancello. Sai dove sono andati?», scrive Rossi alla madre, rispettivamente il 6 ed il 13 luglio 1931, dal carcere di Pallanza. Con Traquandi, Francello è ancora a Regina Coeli. Dopo il processo – celebrato davanti ai giudici del Tribunale Speciale il 27 giugno, coimputato con Cesare Pintus (con lui condannato, come pena principale, a dieci anni di detenzione e come pena accessoria a tre anni di vigilanza speciale nonché all’interdizione perpetua dai pubblici uffici) e con Nello Traquandi (sette anni) – è stato tolto dall’isolamento che durava fin dall’inizio della carcerazione: «Sono in cella con altri due detenuti politici (...). Aspetto di giorno in giorno la partenza per la casa di pena. Mi dicono tutti che nelle case di pena si sta benissimo. Non c’è confronto col carcere giudiziario (...). Credi che anche alla vita di prigione ci si adatta benissimo. Non ci sono affatto quelle sofferenze che si immaginano da fuori. Non c’è confronto con le privazioni di trincea (...). Io costato che tutti i detenuti politici sono allegri e pieni di buon umore...», scrive lui stesso, il 3 luglio, alla madre. A quella Giovannina Marchi che l’aveva salutato, a casa, presenti dieci poliziotti, con un «Stai tranquillo, figlio mio. Il torto non è tuo». A quella Giovannina Marchi che, dopo il processo e la condanna, gli ha inviato una cartolina del seguente tenore: «Credo che tenga più al mio giudizio che a quello del tribunale speciale. Bravo, sono contenta di te». A quella Giovannina Marchi che declina ogni suggerimento di proposta della domanda di grazia: «Sarebbe come chiedere scusa. Ma di che?» (cfr. Giuseppe Fiori, L’anarchico Schirru condannato a morte per l’intenzione di uccidere Mussolini, Milano, Mondadori, 1983, con richiami anche a Lettere di antifascisti dal carcere, Roma, EE. RR., 1962, con prefazione di Giancarlo Pajetta). A quella Giovannina Marchi «cara e coraggiosa signora» che Ines Berlinguer Siglienti va a trovare spesso, con spirito di figlia, e che così testimonierà: «Il Duce diverse volte le avrebbe mandato a dire che, se avesse inoltrato domanda di grazia, avrebbe liberato il figlio! Da sarda coraggiosa e orgogliosa ha sempre risposto No: “... perderei due volte mio figlio; e poi, non lo considero colpevole”. Ogni volta che riesco a stare con lei ritorno col cuore pieno di commozione, di ammirazione» (cfr. Ai Nipoti, s.p.). Il giorno avanti, 2 luglio, La Libertà – il giornale della Concentrazione antifascista di Parigi – ha riferito dell’esito del dibattimento, e pubblicato una rapida scheda biografica dei tre «ferocemente condannati» – come ha scritto nel titolo –: «... imparò a considerare la vita, soprattutto, come una somma di doveri. Non era favorevole alla guerra ma, dalla mobilitazione all’armistizio, vi prese ininterrottamente parte con la decisione di chi non discute un fatto non più evitabile. Ferito e decorato, non portò mai, neppure al fronte, i distintivi delle ferite e delle medaglie, ché aveva in orrore l’eroismo incorniciato. Era antidannunziano e antiretorico e sprezzava tutto quello che era aulico anche quando voleva apparire ribelle. Finita la guerra, come un vero padre si dedicò alla educazione dei figli di un fratello aviatore morto in combattimento, rinunziando per questi a formarsi una sua famiglia. «Contro i pseudo democratici pencolanti fra la reazione e la libertà e contro il fascismo ebbe un contegno di opposizione recisa. Quando il fratello Nicolò, noto giornalista, aderì al regime, egli troncò ogni rapporto con lui e gli negò persino la parola e il saluto, considerandolo alla stessa stregua degli altri fascisti. E vanamente la vecchia madre, con contrasti drammatici che gli intimi conoscono, tentò un riavvicinamento. Questo tratto rivela tutto il suo carattere e l’intransigente moralità con la quale concepiva la lotta politica in un paese dove i “furbi” si professavano avversari del fascismo, ma facevano iscrivere i figli nei fasci di combattimento, soddisfatti di avere il piede in due staffe...». Dopo Regina Coeli c’è Viterbo, poi Civitavecchia. Fra i suoi compagni di detenzione è Cesare Pintus, Cesarino, di lui più giovane di ben diciassette anni ma, al pari suo, coraggioso. E di tanto, e della autentica nobiltà del cuore, gli darà testimonianza all’indomani della morte, scrivendone in Riscossa Sardista, il periodico del nuovissimo Partito Sardo d’Azione Socialista. Ma quel che qui importa richiamare una sua considerazione generale sull’atmosfera di umanità vissuta nelle celle: «... Non che il carcere fosse il covo della tristezza, come molti pensano. L’ancoraggio ad un ideale fortemente sentito, la coscienza del dovere compiuto e la solidarietà dei compagni dava ai detenuti antifascisti un tono di vita tutt’altro che malinconico. Regnava anzi fra essi il più autentico buonumore, salvo i ricorrenti soprusi della Custodia. «Ma naturalmente il merito di quel clima spettava in gran parte all’influenza benefica degli uomini di più temprato carattere e non è detto che costoro fossero sempre fra gli assi della intellettualità e della autorevolezza ufficiale. Preziosi erano i temperamenti modesti e bonari, tetragoni ad ogni assalto del malumore, pronti sempre a portare tra i compagni una nota di dignità e di fiducia nelle alterne vicende degli avvenimenti interni ed esterni...». Nell’epistolario familiare di Ernesto Rossi Dal penitenziario di Civitavecchia Fancello migra nuovamente, nel novembre 1933, al maggior carcere della capitale e s’incontra finalmente con Rossi, proveniente da quello di Piacenza. «In conseguenza della scoperta del mio tentativo di fuga – scriverà quest’ultimo a Salvemini il 24 marzo 1944 (il testo è nel primo volume di Lettere dall’America, a firma dello storico pugliese, per le edizioni baresi di Laterza) –, portarono contemporaneamente a Roma anche Traquandi, Bauer, Calace, Roberto, Fancello. Da “Regina Coeli”, o meglio dal Braccio IV, dove erano i detenuti in attesa del processo al Tribunale Speciale, era assolutamente impossibile fuggire. Eravamo solamente noi, di “G.L.”, sottoposti, dopo il processo, a questo trattamento particolare...», Da Regina Coeli partiranno tutte le 30 e passa missive (con vario riferimento a Fancello) pubblicate nelle due corpose raccolte. «Sono stato messo a confronto con gl’imputati del mio stesso processo, e con Traquandi e Fancello, che si sospettava avessero concertato con me una fuga nello stesso giorno...», scrive indirizzando insieme alla madre e alla giovane moglie, il 1° dicembre 1933. Della traduzione di «Rossi, Bauer, Fancello e tutti quei di “GeL” dello stesso processo» al IV Braccio delle prigioni romane scrive pure Loto (pseudonimo senza ancora possibilità di attribuzione) a Lussu, ospite ad Auch (per ragioni di salute) di Silvio Trentin. La lettera è del 10 dicembre 1933 ed è riportata in Emilio Lussu. Lettere a Carlo Rosselli e altri scritti di “Giustizia e Libertà”, a cura di Manlio Brigaglia, per i tipi dell’Editrice Libreria Dessì, Sassari, 1979. (Va dato merito al prof. Brigaglia di essere stato un anticipatore nell’esplorazione archivistica e nel tratteggio biografico dei maggiori esponenti del movimento rivoluzionario). «Gli amici romani ne ignorano la causa – scrive Loto –. Alcuni dicono che pare siano imputati di aver organizzato un accordo nelle carceri: accordo che avrebbe incluso anche i comunisti. Infatti il 26 ottobre, tutti i detenuti politici delle principali carceri, tutti senza eccezione, rifiutarono il cibo». Quattro mesi dopo s’affaccia, dalla pur dura contingenza, una nota di letizia e perfino di scherzo. «Abbiamo passato un’ottima Pasqua, grazie alla concessione che ci è stata fatta di riunirci in una cella, dalle 11 alle 16, con Roberto, Traquandi, Fancello e Domaschi... Le ore son passate con una velocità straordinaria, rallegrati tutti di poter parlare a cuore aperto; sicuri della simpatia e della comprensione di amici in cui si può veramente fidare... Abbiamo parlato un po’ di tutti e di tutto, ed abbiamo anche nominato Nello “reginetto di bruttezza”, malgrado la concorrenza di Fancello e, in second’ordine, di Calace», scrive ancora alla madre il 2 aprile 1934. Dello stesso giorno la lettera di Fancello alla madre, con qualche maggior considerazione “morale” sulla festa di cella: «... ho goduto d’una ottima giornata, in compagnia dell’intero gruppetto dei compagni di processo. Finalmente ho potuto conoscere di persona tutti quelli che la sentenza del tribunale speciale ha accomunato in uno solo, più o meno severo, destino. Tutti i dolciumi messi in comune ci sono sembrati più saporiti per il pensiero dei nostri cari (...). Chissà quanti, pur liberi di godersi il verde dei prati o la dolcezza sconfinata del mare, si saranno sentiti meno felici di noi, poveri galeotti, riuniti nei pochi metri quadrati di una cella (...). Nessuno di noi si sentiva moralmente in difetto. Quel che conta per la tranquillità di coscienza è la purezza delle intenzioni. Il resto è contingenza opinabile...». Nonostante il regolamento, non è consentito ai detenuti “speciali” – tali sono quelli di GL – di scrivere, se non una lettera alla settimana. «Come si fa a studiare sul serio senza la possibilità di prendere anche un semplice appunto? E a che scopo poi? Per timore di abusi? Ma chi abusa paga (...). Io sono stato condannato alla reclusione, ma non alla impossibilità di un lavoro intellettuale», scrive il 16 dello stesso mese. E aggiunge subito: «Siamo sette gatti e non ci è neppure consentito di stare insieme tra noi, almeno in una rotazione, se non è possibile altrimenti. Il giorno di Pasqua, le poche ore di compagnia sono volate così rapide, lasciandoci il desiderio intenso di rivedersi. Tu non crederai, ma il fatto è che la preoccupazione culturale si è talmente accresciuta in tutti questi anni di prigionia, che noi abbiamo dedicato si e no una mezz’ora, dirò così, a riferimenti processuali. Quasi tutto il tempo s’è parlato di libri letti, di teorie accettate o contrastate. Chi si ricordava di essere in galera? Me ne sono accorto quando ho dovuto troncare in mezzo una fitta discussione con uno dei compagni che ho conosciuto a Pasqua per la prima volta: un ragazzo di prim’ordine che si è molto dedicato in questi anni alla storia della filosofia. Un altro non ha fatto a tempo a riferirmi il riassunto di un interessantissimo volume di economia, che ha in parte già tradotto dall’inglese. Ora poi sono rimasto in una condizione anche più melanconica, perché il mio gruppo si è ridotto a soli tre. Bravissime persone sono i miei due compagni, e non desidero davvero separarmi da essi, ma non è colpa loro se i loro studi sono stati modesti...» (il riferimento è a Domaschi e Traquandi, con i quali accoglie nella propria cella, al termine di un periodo di punizione, il 6 luglio, Rossi). Degli impegni intellettuali coltivati in cattività, e del protagonismo del suo compagno sardo, è Rossi a scrivere il 9 luglio successivo: «Anche le vivacissime discussioni che faccio con Fancello valgono a risvegliarmi (...). Al pomeriggio Fancello, che ha una discreta pronunzia, fa lettura d’inglese a me e a Traquandi. Abbiamo anche molte riviste. Fancello è abbonato alla Nuova Rivista storica, alla Rassegna della Stampa estera ed alla Rivista di Politica economica (...). «All’aria adesso andiamo tutti e quattro insieme, poiché, abbattendo un muro, di due cortiletti ne hanno fatto uno solo e si passeggia molto meglio (...). «Specialmente son contento di conoscere Fancello, che ha una personalità interessantissima. Ha una cultura molto vasta, che ha saputo assimilare completamente – e che è più simile alla mia di quella di Riccardo – ed ha facoltà logiche non comuni. Credo che le discussioni con lui saranno più fruttuose di quelle che facevo con Riccardo, perché il mio vocabolario e il mio modo di ragionare corrispondono molto più al suo che a quello di R., avvicinandosi più a quello paretiano che a quello crociano...». Segue una gustosa descrizione della fisionomia del compagno: «Ma tornandoti a parlar di Fancello, ti dirò che anche le sue caratteristiche fisiche son molto interessanti. Ha 50 anni, ma non ne dimostra neppure 40, forse perché non ha affatto baffi e barba; statura più alta della media, portamento più dinoccolato e cascante anche del mio (ed è tutto dire); molti capelli in parte bianchi, che gli arrivano quasi sulle sopracciglia; fronte bassa e sfuggente e viso cavallino con il tratto fra le narici e il labbro molto lungo; bocca infuori (...) che fa vedere normalmente i denti davanti, bianchi e ben uniti, e quando ride lascia scoperta tutta la gengiva superiore. Ma quel che gli è più particolare è la mobilità straordinaria di tutta la faccia che spiana o raggrinzisce in mille guise, portando in alto o in basso le sopracciglia nel modo più espressivo... Forse riuscirei a rappresentarlo molto meglio con uno dei miei pupazzi (e se l’ho studiato, è stato appunto perché m’è sembrato un soggetto molto pupazzettabile), ma purtroppo mi manca anche questa risorsa per render meno stupide le mie lettere...». Altre cronache di vita, comunque non lacrimosa,... in un interno, portano la data del 30 luglio (a ricevere ora è la moglie Ada, “Pig”): «... avendo preso un ciclamino, l’ho portato a far vedere ai tre miei compagni, e per mezz’ora abbiamo continuato a scervellarci per ricordarci come si chiamasse. Si prendeva la rincorsa dicendo: “Sono andato al bosco per cogliere i... i...”, ma il nome non veniva. Si aveva tutti sulla punta della lingua, ma Fancello assicurava che principiava col ti, ed io ero certo che principiava col gi... Finalmente Nello ha trovato la figura sul vocabolario, dandoci torto a tutt’e due. Non è la prima volta che ci accorgiamo di aver dimenticato delle parole che fuori consideravamo d’uso comune... «A proposito di materiale didattico e di metodo d’insegnamento, Fancello m’ha raccontato “mirabilia” dell’esperienze scolastiche di sua sorella, che da molti anni insegna col metodo Montessori. Mi assicura che si riesce ad insegnare tutta la matematica elementare ai bambini, ed anche le operazioni fra polinomi ed altri elementi d’algebra, facendoli ragionare per loro conto, spontaneamente, senz’alcuna imposizione dogmatica, senza il martirio della tavola pitagorica, delle definizioni, ecc. Penso ti potrebbe molto interessare di conoscere la sorella di Fancello e visitare la sua scuola privata, quando verrai a Roma, quest’autunno. Così mi riferirai poi qualcosa di preciso...». Ed il 6 agosto, alla madre: «La cella è molto piccola per starci in quattro d’estate. Ma la buona compagnia compensa l’inconveniente. Oltre alle lezioni d’economia nella mattinata, due volte alla settimana nel pomeriggio facciamo discussioni generali sugli argomenti che più c’interessano. E’ già la quinta discussione che facciamo sulla possibilità tecnica d’un ordinamento sindacalista, che consenta l’abolizione della proprietà privata degli strumenti della produzione, senza cadere nel socialismo di stato, sulla linea delle idee già propugnate da Ratheneau in Germania... Purtroppo, ancora non vedo niente di meglio che la continuazione del sistema della proprietà privata (...) per mantenere quelle condizioni che ancora rendon possibile la conservazione delle libertà politiche, che per me sono un aspetto essenziale della civiltà moderna... Perciò nelle discussioni faccio sempre la parte del conservatore, cercando di far vedere l’impossibilità di concepire logicamente un ordinamento in cui si accordino le diverse caratteristiche che i miei compagni vorrebbero realizzare contemporaneamente. Con questo, anche se non riusciamo a convincerci, approfondiamo l’analisi dei diversi problemi e riusciamo a render più chiaro il nostro pensiero... «Finora abbiamo esaminato quali sarebbero le qualità dei gruppi dirigenti i grandi trusts produttori, scelti dagli operai dei trusts stessi secondo il sistema democratico; con quali criteri potrebbero esser determinati i prezzi, quando ogni genere di consumo venisse prodotto da un solo trust; come sarebbe possibile determinare il buono o cattivo rendimento dei trusts e delle singole aziende che li comporrebbero, e come verrebbero distribuiti gl’individui fra le diverse aziende. Quando mi pare d’essere arrivato a dimostrare la necessità d’un organo centrale, che dia una risposta ai diversi problemi stabilendo paternalisticamente quali sono i fini da raggiungere nel “superiore interesse della collettività”, mi diverto ad irritare Fancello dicendo: “Ed ecco il comitatone presieduto da G (...) che tutto può, che tutto fa”. Ed è come il cencio rosso agitato davanti agli occhi del toro, ché Fancello non può soffrire G e quelli che hanno la sua mentalità...». E lo stesso giorno, alla sua Pig: «In questa settimana ho letto una Storia economica dell’età moderna del Luzzatto di proprietà di Fancello, (mi è piaciuta poco, come d’altronde mi son sempre piaciute poco le storie economiche)...». «Per ferragosto avevamo chiesto d’esser messi tutti insieme con Bauer, Roberto e Calace, ma non ci è stato consentito», scrive l’antivigilia della festa. Poi, però, la direzione del penitenziario deve aver cambiato idea e così il 20 può fare, ancora alla madre, una cronaca soddisfatta, ancorché venata di preoccupazione per i malanni fisici di questo o di quello, Fancello incluso: «Il 15 nel pomeriggio sono stato messo in compagnia con Riccardo e Calace, perché Roberto da due o tre giorni rimaneva nella sua cella con dei dolori a una gamba per una vena varicosa. Non sembra sia una cosa seria perché ieri l’altro è tornato in compagnia ed io sono stato rimesso con gli altri tre. Quella che ci preoccupa piuttosto è la salute di Fancello: ha spesso male a un orecchio per una otite purulenta ed ogni tanto vomita quel poco che ha mangiato. Si è completamente rovinato lo stomaco continuando per dei mesi a mangiare solo la sboba del carcere e delle patate e fagioli, quando era in un altro carcere insieme ai comunisti, che non avevano soldi per fare la spesa. «Mi dice Nello che l’inverno passato stava molto peggio: speriamo che, avendo più riguardi, possa anche lui rimettersi in salute, ma non vuol comprare medicine e curarsi come dovrebbe... «Ho avuto piacere di riprendere poi lo studio dell’economia e le discussioni con Fancello e gli altri due...». Il 3 settembre aggiorna la madre sulle condizioni di salute del compagno e sulle attività di studio (ed anche quelle semiserie) in cella. Il compagno sardo ruba la scena agli altri: «Fancello sta meglio. Tutti i giorni ci legge forte per un paio d’ore una storia moderna di Europa in francese, frammischiandoci considerazioni di tutti i generi, non escluse le burlesche. Noi lo canzoniamo perché, quando ripete quel che ha letto, non ricordandosi bene, per prendere tempo, attribuisce a un buscherio di personaggi e di avvenimenti la qualifica di “famoso”, mentre spesso si tratta di avvenimenti e di personaggi di cui sentiamo parlare per la prima volta: il famoso Dupin... il famoso sciopero del 34... il famoso decreto ecc. «Quando poi uno ripete qualche storia che ha già raccontata c’è subito chi, ricollegandosi ad una storiella della Collana Rosa di Roberto chiede: “Di’ un po’, Giulio, fa vedere il registro” e poi sfogliando una qualsiasi rivista mentre lui legge le notizie dei fatti alle diverse date in cui si è già sentita la storia: 18, 23 giugno, 2 novembre. «Il povero Fancello non si azzarda ormai più a raccontare qualcosa senza prima metter le mani avanti per assicurarsi, dato che è presso a poco smemorato come me, che la storia è ancora inedita. Pur avendo 52 anni, Fancello sta allo scherzo come un ragazzo ed è il primo a ridere con delle risate di cuore che gli scoprono le gengive, come un cavallo. Ed anche lui ne ha dovute sopportare delle disgrazie, nella sua famiglia! Mi raccontava giorni fa...». Ed è qui il triste riepilogo delle vicende di malattia del padre, di una sorella e di un fratello, e dei lutti domestici, ad iniziare da quell’altro fratello caduto in battaglia... Conclusione: «Come vedi anche la sua è una famiglia abbastanza “provata dal Signore”. Eppure è rimasto ottimista e continua a dire che – malgrado tutto – la vita mette conto d’essere vissuta, e, se dovesse ricominciare, non rifiuterebbe di prendere il biglietto d’ingresso. E’ questa per me una cosa proprio straordinaria, inspiegabile, considerando specialmente che – anche lui – non è affatto religioso, e quindi manca del primo arpione – la Divinità – a cui attaccare la catena delle deduzioni necessarie per dare un’apparenza di giustificazione a quel che siamo e a quel che vediamo nel mondo, attorno a noi». Da qualche settimana al terzetto Fancello-Rossi-Traquandi si è aggiunto l’anarchico veronese Domaschi, meccanico di professione, già detenuto a Piacenza. Tornano, il 28 dello stesso mese le cronache “colte” destinate alla madre: «Per parecchi mesi non avrò più bisogno di comprare libri perché ho da leggere quelli di Fancello. Ho principiato proprio ieri la sua Démocratie en Amérique del Tocqueville, poi avrò La grammatica di politica del Laski, la Storia della grandezza e decadenza di Roma del Ferrero, la inchiesta sull’Italia meridionale e molti altri libri interessanti; in più ho due miei libri che tengo di riserva, le riviste, e la biblioteca speciale... Peccato che, senza possibilità di prendere qualche appunto, si profitti poco della lettura, specialmente avendo poca memoria come l’ho io... «In tutti gli altri carceri (...) sono già da un anno, o più, in funzione delle “Stanze di studio” dove i detenuti, anche politici, che sanno leggere e scrivere, vanno a turno per un paio di ore al giorno, trovando tutto il necessario per scrivere. Questa “stanza di studio” era già pronta a Piacenza quando fui trasferito, e già era in funzione a Civitavecchia, dove era Fancello o negli altri carceri. Perché “Regina Coeli” deve essere esclusa da un tale beneficio? Se non vogliono darci da scrivere in cella – e nota che la lettera, a differenza degli altri carceri, la scriviamo proprio nella nostra cella – potrebbero consentircelo quando siamo in compagnia...». Non è, in verità, che manchi la spiegazione alla... anomalia, né Rossi può ignorarla: gli è che il gruppo tutto intero (Bauer, Calace, Domaschi, Fancello, Roberto, Rossi: Traquandi, giunto al fine pena, è appena stato spedito al confino) viene ritenuto “irriducibile” e “pericolosissimo”, alla ricerca continua di vie di comunicazione con l’esterno, in vista di evadere dal carcere... Poco oltre aggiunge: «abbiamo tutti riscontrato una straordinaria somiglianza fra il ministro rumeno Titulesku (mi pare) e Fancello (...). Fancello è solo meno grosso ed ha la fronte un po’ più bassa e sfuggente». Completerà le sue considerazioni scrivendo alla moglie il 19 ottobre: «In questi ultimi giorni abbiamo letto insieme una parte del libro del Laski. Impressione generale disastrosa tanto che non ce la sentiamo di andare avanti. Mancanza di rigore logico, chiacchierone. Ed ho fatto tanto per averlo! Anzi il peggio è che, avendo io comprato il Pigou ed il Melzi, consigliai a Fancello di acquistarlo, e adesso ho anche il rimorso di avergli fatto spendere così male 50 lire». Manca più d’un anno al fine pena (dimezzato grazie al beneficio del decennale della marcia su Roma) e gli interessati – Calace, Roberto e Fancello stesso – già fanno il conto “del soldato”: «... tredici mesi si guardano ad occhio nudo. Posson già pensare alla valigia. Fancello che è nelle loro stesse condizioni può anche risparmiarsi quel pensiero perché è a casa. Se pure... ma i se lasciamoli perdere...», scrive il 28 settembre 1934. Notizie novembrine. Il 9, alla madre: «Ieri ci hanno dato il panciotto (nuovo!)... Giorni fa Domaschi e Fancello non ritrovavano i loro berretti, e la guardia andò trionfante a prenderli nella mia cella dove li avevo portati, sgravando senza accorgermi la mia gobba». E il 16, alla moglie: «Il colloquio, così com’è, è così poca soddisfazione che credo anche tu ti debba trovare diverse volte con la bocca più amara dopo il colloquio che prima. Per questo Fancello – che pure ha la famiglia a Roma – ha proibito a sua mamma di venirlo a trovare, e preferisce di vedere solo la sorella. Ci vuol pazienza». A dicembre, entrambe le volte alla madre. Il 5: «Siamo stati per cinque giorni divisi in tre gruppi di due, e questa disposizione ci aveva molto preoccupati, anche perché rendeva più difficili i nostri studi, impedendoci di usufruire dei vocabolari, dei libri e delle riviste, come facevamo prima. Oggi però siamo stati rimessi in due gruppi. Ho cambiato compagnia di nuovo. Ora sono con Calace e Roberto. Mi dispiace di aver così dovuto interrompere lo studio della storia, dell’economia e della matematica che facevo con Fancello. Avevo anche cominciato la sua Storia della grandezza e della decadenza di Roma del Ferrero, e mi è toccato interromperlo dopo il primo volume, perché Fancello si è portato con sé il seguito. Proverò a fare una domandina per avere gli altri volumi in lettura, se Fancello non tornerà con me – come spero – al posto di Roberto, che desidererebbe continuare lo studio del tedesco con Riccardo». E il 14: «Ho già fatto domanda per 120 lire di libri d’economia, che m’interessano”... Calace studia molto, anche troppo, fino a notte tarda, sicché poi ha sempre gli occhi stanchi, ma quasi esclusivamente libri d’ingegneria; ho quindi meno argomenti da discutere con lui di quanti ne avessi con Fancello, che ha sempre una buona preparazione in economia. Fancello, malgrado sia il più vecchio, è quello che ha lo spirito più giovane: veramente nulla di quel ch’è umano gli è estraneo». Sono i giorni in cui le clandestine registrazioni ambientali della polizia fascista rubano al loro privato le pur pacate discussioni dei detenuti, che si lamentano per il mancato recapito della corrispondenza ai propri familiari. E’ capitato anche a Rossi. Fancello chiede: «ma perché l’hanno sequestrata, cosa avevi scritto?». Alla scomposizione e ricomposizione dei gruppi di cella fa riferimento lo stesso Fancello scrivendo a sua madre il 7 dicembre: «Sono tornato in compagnia di tre (me compreso). Ma ho mutato uno dei compagni; né avrei da dolermene perché l’uno vale l’altro. Mi spiace solo di aver dovuto così interrompere lo studio di alcuni libri di economia che mi interessavano. Pazienza! Ora approfitterò di alcuni ottimi libri di Bauer, che è il nuovo compagno, ottimo compagno sotto ogni riguardo...». Nei primi due mesi del 1935 (11 gennaio e 1° febbraio, alla madre) Rossi riferisce, con espressiva cordialità, delle diverse sensibilità anche culturali e sociali dei suoi compagni e delle attività di studio che procedono, riempiendo le giornate ed affinando i saperi dei partecipanti. Scrive: «Riccardo, per me, vive troppo nel mondo astratto delle idee: ha scarso calore di simpatia umana, e quindi sente vivamente il problema della libertà – come condizione indispensabile per la vita del pensiero – ma sente poco il problema della giustizia. Fancello, e gli altri in generale, non vedono l’inconciliabilità dei fini che si propongono di raggiungere contemporaneamente, perché il sentimento è così forte che offusca le loro facoltà critiche». «Avendo voluto riprendere lo studio della matematica, per profittare dell’aiuto di Calace, abbiamo incominciato dai primi elementi per cercare di portare al mio livello anche Roberto, ma, dopo un paio di settimane, questi ha rinunciato, perché lo sforzo era troppo grave ed avrebbe richiesto troppo tempo. Così, da diversi giorni, lui se ne sta solo, la mattina, nella sua cella a studiare il tedesco, ed io vado avanti nella matematica con Calace. Il pomeriggio facciamo tutti insieme lettura e grammatica inglese. Ma spero che il Direttore ci vorrà concedere il passaggio di Roberto nell’altra cella, dove potrà continuare lo studio del tedesco con Bauer, al posto di Fancello che ha pure gran desiderio di imparare la matematica con Calace ed è al mio stesso livello». Il 1° e il 15 febbraio, a Pig: «Roberto ha scritto, due settimane fa, al Direttore, chiedendogli di passare nell’altra cella al posto di Fancello, che verrebbe in compagnia mia e di Calace per continuare lo studio della matematica. Altrimenti ci toccherà sospenderlo nuovamente perché Roberto si annoia a stare solo in cella la mattina a studiare per suo conto il tedesco». Il 22 febbraio alla madre racconta lo svolgimento ordinario della giornata in cattività. E’, sostanzialmente, anche la giornata tipo di Francesco Fancello, ancora bloccato nell’altra cella, ancora con Bauer e Domaschi: «La campanella della sveglia suona tanto d’estate quanto d’inverno alle 6,30... «Dopo una decina di minuti dalla sveglia, il “superiore” (...) apre la porta per la “pulizia”. Metto fuori il bugliolo e la spazzatura (...). qui abbiamo segatura in abbondanza e possiamo asciugar bene il pavimento. Riaprono la porta e ritiro il bugliolo vuoto. Dopo un po’, dallo sportello, lo scopino (...) mi dà l’acqua. Riempio la brocca (da diversi mesi abbiamo una bella brocca in smalto bianco), il catino, la tazza e la gavetta (è tutto d’alluminio). Disfo il letto, piego in due il paglione e sopra ci metto tutte le coperte. Dò una buona scopatina per terra e pulisco (...) il pentolino, in cui faccio riscaldare il latte la sera (...). Entrano il “sottocapo” e la guardia che batte i ferri alla finestra. Poi c’è il “passeggio”, se il nostro turno è la mattina: altrimenti andiamo a “passeggio” alle 13,30. Tutte le volte che si esce o si rientra in cella, il “superiore” ci dà una tastatina per accertarsi che non portiamo indosso né rivoltelle, né pugnali, né altri oggetti proibiti. Dò il buon giorno al sorridente occhialuto Roberto ed all’ingrugnito occhialuto Calace, scendiamo i sette od otto gradini (pochi siamo a pianterreno) ed entriamo in un cortiletto. I cortiletti sono della forma compresa fra i raggi d’una ruota: al centro – invece del mozzo – c’è una torretta, con sopra il “superiore” a sorvegliare, e un altro gira tutt’intorno al tamburo (...). Il pavimento è in cemento, sicché, quando non è bagnato, giochiamo con le noccioline (...). «Dopo un’ora di “passeggio”, torniamo in cella – altra tastatina –, prendiamo gli sgabelli ed andiamo in “compagnia”, in un’altra cella ch’è senza branda e con un tavolino. Io studio con Calace un po’ di matematica e Roberto cerca di fare per suo conto un po’ di tedesco (... ancora non abbiamo avuto risposta alla domanda per il trasferimento di Roberto al posto di Fancello). Vien la guardia della spesa e segniamo i viveri che vogliamo acquistare per il giorno dopo. Alle 11,30 suona la “sboba”, e torniamo nelle nostre celle: altra tastatina. Il pane è buono; la minestra discreta. La domenica c’è la minestra con carne, ma tanto il brodo quanto la carne valgon poco... L’elenco dei generi che si possono avere per nostro conto è molto più variato che nelle altre carceri, e c’è sempre anche la frutta (...). «Dopo mangiato, lavo la gavetta, dò una scopatina per terra e leggo qualche giornale o rivista. Alle 13,30 – se non ci tocca il passeggio – nuova tastatina e in compagnia. Facciamo spesso una partita a scacchi, e poi grammatica e lettura d’inglese. Discutiamo e camminiamo un po’ su e giù, ed alle 14,30 rientriamo nelle nostre celle, dopo un’ultima tastatina. Il sottocapo ha già fatto la seconda visita, facendo battere di nuovo tutti i ferri. Riscaldo un altro mezzo litro di latte e mi pappo quel che non è andato sul pavimento (...). Faccio una buona passeggiata dopo cena (sessanta volte i cinque passi in giù, e sessanta i cinque passi in su per la cella), poi m’accomodo per benino sulla branda (..). Sotto, le coperte ripiegate; dietro la schiena, il pagliericcio; sulle gambe, il cappotto. Poiché la lampadina è troppo debole, vicino alla branda metto lo sgabello con sopra la brocca, con sopra la tazza, con sopra il pentolino, con sopra il bicchiere, con sopra la candela accesa (...). Queste sono le ore di lettura più fruttuose: c’è silenzio (...). «La campanella per andare a dormire, quando le giornate son le più corte, suona alle 18,30. Adesso alle 19, e ritarda poi sempre di più fino alle 20,30 (...). Alle 20 faccio la branda, mi metto tutta la piramide con la candela dietro la testa e m’infilo sotto le lenzuola. Abbiamo tre buone coperte da militare ed anche la federa del cuscino (...). Continuo a leggere per un paio d’ore. Alle 21 passa la terza visita il sottocapo, con la guardia che va di nuovo ad accertarsi che non abbiamo portato via nessun pezzetto dell’inferriata. Delle altre due visite notturne, una verso le 24 ed una verso le 3, ora che mi sono abituato neppure mi accorgo. Spenta la candela, mi tiro la berretta sugli occhi contro la luce della lampadina ch’è nel soffitto, auguro mentalmente la buona notte alle persone che ho più care, vive e morte, e m’addormento.... «Ogni tanto c’è la perquisizione generale. Al ritorno in cella, troviamo tutto in subbuglio: la biancheria ammonticchiata con i lenzuoli e le coperte, i libri e le lettere sottosopra, le carte sulle mensole tolte ecc. Dobbiamo svestirci, e il “superiore” esamina accuratamente ogni capo di biancheria, il vestito, il berretto...». Il 1° marzo, ancora alla madre, ed a fine aprile alla moglie, ragguaglia sulla composizione del gruppo: «Ancora non abbiamo avuto risposta alla nostra richiesta del passaggio di Fancello al posto di Roberto». «Ancora non abbiamo avuto risposta alla nostra domanda di passaggio di Fancello al posto di Roberto, per lo studio della matematica». Il 25 aprile riferisce alla moglie di aver trascorso alcune ore, quasi divertenti, nella “plenaria” – Bauer, Calace, Domaschi, Fancello, Roberto e lui stesso – per festeggiare la Pasqua: «A Pasqua abbiamo cenato insieme tutti e sei. Siamo stati spiacenti di avere avuto il permesso solo dalle 11 alle 15, invece che dalle 9 alle 16, come le altre volte: malgrado le nostre insistenze – poiché non si riesciva a vedere una ragione di ciò – non abbiamo ottenuto niente di più, ed abbiamo dovuto contentarci. Quando ci siamo ritrovati il nervoso è subito passato ed abbiamo passate quattro ore allegramente. Riccardo ci ha dette le sue due ultime businate molto divertenti. Peccato non possa scriverle. Ormai potrebbe comporre un Canzoniere in dialetto meneghino. Avevamo composto anche noi una filastrocca illustrata sulle bellicose avventure di Domaschi, che ha avuto molto successo». Bis il 28 ottobre, tredicesimo anniversario della fatidica marcia romana. Ne riferisce in una lettera alla madre del 1° novembre: «Lunedì siamo stati in compagnia tutti ed abbiamo mangiato anche insieme, come ci è stato sempre concesso nelle grandi feste, cioè nelle cinque feste in cui viene distribuita la pasta asciutta a tutti i carcerati. Abbiamo fatto onore ai tre piccioni che ci hai mandati e ai dolci della Rina. Anche Riccardo aveva ricevuto il pacco in tempo. La giornata è passata in un batti baleno in vivacissime discussioni ed in scherzi, divisi come eravamo nel gruppo dei “definitivi”, con la testa rapata e il vestito scuro di panno, e il gruppo dei “liberandi”, chiomati e con la tenuta ancora estiva, di cotone bianco, tipo manicomio. E l’un gruppo ha ripetutamente salutato a comando, col gesto e con la voce, l’altro gruppo, in perfetta forma. «L’ultima volta che eravamo stati insieme avevamo illustrato e cantato le gesta eroiche di Domaschi, e con una commovente cerimonia l’avevamo decorato con una splendida decorazione, fatta con foglietti colorati di stagnole da cioccolatini, da fare invidia al più ambizioso generale balcanico... «Non avendo ricevuto ancora alcuna comunicazione riguardo alla loro sorte, le previsioni dei tre “liberandi” erano piuttosto ottimiste lunedì. Se ci fosse stata l’intenzione di iniziare un procedimento davanti alla Commissione per il confino, così come fu fatto l’anno scorso per Traquandi, sembrava a tutti che non avrebbero consegnato il foglio per i tre anni di sorveglianza ed avrebbero fatto sapere qualcosa prima dell’ultimo giorno, perché devono passare venti giorni fra la denuncia alla Commissione e la sua decisione, né c’era alcun motivo per trattenerli in galera in più del periodo fissato per scontare la pena. Il più fiducioso era Fancello che aveva visto il giorno prima la sorella ed aveva avute precise assicurazioni. Martedì però è stato loro comunicato che erano “a disposizione del ministero degli interni”, cioè della P.S. Poi gli han dato la divisa invernale. Fino a mezzogiorno di oggi, venerdì, non si è saputo altro, sicché mi pare che le cose si mettano assai male... Puoi immaginare in che ansia devono stare le loro famiglie...». Scrive Burattino di Mariano... Della dubbia imminenza della scarcerazione di Fancello, Calace e Roberto ha scritto già l’11 ottobre alla madre: «Se avessi potuto stare con Fancello, avrei profittato molto di più della compagnia di Calace, ed anche Calace non sarebbe stato costretto ad assistere alle interminabili partite a scacchi che gioco con Roberto.... «Prima della fine del mese Roberto, Calace e Fancello se ne andranno, e io credo che tornerò in compagnia con Riccardo e Domaschi...». E l’8 novembre ritorna sull’argomento, accompagnando lo scritto con un gustoso schizzo caricaturale: «Eccoti intanto Roberto, Fancello e Calace che cantano, come girls, la canzone canzonatoria che ho composto in loro onore. Peccato che non sappia scriverti la musica: altrimenti credo che diverrebbe più popolare di “Ramona”. La prima volta che l’ho cantata è accorsa la guardia a interrompermi, credendo che mi fossi avvelenato. Un successone! “Trascorso il tempo è giàààà Vorremmo saper perchéééé Non siamo in libertàààà Né alcun motivo c’èèèè No, proprio, ciò non vàààà Scontata la pena, ahimèèèè Ci tengono ancora quàààà A far non si sa chéééé”. «Sono ormai undici giorni che quei tre sono a disposizione della P.S., e ancora non sanno niente... Hanno detto loro che ancora non era stato deciso niente, ma han fatto intendere che facilmente li avrebbero mandati al confino, vicino a Napoli. A Ponza anche loro, dunque». L’attesa si protrae e non può essere coperto dallo scherzo. Fancello, Calace e Roberto protestano, e protestano nel solo modo che è nel proprio dominio: astenendosi dal cibo. Ne riferirà l’edizione parigina dell’Avanti! socialista. E un rapporto di polizia registra: «In occasione di un colloquio avuto il 28 novembre u.s., nelle carceri di Regina Coeli, dal detenuto politico Prof. Ernesto Rossi con la madre Verardi Elide – che è stato possibile intercettare a mezzo del noto sistema – il Rossi ha dato incarico alla madre d’informare loro amici fuoriusciti circa il cosidetto sciopero della fame, fatto per alcuni giorni dai condetenuti Roberto Bernardino, Calace Vincenzo e Fancello Francesco (...). Evidentemente la Verardi ha provveduto ad inviare la comunicazione di che trattasi, poiché essa è riportata nell’unito stelloncino stralciato dal n. 49 dell’“Avanti” ed. a Parigi in data 14 corr.». Il trasferimento dal carcere al confino – l’isola di Ponza – avverrà a dicembre inoltrato. Deliberato dalla Commissione per l’assegnazione il 3 dicembre, ancora il 6 dicembre la cosa non è avvenuta, se Rossi può scrivere alla madre: «Riccardo aspetta che se ne siano andati via i tre “liberandi” per passare nella cella di Roberto, come gli è stato promesso...». La separazione è piena di commozione: «Ci siamo riabbracciati con una certa commozione; chi sa quando potremo rivederci ancora, e questi ultimi due anni di vita comune hanno aumentato il nostro affetto e la nostra stima reciproca. Non credo sia cosa che capiti molto spesso fra gli uomini», riferisce Rossi nella sua consueta lettera settimanale, questa del 13 dicembre. E il 27, dicendo del Natale: «Quando si è sparato il cannone abbiamo brindato alla salute dei quattro amici che sono a Ponza, sicuri che nello stesso momento essi brindavano alla nostra salute, come eravamo rimasti d’accordo quando ci siamo accomiatati». Per Fancello – nome in codice “Mariano” nella corrispondenza clandestina inviata a Lussu nell’esilio parigino – si è aperta dunque una nuova fase della punizione per... lesa dittatura. Il suo nome tornerà ancora, però, nella corrispondenza familiare (alla madre) dell’antico e straordinario compagno di detenzione, pure lui riclassificato nell’anagrafe rivoluzionaria col nome di “Burattino”. Avviene in tre circostanze diverse: il 18 settembre 1936 per un consiglio bibliografico da girare ai confinati; il 26 dicembre dello stesso anno per certificare il rispettato impegno a festeggiare il Natale con il più classico dei brindisi alla salute (nello stesso preciso istante Fancello, Calace, Domaschi e Roberto – anch’essi fedeli al patto stipulato al momento della separazione del “collettivo” di Regina Coeli – brindano agli amici “romani”) ; il 20 e 22 ottobre di tre anni dopo – il 1939 – nella imminenza del suo fine pena e dell’assegnazione (triennale) al confino di Ventotene, dove anche Fancello sta per andare, dopo ... Ponza. Ecco la successione dei richiami in carteggio: «La prima parte del libro che sto leggendo pone i diversi problemi proprio come li ponevo io per mio conto, e mi conferma in molte mie idee, chiarendole e precisandole. Consiglia a Nello e a Placido di leggerlo. S’intitola Collectivist economic planning by Von Hayek (Routledge-London – 1935). Fai dire anche a Fancello e a Roberto che lo comprino. E’ molto interessante». «Ieri abbiamo passata una buona giornata, abbiamo ricordato i nostri amici e i nostri famigliari, e quando è sparato il cannone di mezzogiorno abbiamo brindato alla loro salute...». «Mi è stato consegnato il foglio col “Decreto di prescrizione” con il quale vengo sottoposto a 3 anni di vigilanza speciale in esecuzione della sentenza del Tribunale Speciale. E’ il foglio che fece nascere tante illusioni a Roberto e a Fancello quando fu loro consegnato, quattro anni fa. «Al maresciallo dei carabinieri che mi ha domandato dove sarei andato uscendo dal carcere, giacché non voleva scrivere sul suo foglio “Ventotene”, ho detto che scrivesse Bergamo, al tuo indirizzo. Non mi meraviglierei quindi che ti venissero a domandare informazioni dalla Questura, come se fosse imminente il mio arrivo. Non ti fare però delle illusioni. Andarono anche diverse volte a casa di Fancello, mentre era qua in attesa del confino, assicurando che alla Questura risultava che Fancello era già stato liberato e avrebbe dovuto essere in famiglia...». Ho accennato agli pseudonimi di “Mariano” e “Burattino”. C’è, al riguardo, almeno un documento (fra quelli editi) che li pone in relazione diretta e personale già prima dell’arresto. E’ in una lettera indirizzata da “Carciofo” – alias Lussu – a Carlo Rosselli ed Alberto Tarchiani (anch’essa è stata pubblicata da Manlio Brigaglia in Emilio Lussu, Lettere a Carlo Rosselli ecc., cit.). Senza data, essa rimonta comunque certamente ai giorni a cavallo fra luglio ed agosto 1930, dunque giusto tre mesi prima della retata che entrambi coinvolgerà. Si tratta delle finanze del movimento spalmato fra l’esilio francese e la clandestinità in Italia. “Mariano” difende una linea di severità nel giro dei fondi, per stornare ogni tentazione allo spreco e peggio ancora all’abuso in chi appare esoso, come il “messicano” già abbondantemente foraggiato. «Mariano propone il richiamo – scrive Lussu –. Ma, prima di decidere, è bene pensarci molto serenamente. Forse i nostri amici esagerano, esasperati di questa sua esasperante richiesta di denaro. Mariano ha parlato con Burattino. B. è d’accordo con lui su tutto, praticamente. Si è mostrato dolente che per la mia regione sia stata stabilita una somma così forte. Che la somma non è stata ancora riscossa; che la riscossione, che avverrà certamente, è un loro sforzo faticoso. Che non potranno dare a Mariano la somma che noi avevamo stabilito». Quasi quattro anni nella colonia confinaria di Ponza Dopo il carcere, il confino; dopo Regina Coeli, Ponza. Dopo l’epistolario familiare di Ernesto Rossi, la principale fonte edita sulla permanenza ponzese è forse il Sandro Pertini: sei condanne, due evasioni. L’arrivo nella colonia, a metà dicembre 1935, segue di tre mesi proprio quello di Pertini, con il militante e dirigente socialista al quale egli, azionista approdato nel PSI verso la fine degli anni ’40, si legherà strettamente, e sul piano personale e su quello politico, per oltre un decennio, alla direzione de Il Lavoro Nuovo di Genova. Il primo atto che anche a lui è riservato è la consegna, da parte del direttore Francesco Coviello, a norma dell’art. 185 del Testo Unico della legge di P.S., della cosiddetta “carta di permanenza” contenente tutte le prescrizioni cui dovrà attenersi, sotto comminatoria di denuncia all’autorità giudiziaria. E dunque ecco il dodecalogo: «1) Darsi a stabile lavoro. «2) Di non allontanarsi dall’abitazione concessagli o consentitagli, senza il preventivo assenso di questa direzione. «3) Di non rincasare la sera più tardi e di non uscire il mattino più presto dell’Orario precisato dall’art. 348 del regolamento per la legge di P.S.. «4) Di non detenere e portare armi proprie o strumenti atti ad offendere. Non detenere o portare ferri di mestiere che rientrano nella categoria di strumenti atti ad offendere senza una esplicita autorizzazione scritta di questa direzione che ne preciserà la quantità e la qualità. «5) Di non frequentare postriboli, osterie od altri esercizi pubblici. «6) Di non frequentare pubbliche riunioni, spettacoli o trattenimenti pubblici. «7) Di tenere buona condotta e non dar luogo a sospetti. «8) Di presentarsi tutti i giorni al capo posto del corpo di guardia “Bagno” alle ore 13 dal 1° novembre al 28 febbraio, alle ore 11 e alle ore 16 dal 1° marzo al 30 aprile e dal 1° settembre al 31 ottobre, ed alle ore 11 e alle ore 17 dal 1° maggio al 31 agosto, per appelli diurni. «9) Non detenere né comunque fare uso di apparecchi per trasmissioni o segnalazioni ottiche-acustiche. «10) Non detenere né comunque usare macchine o congegni per la riproduzione meccanica o chimica dei caratteri, disegni e figure. «11) Portare sempre con sé la carta di permanenza ed esibirla ad ogni richiesta degli uffici ed agenti di forza pubblica. «12) Di non tenere in fitto o comunque di non accedere in abitazioni private. «Letto, confermato e sottoscritto...». Per il ministero dell’Interno, “direzione generale PS, affari generali riservati”, Fancello è inscrivibile nel novero di sei confinati, quattro dei quali di “obbedienza” giellista – Vincenzo Calace, Bernardino Roberto e Nello Traquandi, oltre lui –, uno anarchico – Giovanni Domaschi –, e uno – Pertini – socialista. Fin dalle prime settimane del suo arrivo nell’isola egli è posto, con gli altri, sotto speciale vigilanza («sotto il diretto continuo controllo» del solerte direttore Coviello e «con ogni impegno e avvedutezza» da parte dei collaboratori). Il 22 giugno il ministero reitera alla direzione l’invito di «far eseguire... le misure di prevenzione precedentemente richieste», raccomandando anzi che esse «vengano perfezionate sì da garantire, in maniera assoluta, il conseguimento delle finalità, che ci si propone raggiungere, e principalmente quello di scongiurare la fuga da costà dei predetti». Si tratta, aggiunge il dispaccio ministeriale, inviato anche al casellario politico e centrale ed all’ufficio confino politico, di vigilare per evitare ogni episodio di «corrispondenza furtiva» possibile strumento preparatorio «di una eventuale fuga di tutte le persone di che trattasi», «allontanamento clandestino temuto» che potrebbe essere facilitato «stante l’attuale stagione» dalle «condizioni del mare favorevoli». Raccomandazione bis il 22 settembre successivo: occorre che le già disposte misure di sorveglianza «funzionino efficacemente, per evitare che i predetti possano organizzarsi per fare il benché minimo tentativo al fine di fuggire» e che esse «vengano eseguite in modo continuativo, con personale avveduto e diligente, ed integrate e perfezionate con gli altri mezzi a disposizione di codesto Ufficio». «Ministero dispone vigilanza confronti confinati Roberto, Traquandi, Domaschi, Calace, Fancello et Pertini venga ripristinata subito maniera ininterrotta noti fini giusta precedenti istruzioni», annuncia il telegramma – questo datato 2 ottobre 1936 – del capo della polizia Bocchini al direttore della colonia e per conoscenza al questore di Napoli. A Ponza poi cambia il direttore ed egli, più solerte ancora del suo predecessore, tempesta il ministero, il casellario politico, la questura, di sue informative. Così, per iniziare, il 22 marzo 1937 al casellario politico centrale: «Da fonte confidenziale lo scrivente alcuni giorni addietro venne a conoscenza che i confinati Fancello Francesco, Traquandi Nello, Pertini Alessandro, Roberto Bernardino, Calace Vincenzo, Domaschi Giovanni, diffidati a non associarsi tra loro, avevano manifestato ai compagni di confino il proposito di presentarsi ad un appello serale a braccetto, dando nell’occasione altri segni di fraterna amicizia, come l’abbracciarsi ed il baciarsi. «I predetti, prima di decidersi ad attuare il loro proposito si vollero assicurare dell’adesione e dell’appoggio morale della massa dei confinati. I comunisti, che rappresentano la maggioranza di questi confinati disapprovarono in pieno tale progetto, asserendo che erano passati i tempi per tali manifestazioni, che non possono concludersi che coll’arresto e con l’inasprimento delle prescrizioni. «Il Fancello e il Traquandi e gli altri quattro confinati, non avendo ottenuta la chiesta adesione, si sono astenuti da qualsiasi manifestazione ed hanno abbandonato il loro proposito. «Lo scrivente che in tempo utile era venuto a conoscenza del progetto, aveva predisposto minuziosamente tutti i mezzi necessari ed opportuni per prevenire tali manifestazioni. «Attualmente l’ordine della colonia è normalissimo. Posso tuttavia assicurare che ogni manifestazione del genere, sarebbe in ogni caso prevenuta e energicamente e tempestivamente repressa, secondo le istruzioni impartite da codesto on. ministero e dal sig. ispettore generale comm. Capobianco, al quale ho riferito in proposito». E il 10 maggio dello stesso anno XV E.F., ancora al ministero, al casellario politico, all’ufficio confino politico ed al questore di Napoli: «Stamane mentre confinato politico Pertini Alessandro oggetto precorsa corrispondenza veniva tradotto carabinieri per essere imbarcato piroscafo ore 13 diretto Napoli è stato fermato da noti confinati tra quali Domaschi Giovanni, Roberto Bernardini, Calace Vincenzo, Fancello Francesco che lo hanno abbracciato dicendogli che non lo dimenticheranno. Ho fatto procedere fermo predetti e prego far conoscere ritiensi opportuno denunzia medesimi per contravvenzione speciale prescrizione numero 13 carta permanenza». Lo sviluppo è in una testimonianza (sia pure indiretta, essendo egli ancora recluso a Regina Coeli) di Ernesto Rossi: «Nella primavera del 1936 (recte: 1937), sempre a Ponza, i giellisti Calace, Fancello, Roberto, Traquandi, il socialista Pertini e l’anarchico Domaschi, furono, senza alcuna plausibile ragione, diffidati dal mangiare nella stessa mensa, dal comunicare tra loro in qualsiasi modo, e perfino di salutarsi quando si incontravano per strada. Questi divieti vennero aggiunti a mano alle altre prescrizioni stampate sulla loro “libretta”. Tutti i reclami al ministero e all’ispettore riuscirono vani. Anzi, fu in quell’occasione che l’ispettore Capobianchi fece arrestare Sandro Pertini, perché era andato, per la seconda volta, a protestare. Mentre Pertini veniva condotto dal carcere al porto, ammanettato dai carabinieri, i cinque suoi compagni diffidati gli si avvicinarono, lo abbracciarono e gli espressero la loro solidarietà. Vennero subito, anche loro, arrestati e tradotti al carcere di Napoli, dove furono trattenuti un paio di mesi “a disposizione della PS”, insieme con Pertini». Della permanenza isolana di Fancello è rimasta traccia in diverse testimonianze raccolte in volume di Celso Ghini e Adriano Dal Pont, con prefazione di Umberto Terracini, Gli antifascisti al confino 1926 – 1943, Roma, EE. RR., 1971 (a cui è da riportarsi anche quella di Rossi). Fra esse, a mo’ di rapido richiamo, bastino quelle di due compagni, i comunisti Mario Pianesi (marchigiano, venticinquenne nel 1935) e Pietro Grifone (economista romano, anch’egli giovanissimo: 27 anni nel 1935). Il primo ricorda Fancello nel gruppo “di mensa” dei giellisti (con Calace, Traquandi, ecc. e v’include lo stesso Pertini), un gruppo che non aveva rinunciato a chiedere a quello comunista il “prestito” del suo miglior cuoco, Vincenzo Cabascia. Il secondo, su un piano più serio, ricorda Fancello (insieme con Calace e Pertini) discutere approfonditamente e con vivacità alcune tesi sostenute nel saggio “Quota 90” da Grifone steso in cattività per la clandestina rivista politico-culturale manoscritta («talvolta riprodotta in più copie da abili, pazienti copisti»). E lo ricorda, con Calace e Pertini, soprattutto, e poi dopo anche con Rossi, Bauer e Colorni, nello scambio frequente d’ordine culturale: «Di grande utilità, anche scientifica, fu per me il contatto assiduo, il fraterno dibattito e il confronto di idee che intrattenni con i compagni degli altri partiti antifascisti...». Nuovo scenario, quello di Ventotene Datato 8 luglio 1939, giunge al direttore della colonia confinaria e, per conoscenza, al prefetto di Littoria, il seguente telegramma: «Confino politico. Dei confinati pericolosi che verranno trasferiti da Ponza at Ventotene, i seguenti dovranno essere pedinati ininterrottamente perché pericolosissimi: Terracini Umberto, Scoccimarro Mauro, Secchia Pietro, Calace Vincenzo, Domaschi G. Battista, Fancello Francesco, Pertini Alessandro, Traquandi Nello et Roberto Bernardino. Assicurate». Scrive Alberto Jacometti nel suo Ventotene: «Tra la massa degli ottocento confinanti ce n’è una dozzina che godono una posizione speciale. Questa: d’aver un milite addetto alla loro persona... Un milite che li sorveglia dalla mattina alla sera, che li segue a un metro di distanza... Sono in questa posizione tutti gli uomini del processo degli intellettuali: Rossi, Bauer, Fancello, Roberto, Traquandi, Calace, tre del processone: Terracini, Secchia, Scoccimarro, l’anarchico Domaschi, il socialista Pertini». I primi dell’elenco, Rossi e Bauer – i cari Ernesto Rossi e Riccardo Bauer – raggiungeranno Ventotene a metà novembre 1939, e Fancello è chiamato a dividere la stanza proprio con uno dei due, con «Esto» precisamente, come si firma il suo compagno “biografo carcerario”. La migliore testimonianza sulla quotidianità di Ventotene è forse quella di Jacometti (giovane di 24 anni, socialista, egli scrive il suo Ventotene, all’indomani della liberazione dalla detenzione confinaria, fra agosto e settembre 1943). Il nome di Fancello, nel gran numero degli ottocento, ricorre più volte nel testo del testimone confinato. Ad iniziare dalla caratterizzazione degli aggregati “politici”: comunisti, socialisti, dissidenti comunisti, anarchici, federalisti e, appunto, GL: «Il gruppo di Giustizia e Libertà, forse il più piccolo di tutti, deve il suo prestigio al valore personale degli uomini che lo compongono. Si tratta di Bauer, Fancello, Calace, Traquandi, tutti arrestati nel 1930, tutti condannati dal Tribunale Speciale in quei due processi che tanta eco ebbero in Italia e all’estero e che servirono a portare alla ribalta il vivacissimo movimento fondato da Carlo Rosselli». (Rossi è classificato fra i federalisti, «il solo gruppo nato al confino. Alcuni suoi elementi provengono da Giustizia e Libertà – come Rossi, Roberto e Giussani – altri dal dissidentismo comunista – Spinelli –, altri dagli anarchici o dai repubblicani». E a proposito di federalismo: in una sapida lettera datata 23 febbraio 1947 indirizzata a Salvemini, così scriverà Rossi: «Ma dal fascismo non era possibile liberarci altro che con metodi rivoluzionari, cioè imponendo alla maggioranza degli italiani quelle soluzioni che avrebbero permesso, a distanza di tempo, una ripresa della vita democratica. Questo Spinelli ed io vedevamo ben chiaro quando, a Ventotene, scrivevamo insieme il manifesto del Movimento federalista europeo. E per averlo sostenuto ci urtammo con Bauer, Fancello, Traquandi, Calace e gli altri astratti dottrinari che considerando il metodo democratico un fine ultimo, invece che uno strumento per il raggiungimento dei fini, ci accusarono di neo-fascismo». (Cfr. Gaetano Salvemini, Lettere dall’America 1947/1949, Bari, Laterza, 1968). Bello è anche il ritratto, in simbiosi con quello di Bauer, che ne fa Jacometti: «Due altri capi di GeL. La prigione ha ancora questo di particolare: se non l’ammazza in pochi anni di tisi, la prigione ti conserva l’uomo. Basta guardare Rossi, Spinelli, Terracini, tutti dimostrano cinque o sei anni di meno del vero. In Bauer e Fancello il fenomeno è ancora più spiccato. Fancello, vicino alla sessantina, ha l’agilità di un uomo di trenta, Bauer la freschezza della carne e il colorito di un venticinquenne. Dottore in legge (se non sbaglio) il primo e già esponente del movimento sindacalista, dottore in scienze economiche e commerciali l’altro, datisi entrambi agli studi filosofici e storici, passati attraverso l’orbita crociana, si sono ritrovati, in carcere prima e quindi al confino, così spiritualmente vicini da formare un esempio tipico della collaborazione intellettuale e pratica di due uomini per altri sensi assai differenti. Più sfumato, più in chiaroscuro Fancello, più preciso, direi quasi roccioso, Bauer. Hanno fatto qui, separati dal mondo, la stessa evoluzione che il partito fondato da Carlo Rosselli ha fatto in Francia». Dalla quotidianità più ordinaria un flash estivo, di mezza mattina: i confinati sono sparsi per il chilometro quadrato quant’è grande l’isolotto, quelli a godersi il sole, quegli altri verso il pollaio, taluni sul muricciuolo in vista di Santo Stefano, tal’altri in piazza o nella piazzola del porto; c’è chi ha un libro in mano, e chi chiacchiera; c’è chi, mezzo nudo per il gran caldo, resta nel camerone, e chi va su e giù e poi s’accoccola su uno sballino; numerosi i lettori, davanti ai dormitoi e sui muretti marginali dei terrazzi, ma gli «studiosi seri» sono come in assemblea «su quel triangolo di terra compreso fra l’infermeria, il padiglione delle donne e il mare»: Rossi, Spinelli, Giussani, la Ravera... «C’è, appoggiato contro il muro, Fancello che impartisce una lezione di latino alla piccola Baroncini» (dovrebbe trattarsi di Maria, decenne nel 1942, sorella minore della più nota Nella, comunista). Particolarmente bella è la testimonianza che Fancello stesso lascia del suo quadriennio trascorso a Ventotene (cfr. Gli antifascisti al confino, cit.). Il primo ricordo è di «un giovane eritreo dal più puro profilo mediterraneo, ma dal color cioccolato»: Minghistù. Figlio di un notabile «fedelissimo all’Italia», che in Italia lo aveva cresciuto, studente laureando in ingegneria almeno fino a che «il regime, rinnegando le smancerie di “faccetta nera” per assumere la mutria imperiale, lo aveva assegnato al confino come infido suddito coloniale», la sua vita «era resa particolarmente dura dalle “attenzioni” di cui era oggetto preferito da parte di poliziotti e di militi, i quali, ispirandosi evidentemente alle direttive di arroganza razziale che venivano dall’alto, si facevano lecito con lui quello che non si permettevano con gli altri... Tra le altre persecuzioni, il “moro” dovette subire quella derivante dalla intimazione del saluto romano...». Il 25 luglio 1943 il Gran Consiglio sfiducia Mussolini ed il re gli revoca la guida del governo, ordinando il suo arresto. La notizia giunge l’indomani nell’isola. Racconterà Pertini: «La mattina del 26 luglio 1943 stavo passeggiando con l’amico Fundo lungo i cameroni dei confinati quando notammo che i militi in camicia nera, invece di sorvegliarmi, come facevano di consueto, parlavano concitatamente fra di loro. Apparivano costernati: “Ma che cosa sarà accaduto?” ci dicemmo. Improvvisamente dai cameroni uscirono a gruppi e frettolosi i confinati. Tutti si diressero verso una piazzetta, ove di solito si udiva la radio. Li seguimmo. La piazzetta era gremita di confinati. Erano le 8. Udimmo scandire il segnale orario. Un breve silenzio e poi lo speaker diede lettura del famoso comunicato: “Sua maestà il re e imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di capo del governo, primo ministro segretario di Stato, presentate da S.E. il cavaliere Benito Mussolini...”. Un confinato gridò “Viva l’Italia libera”. Applaudimmo e ritornammo verso i cameroni. Strano quello che subentrò in noi... «Avvicinai Fancello, Scoccimarro, Spinelli, Secchia, Lazar Fundo ed altri: bisognava costituire subito un comitato che prendesse nelle sue mani la colonia dei confinati, circa ottocentocinquanta. Costituito il comitato ci recammo dal direttore della colonia, commissario Guida, e chiedemmo di parlargli. Ci ricevette pallido in volto. Notai che il ritratto di Mussolini era scomparso dalla parete. Vi era ancora quello del re. Egli subito pensò che fossimo andati per arrestarlo. Ma noi ci limitammo a presentare alcune richieste: «1) La direzione della colonia doveva restare praticamente nelle mani del comitato. «2) Doveva immediatamente cessare il pedinamento, cui per opera della milizia erano sottoposti alcuni di noi (Terracini, Bauer, Fancello, Pertini, Scoccimarro). «3) La milizia non doveva più farsi vedere in camicia nera, dato che era stata incorporata nell’esercito. «4) Egli doveva intervenire presso il ministero Interni, perché al più presto si provvedesse alla liberazione di tutti i confinati. In questo senso il comitato inviò, il 31 luglio, un telegramma al capo del governo: “Confinati internati Ventotene chiedono essere informati loro liberazione e domandano immediato ripristino mezzi trasporto. Francesco Fancello, Mauro Scoccimarro, Pietro Secchia, Alessandro Pertini, Giovanni Domaschi, Altiero Spinelli, Lazar Fundo, Antonio Babich, Antonio Francovich. Ventotene». Sono quelli stessi – pressoché tutti (Fancello sempre primo firmatario) – che il 29 luglio (7 agosto in Sandro Pertini..., cit.) inviano un telegramma al maresciallo Badoglio, nuovo capo del governo: «Confinati et internati isola Ventotene nell’atto in cui ingloriosamente precipita tra l’esecrazione del popolo e sotto le rovine di una guerra disastrosa il regime fascista che ha segregato dalla vita nazionale migliaia di cittadini italiani tetragoni alla suggestione del dispotismo ed ha relegato gli stranieri rei di aver difeso la loro patria dall’attacco dell’aggressione mentre rivendicano tutti i motivi di libertà istituzionale sociale e nazionale che così han fermamente difeso nelle galere nel confino e nell’esilio ed auspicano inserimento dell’Italia nel quadro di una libera Europa reclamano immediata liberazione condannati e relegati politici come automatica conseguenza della soppressione del regime fascista». Datato 2 agosto, un telegramma parte dalla direzione della colonia alla volta del ministero: «Pregasi telegrafare se debbono essere liberati seguenti confinati politici di rilievo: Fancello Francesco fu Pietro, Pertini, Bernardino fu Felice, Jacometti Alberto fu Giuseppe, Traquandi Nello fu Francesco, Tettamanti Battista fu Giovanni». Anche Jacometti fornisce una descrizione minuziosa dei vari passaggi seguiti dalla trattative allacciate dal comitato con la direzione della colonia confinaria. Eccone alcuni stralci: «Il 3 (agosto) mattino finalmente giunge un telegramma di Rossi: è fuori, a Firenze (era stato prelevato e portato a Roma verso i primi di luglio insieme con Bauer e Calace senza che se ne fosse mai saputo il perché (...). «Il direttore finalmente si sbottona: “Si, da Roma è venuto qualche cosa... E’ venuta la domanda di preparare tre liste di confinati distinti in: anarchici, comunisti, antifascisti generici” (...). «“C’è dunque la discriminazione!”. «“Una discriminazione c’è certamente; resteranno quelli dei reati annonari e di valuta, i sospetti di spionaggio... Ho preparato le liste e ho domandato alcune spiegazioni: i socialisti, per esempio, sono comunisti o antifascisti generici?”. «Ahi! Ahi! Quanti andranno via? Giustizia e Libertà, i manciuriani, qualcuno che passerà per il rotto della cuffia, il grosso resterà. Quando il confino viene a sapere questo, si mette a ribollire. Una turlupinatura! E’ questa la giustizia di Badoglio? (...). La Commissione prende in considerazione l’opportunità – o meno – d’un rifiuto collettivo di liberazione. Questo attirerebbe l’attenzione sull’isola, gli amici interverrebbero, i giornali parlerebbero. Ma è ciò possibile? Se la maggior parte dei liberati sono manciuriani questi se ne andranno. Far restare gli uomini rappresentativi: Fancello, Roberto, Traquandi? Il gesto correrebbe il rischio, nella sua attuazione pratica, di cadere nel donchisciottismo; si verrebbe forse a una colluttazione con la polizia. No, se mai, far compiere a una ventina di uomini rappresentativi (liberandi e non liberandi) un gesto che li porti dinanzi al Tribunale di Guerra. E’ la proposta più seria (...). Si potrebbe anche inscenare uno sciopero della fame collettivo: 600 uomini che fanno lo sciopero della fame!». «Mercoledì 4 agosto il direttore (Guida), sollecitato da parecchie parti, decide di comunicarci la sera stessa la lista di primi liberandi (...). Sono 164 in tutto; ci sono sei socialisti, una trentina di comunisti, tre anarchici (...), i socialisti sono dunque compresi nel provvedimento. La prima conclusione razionale è questa: che ci sarà un’altra lista. Induzione avvalorata dal fatto che alcuni elementi di GeL sono non ancora prosciolti. Ma – ed è questo il grave, l’insopportabile – cinquecento almeno di noi resteranno qui (...). «L’indomani in seno alla Commissione prevale l’idea di lavorare a Roma; di lasciare quindi partire tutti. Partire! (...). Roma risponde che invierà un motoveliero e il motoveliero non arriva (...). Si apprende che c’è un due alberi a Ponza. Si telegrafa a Ponza: “Quanto volete per condurre 160 ex confinati da Ventotene a Gaeta?” (...). Più di cento confinati troveranno posto sul ponte, gli altri si stiveranno sotto. Non c’è barche di salvataggio né cinture. E se i bombardieri inglesi ritornassero? E tanto peggio. Tutti gli eletti decidono di correr l’avventura. Alle due dopo pranzo sono tutti imbarcati (...). Intoniamo l’inno di Garibaldi (...). «Buozzi e Roveda accetteranno i loro incarichi (di commissari per i lavoratori dell’industria) alla condizione che tutti i detenuti e tutti i confinati politici siano liberati: bene. La lista del 16 comprende più di 400 nomi: partiranno il 19 e il 20. Restano gli anarchici e pochi altri, 180 in tutto...». Poche settimane ed è già l’8 settembre, la data dell’armistizio, del capovolgimento di fronte delle alleanze anche militari dell’Italia. Per gli antifascisti, compresa la maggioranza degli ex confinati, di Ventotene ma non solo di Ventotene, inizia la resistenza. Con Lussu, a Firenze e poi a Roma «Un essere eccezionale: calmo, severo, dolcissimo, buono come una fanciulla, ma saldo e ferreo come un eroe» – secondo la definizione datane da Gaetano Salvemini – entra nella grande scena che prepara la democrazia repubblicana italiana. Già ad agosto, pochi giorni dopo la sua restituzione alla libertà, s’incontra a Roma, insieme con Bauer e Siglienti, con Emilio Lussu il quale ne dà anche la ragione: definire la continuità ideale fra GL e Partito d’Azione, negata nel suo assolutismo da altri esponenti della linea democratica non socialista. Il 5 ed il 6 settembre, nel capoluogo toscano si ritrova con Lussu, La Malfa ed alcune decine di compagni – non tutti provenienti dalle fila di Giustizia e Libertà, ma anche dal variegato fronte dei movimenti e gruppi comunque riconducibili alla democrazia radicale o radical-socialista, o liberal-socialista, federalista e laica, meridionalista e repubblicana o direttamente mazziniana – che si sono fusi, già in clandestinità, attorno all’idea e nell’organizzazione, in verità ancora in fieri, del Partito d’Azione. Partecipa al convengo col gruppo laziale, secondo la classificazione di memoria di Lussu (cfr. Sul Partito d’Azione e gli altri, Milano, Mursia, 1968). Con Bauer, La Malfa, Reale e Rossi-Doria entra a far parte dell’esecutivo nazionale (evidentemente provvisorio, ché l’Italia è ancora divisa in due, e la stessa capitale è ancora lungi dall’essere liberata!), e con Ginzburg, Rossi-Doria e Muscetta comincia ad occuparsi della edizione meridionale de L’Italia Libera, il giornale del partito. Con Lussu, La Malfa, Fenoaltea ed il suo carissimo Fanuccio Siglienti (quasi alla vigilia del suo arresto e della detenzione nel carcere tedesco), e naturalmente molti altri, organizza – per la parte azionista – la resistenza romana. E’ ricercato insieme dai fascisti e dai nazisti, i begli alleati, ed a raccontarne le azioni di coraggio e quelle di... depistaggio pressoché quotidiano sono, con una punta di ammirata ironia, due donne intrepide di questa stagione: Jolanda Torraca, moglie di Vincenzo, l’antico direttore di Volontà, ed Ines Berlinguer Siglienti. (Sono episodi che ho richiamato in vari miei contributi, ai quali pertanto, unitamente alla bibliografia a supporto, rimando). «I compagni dell’esecutivo, che avrebbero dovuto costituire la segreteria politica, erano obbligati, dalle deficienze e necessità che si presentavano, a occuparsi personalmente d’armi, di munizioni e di esplosivi, e persino del loro trasporto», ricorda Lussu nel suo memoriale azionista. A motivo della sua attività... tipografica ovviamente clandestina, il 19 novembre 1943 – la stessa data dell’arresto di Siglienti – Fancello viene fermato con tutti i suoi colleghi dell’Italia Libera, dodici in tutto fra redattori, tipografi e distributori, ma riesce a fuggire. E’ ancora Lussu – che si confessa (forse pentito) come possibilista – a ricordare Fancello, insieme con Bauer e La Malfa, fra i più risoluti a rifiutare i 20 milioni di lire offerti al Partito d’Azione dal commissariato della disciolta IV armata... (pag. 77). Resta, Fancello, nell’esecutivo del partito anche dopo il congresso di Cosenza, svoltosi fra il 5 ed il 7 agosto 1944. Rappresenta, pur se animato forse più di tutti da un intento unitario, la componente socialista, con Lussu, Rossi-Doria (pure lui, in verità, alquanto “bilanciato”), Comandini e Woditzska, mentre a dar voce alla corrente democratica restano La Malfa, Bauer e Reale, cui s’aggiunge ora Caracciolo. Alla saggistica e/o memorialistica più recente, riguardante il movimento repubblicano e, nel suo seno, il Partito d’Azione, merita di annoverare il libro-intervista curato da Maria Grazia Melchionni Oronzo Reale 1902-1988. Storia di vita di un repubblicano storico, con mirabile introduzione di Guglielmo Negri. Dove Fancello fa, naturalmente, la sua figura. «Fancello era con Lussu ma mostrava maggiore moderazione, tanto è vero che ad un certo punto, alla fine di queste discussioni lunghissime (sulla natura ideologica del partito, nda), si propose di affidare a me e allo stesso Fancello la redazione del documento. Elaborammo, quindi, i famosi sedici punti programmatici, che fino all’assise di Cosenza avrebbero dovuto rappresentare il programma ufficiale, sia pure provvisorio, di tutto il Partito d’azione». E sul passaggio successivo, di diciotto mesi dopo (congresso di Roma del 4-8 febbraio 1946): «Con Lussu si allinearono a sinistra Fancello ed altri. Fancello (...) pronunciò un discorso in cui invitava il partito a mantenersi unito. Egli era un fedelissimo di Lussu e quindi disse che se la posizione di Lussu era quella, accettava anche di essere sconfitto con lui. In realtà, pensava che una sconfitta sarebbe stata inevitabile». Del sardismo sulla scena del secondo dopoguerra E’ amato come pochi, Fancello, nel Partito Sardo d’Azione che pure è un partito dai forti sentimenti, dalle forti strette amicali, il partito-paese che cerca una strada per affermare il diritto all’esistenza della “piccola patria sarda” nel nuovo contesto politico generale, dopo la guerra, nell’imminenza del referendum istituzionale (che la dirigenza vorrà, pressoché unanimemente, a sbocco repubblicano, ma che vedrà la base dividersi, soprattutto nei centri rurali, propendendo piuttosto per la monarchia...). Con qualche ingenerosità formale, ma non errando nella sostanza, Gian Giacomo Ortu, nel suo Storia e progetto dell’autonomia. Percorsi e profili dell’autonomismo sardo nel Novecento, Cagliari, Cuec, 1998), scrive – da buon lussiano – di come, al pari del Partito d’Azione, anche il Partito Sardo «soffre della coesistenza precaria di due anime diverse e forse anche per questo mentre la componente socialista e socializzatrice di Lussu e Fancello respira l’aria aperta delle grandi questioni nazionali, quella liberista e antipianificatrice di Puggioni, Mastino e Giovanni Battista Melis esaspera più del lecito il discorso sugli interessi sardi». Va dunque a Macomer, dove dopo diciannove lunghi di anni di silenzio, si riunisce nuovamente il popolo dei Quattro Mori, in festa nella povertà, e propone, Fancello – sì a nome di Lussu, ma spendendo anche tutto intero il suo personale carisma di segregato dalla vita per lunghi 4.665 giorni (e lo stesso farà Siglienti, reduce anche lui dalle galere già a rischio di Fosse Ardeatine, ed attualmente ministro delle Finanze di uno Stato in drammatico dissesto bellico) – un disegno politico di largo respiro, che rompe le illusioni, tenere ma astoriche, della “piccola patria sarda”, e tende a collegare le migliori pulsioni autonomistiche vissute nell’Isola ed interpretate dallo storico partito dell’autonomia regionale al progetto istituzionale e di riforma economica e sociale quale è stato elaborato dagli azionisti, da lui stesso sardista o sardoAzionista, da Lussu anche, da Siglienti anche, e da quant’altri – Fantoni ecc. –... Chi mai potrebbe dire, dalla platea sardista, che Fancello, o Lussu, o Siglienti abbiano posto in non cale la loro fedeltà all’idea sardista del progresso dell’Isola? Nessuno. Ma pure sarebbe illusorio credere, da parte degli azionisti, che la “storia dei sentimenti”, che il “sistema delle liturgie” anche, del sardismo – dalla bandiera ai motti, perfino alle recriminazioni – possano essere dimenticati, o derubricati nella scala dei valori forti dell’impegno civile di uomini e donne che al mito della “piccola patria sarda” hanno offerto il meglio delle loro energie. E’ vero, la dittatura, col suo grigiore (oltre che con i suoi delitti), ha isolato ancor più la Sardegna, come d’altra parte ha isolato l’Italia, nel contraddittorio quadro internazionale, dalle grandi democrazie mondiali. Perché all’isolamento fisico, conseguenza ancora dell’arretratezza tecnologica dei mezzi di comunicazione disponibili, si è aggiunto quello culturale, come derivazione diretta della censura del pensiero libero e del dibattito libero. Così nell’editoria come nel giornalismo, il contributo offerto alla crescita civile e culturale di una popolazione che patisce la sua storica subalternità ed emarginazione dai centri di produzione (tanto materiale quanto immateriale) è modestissimo, se pure possa darsi un saldo positivo alla ideale somma algebrica che abbia per addendo anche la contropedagogia del regime. Sarà non confluenza dei sardisti nel Partito d’Azione, ma un patto federativo, destinato a risultato nel breve periodo, ma a sciogliersi nell’arco di meno d’un triennio: mentre, prima ancora della Costituente, consumerà la sua breve stagione la Consulta Nazionale, della quale Fancello fa parte con l’incarico di vice presidente della Commissione Affari Politici e Amministrativi. E non dovrebbe dimenticarsi che proprio Fancello è con Stefano Siglienti (presidente della Commissione Tesoro, che fra i suoi membri ha pure il sardista Luigi Battista Puggioni, eletto in quota azionista) e con Mario Berlinguer (vice presidente della Commissione Giustizia) quando quest’ultimo proporrà l’estensione alla Sardegna, sia pure provvisoria, dell’ordinamento autonomistico deciso per la Sicilia. Fancello, “confessore della fede” Ha superato i 60 anni, Fancello, quando si spende nei dibattiti interni al Partito d’Azione, o al Comitato centrale di Liberazione Nazionale, quando dirige L’Italia Libera, quando partecipa ai lavori della Consulta, nel palazzo di Montecitorio. Confermato nell’esecutivo della Spada fiammeggiante (e del picco e del libro) al congresso dell’aprile 1947 – è con Cianca, Andreis, Bruno, Calogero, Lombardi, Schiavetti e Valiani – partecipa con impegno diretto alla fase mestamente terminale della vicenda azionista. (Ho più volte tratteggiato questo percorso, ma appare indubbio che esso meriti nuovi approfondimenti poggiati su documenti che ancora non sono stati studiati e da vedersi in stretta connessione con l’esperienza del Partito Sardo d’Azione Socialista, pure esso destinato a confluire, due anni dopo, nel PSI). Nell’ottobre 1947 segue i lussiani – non ancora Lussu, che formalizzerà più tardi il suo passaggio – nella confluenza nel Partito Socialista Italiano («Lussu ha tirato l’ultimo calcio al fiasco, ed ha avuto l’appoggio di Schiavetti, Cianca, Calogero, Fancello, Bruno (...). Hanno così fatto il gioco dei comunisti, i quali vedevano di mal’occhio il nostro tentativo di unificare le forze socialiste autonome», protesterà Rossi, scrivendone a Salvemini il 13 luglio e così bissando il 21 agosto ed il 6 settembre: «Il tuo articolo “Azionisti e socialisti”, pubblicato su l’Italia Socialista piacque molto agli amici che volevano lavorare nel senso del socialismo autonomo e dispiacque moltissimo a Lussu, Cianca, Fancello, Andrei, Cannetta ed agli altri pasticcioni che volevano servirsi del nome del Pd’A per le loro sporche combinazioni elettorali»; «Il documento del Pd’A è stato tornito e rielaborato da Fancello che io ho definito “il più abile cuoco per disossare completamente un pollo dal buco del c.”. Dopo l’operazione il pollo sembra come prima, ma non gli resta un ossicino neppure nel collo». Cfr. Lettere, cit.). Ma con i ruoli di primo piano che la vita gli ha riservato, anzi imposto, violentando la sua innata propensione alla retrovia, ha finito. Sì, partecipa alle trattative per definire un profilo il più possibile di evidenza e rispettabilità della componente azionista in via di assorbimento nella formazione di massa quale l’azionismo non ha saputo (e potuto) essere, ma non gli interessa la ribalta e rifugge da ogni posizione di dirigenza. Si lega al suo ammirante-ammirato Sandro Pertini, lo affiancherà per svariati anni (sei e mezzo circa: dal 2 gennaio 1955 al 22 luglio 1961) – così nella condirezione del quotidiano genovese, di storia socialista, Il Lavoro Nuovo. Nel 1961 Fancello ha 77 anni. Ho già ricordato (cfr. “Quel sardo azteco del silenzio”, in Sardismo e Azionismo negli anni del CLN, pagg. 325-326) le pene di salute degli ultimi anni – quell’«intossicazione da farmaci sbagliati che ne scombina a lungo il metabolismo e perfino l’equilibrio psichico, provocandogli gravi allucinazioni che riportano a galla il cumulo di angosce degli anni della clandestinità e della prigionia» – e l’epitaffio, semplicemente splendido (perché non retorico), tracciatone da Jolanda Torraca, alla quale lasciò in consegna vari scritti letterari, frutto della sua passione segreta. Eccone qui almeno alcune battute: «Francesco Fancello era senza dubbio una personalità, anche se il suo nome non figurerà nella storia con quel rilievo che avrebbe meritato: ma fu amico e sostenitore di tutti quelli che hanno contato qualcosa nella lotta contro il fascismo, spesso è stato loro collaboratore dei più apprezzati per la sua sincerità, per la sua possibilità di analisi originale, spesso puntigliosa, per il suo bisogno di tener conto degli infiniti risvolti delle situazioni, anche se spesso i suoi consigli pratici non erano all’altezza dell’analisi. Ma la sua capacità di pagare di persona e il suo disinteresse gli assicuravano la stima di tutti. «In fondo si torna sempre al nocciolo della questione: cosa conta di più nella “vera storia”: il successo degli uomini che in determinati momenti hanno saputo dare una spinta decisiva agli avvenimenti, o quel sottofondo di idealisti, di sognatori che si sono sforzati in tutta la loro vita di affermare alcune idee, alcuni principi, senza cui sembrava loro che la vita non valesse la pena di essere vissuta? «Ha lasciato in tutti quelli che lo hanno conosciuto questa immagine di integrità e di coerenza e per questo non deve essere dimenticato. Purtroppo nel vertiginoso correre degli avvenimenti della nostra epoca, in cui si scontrano forze e concezioni diverse che determineranno per un nuovo periodo le sorti dell’umanità, una sola vita umana conta ben poco ed è facile quindi che scompaia il ricordo di un uomo che non era innegabilmente una figura di primissimo piano, ma portava in sé un patrimonio di valori rari (...). «Forse la cosa che più contava per Fancello erano i rapporti umani, attraverso i quali egli si è sempre inserito nelle azioni promosse dai suoi amici. Ma non li ha mai accettati supinamente e, pur amandoli, spesso con loro era in polemica, a incominciare da Emilio Lussu, Sandro Pertini, fino a Ferruccio Parri, a Ugo La Malfa e a tanti altri. Senza parlare degli amici del cuore, come Vincenzo Torraca e Achille Battaglia, con i quali era disposto a dividere il cuore, ma mai a cedere in un discussione politica!». Ha 86 anni, Fancello, quando, stanco e sempre puro, chiude gli occhi sulla scena di un mondo che ha cercato disperatamente di rendere migliore. Se fosse stato un suo uomo, la Chiesa lo avrebbe canonizzato fra i cosiddetti “confessori della fede”. Colpiscono, della personalità e della testimonianza civile di Francesco Fancello, almeno due aspetti fra loro intimamente connessi: la caratura umanistica – tutta tesa fra letteratura e filosofia e dottrine politiche – da cui derivò una salda elaborazione di pensiero offerta alla politica, cioè al progetto di società, e la capacità, anzi la vocazione, del farsi “martire”, testimone cioè, dei valori professati. Generale e soldato di un esercito di utopisti pronti al sacrificio supremo. Così nella resistenza antiburgunda come già nella “quarta guerra dell’indipendenza nazionale”, e nel lungo “sorridente” calvario della cattività fascista. Chi ne avrebbe saputo scrivere al meglio – ancorché il progetto sarebbe stato di necessità datato, e però anche suscettivo di sempre nuovi aggiornamenti ed integrazioni – sarebbe stato Lussu. Il “capitano” si era impegnato con Rosselli per un articolo biografico da pubblicare sui Quaderni di GL. Aveva formalizzato in una lettera da Auch, datata 22 dicembre 1933 (dunque quasi all’indomani del trasferimento di Fancello detenuto da Civitavecchia a Regina Coeli: e anche questo documento è stato pubblicato da Manlio Brigaglia in Emilio Lussu. Lettere a Carlo Rosselli ecc., cit.): «Per il n. 11 farò l’articolo su Fancello che ho già in testa a grandi schemi e che sarà il mio scritto politico più interessante di tutti i tempi: passati, presenti e futuri. Farà epoca». In realtà, purtroppo, l’articolo non sarà mai scritto. Così come non lo scriverà Salvemini, benché sollecitato da Rosselli, che teneva l’antico Cino d’Oristano nella più alta considerazione, e che bruciava dal desiderio – riflesso diretto di un dovere avvertito intimamente – di una nuova azione “sostitutiva” di quella impedita ai reclusi. «Non senti come è tragico e imperioso il dovere che mi si pone dopo tutti questi terribili sacrifici degli amici? Con Bauer, Rossi, Fancello, Parri, Maffi, Albasini in carcere, noi non abbiamo più diritto di oziare o di fare eccessivi riposi», scrive alla giovane moglie Marion Cave il 10 maggio 1931 (tempo di vigilia dei processi). E aggiunge poco oltre: «Ormai, per tutti questi eroici compagni nostri, non c’è che una speranza: noi. Essi attendono la liberazione da noi. Nei lunghi mesi o anni di prigione essi scongiureranno noi di lavorare, di combattere, di non perdere un solo attimo nella battaglia» (cfr. Giuseppe Fiori, Casa Rosselli, Torino, Einaudi, 1999). Un convegno in onore del soldato-sognatore Gli atti del seminario dedicato, nel maggio 2000, ad iniziativa della benemerita associazione Raichinas e chimas, alla figura di Francesco Fancello sono il doveroso complemento alla giornata di studi dorgalese. La ventina di relazioni o comunicazioni, di contributi comunque alla riproposta della complessa personalità del leader sardoAzionista realizzano un efficace mosaico di dati biografici e di ambiente storico che dovranno servire per altri approfondimenti. Perché c’è ancora molto da scavare intorno alla figura di Francesco Fancello e sarà importante che, con sforzo corale, ci si impegni a portar frutto. Non è forse giusto, o elegante, citare alcuni contributi e tacere degli altri. Ma non si può negare almeno un richiamo di titolo alle relazioni di Luigi Nieddu, Giovanni Sabbatucci, Gianfranco Contu e Vindice Ribichesu, nonché, per gli stimoli anche metodologici offerti, di Franco Mereghetti, conservatore delle carte di Riccardo Bauer e, per le riflessioni generali anche sull’etica della politica, di Mario Melis. Meriterebbe, per iniziare, implementare la scheda dei dati personali e familiari almeno fino ai primi anni ’20 (con particolare interesse al quadriennio bellico); e poi raccogliere in repertorio organico i suoi scritti sul Solco sardista fino alla chiusura per mano di dittatura, nel 1926 e quegli altri che, nello stesso periodo compaiono – anche essi con la firma di Cino d’Oristano – su Volontà e sulla Critica Politica, le riviste rispettivamente di Vincenzo Torraca e Oliviero Zuccarini. Degli anni della cattività fascista – fra carcerazione a Regina Coeli, Viterbo, Civitavecchia e nuovamente Regina Coeli, e confino prima a Ponza (fine 1935 – 1939) e quindi (fino all’agosto 1943) a Ventotene – occorrerà raccogliere, come ho già sopra auspicato, l’intero carteggio familiare o d’altra relazione amicale, così come è stato meritoriamente fatto per Ernesto Rossi. Una pista di ricerca, relativamente alla sua detenzione, è quella del censimento, fra le stesse fonti edite, degli epistolari dei compagni d’idealità e sorte, a cominciare da Calace e Bauer, Roberto e Traquandi e Domaschi, ma proseguendo – soprattutto per la parte confinaria – con i molti altri che con lui hanno convissuto (sulle tristi isole) per quasi otto anni. Livelli documentali finora inesplorati o soltanto lambiti si trovano anche nella lunga stagione bellica e postbellica, cui partecipano le esperienze resistenziali (politiche e militari) e quelle di dirigente azionista e ciellenista, di direttore de L’Italia Libera, di collaboratore a testate giornalistiche sarde (fra le quali Riscossa) e non sarde (in primo luogo Realtà Politica di Bauer), di consultore nazionale, di “ambasciatore” del Pd’A presso il Partito Sardo d’Azione, ed infine di “traghettatore” del Partito d’Azione fra i socialisti di Basso e Nenni. Infine apparirebbe di estremo interesse realizzare un regesto degli articoli firmati o a lui sicuramente attribuibili – sia sul versante politico che su quello culturale e/o d’occasione – usciti sul Lavoro Nuovo genovese nel sessennio 1955-1961, dopo che sull’Avanti! socialista o su altre testate d’area nel periodo che salda il 1947 al 1955. Un’ultima nota, anche polemica per quanto la polemica possa servire la verità. Pare necessario che il Consiglio Regionale (e/o l’Amministrazione) onori un impegno assunto nella seduta di commemorazione, e che vanamente, anni addietro, io rammentai al presidente Gian Mario Selis, che se ne infischiò (in ciò offrendo, anche a me, ricercatore indipendente ma non certo neutrale rispetto ai valori della politica, un motivo in più per comprendere il perché del crollo, che già s’annunciava, delle liste regionali dell’Ulivo: quando si denegano le raichinas e chimas...). Ricordò, in quella tornata del 21 febbraio 1970, l’onorevole Titino Melis: «Dimostrò che gli ideali di democrazia, che egli aveva servito con diuturna fatica e con dedizione sublime nell’abnegazione, si servono soprattutto con le opere e coi fatti. «Visse sempre povero. Seppe rimanere nel silenzio senza esibizionismi. Ebbe la coscienza della legge, oltre tutti il senso dello Stato e soprattutto non adulterò mai questo senso e non limitò mai questo senso della dedizione agli ideali più alti nella faziosità che finisce nella sopraffazione e che rende i cittadini nemici nell’annullamento di quella volontà liberatrice che è prima di tutto dedizione fatta di purezza con sentimento e con cuore così elevati. «Ritengo che questa Assemblea debba esaltare questa figura, perché di questi esempi si avvalgano le generazioni, con questi esempi si conquistano veramente i più alti livelli e le mete, senza le quali tutto appare falso, farisaico, imbroglionesco...». Ed al termine degli interventi da parte dei rappresentanti di tutti i gruppi politici (Dessanay, Dettori, Zucca, Mistroni, Tufani, Pigliaru, Frau, Pinna) e del presidente della Giunta, Abis, il presidente dell’Assemblea dichiarò: «Non fece nulla perché i suoi grandi meriti venissero conosciuti dalle nuove generazioni degli autonomisti sardi. Ma era certamente uno dei padri dell’autonomia. Perciò, al di là di questa commemorazione certamente inadeguata, io credo che la Regione dovrebbe farsi promotrice di una raccolta critica dei suoi scritti e di una ricostruzione della sua biografia, dovrebbe cioè fare in modo che egli sia degnamente ricordato e conosciuto dalle nuove generazioni sarde». 2 – Il sardismo universale di Fancello. Contributo al convegno “Omaggio a Francesco Fancello. Ripensare l'Autonomia, dal Sardo-Azionismo alla Riforma dello Statuto” Mezza mattinata di domenica 30 luglio 1944, nella sala del teatro centrale di Macomer. Di quella Macomer che ha una sua “centralità” in tutta la vicenda del sardismo ante-fascismo, di quel capoluogo del Marghine che è quasi a mezza strada fra Cagliari e Sassari e Nuoro, che ha distinto col suo nome la carta sardista – il documento programmatico e prima ancora politico – del sardismo (o pre-sardismo) anno 1920, 8-9 agosto. Quale sardismo? Quello che, al di là delle particolari inflessioni nella dottrina sociale, respira tutta l’aria dell’autonomia come «concetto rivoluzionario» – sono parole di Fancello all’assemblea dell’estate 1944 –, la cui significatività è proprio nel superamento della «piaga» sofferta per «tanti secoli di fronte ai governi centralizzati»: l’isolamento; sì, l’autonomia «proprio come superamento dell’isolamento, nella solidarietà delle forze amiche». Le forze amiche. Negli anni ’20 le forze amiche erano, in Sardegna e sul continente, essenzialmente i repubblicani di Conti e Zuccarini – quelli del Partito Repubblicano Italiano cioè –; erano, sul territorio della penisola, anche e più ancora i gruppi autonomistici del Molise, della Lucania, dell’Avellinese (si pensi a Guido Dorso), della Liguria, ecc. che puntavano tutti alla costituzione federativa di un “partito italiano d’azione”. Un disegno presto, anzi troppo presto contraddetto dai cedimenti ideologici (nel nome del comune combattentismo) e talvolta anche opportunistici al fascismo che, al governo ormai dall’ottobre 1922, puntava alla vittoria elettorale alle politiche dell’aprile 1924, dopo la riforma Acerbo ed altre premesse alla sua progressiva trasformazione in regime. Con i repubblicani si condividevano in modo marcato le radici ideali risorgimentali, tanto nella versione mazziniana quanto in quella, distinta ma chiaramente e strettamente associata, cattaneana, per arrivare al concretismo salveminiano. Non di necessità doveva essere cartello politico (ricordiamo le riflessioni critiche di Bellieni: che pure collaborò assiduamente, insieme con Cino d’Oristano, alias Francesco Fancello, alla Critica Politica del federalista del Partito Repubblicano Oliviero Zuccarini), ma alleanze, e ufficiali, vi furono comunque, fra il PRI e il Partito Sardo. Nel 1921 il repubblicano avv. Senes fu candidato – e riuscì sesto per numero di preferenze – nella lista dei Quattro Mori che dette, fra gli eletti, per la prima volta, Emilio Lussu. Nel 1924 La Voce Repubblicana pubblicò in prima pagina una lunga intervista al candidato da rivotare – appunto Emilio Lussu – ed essa era firmata da Cesarino Pintus, corrispondente 23enne da Cagliari. Quel Cesarino Pintus che con Silvio Mastio commemorò per l’ultima volta Mazzini nella redazione del Solco, nel marzo 1925; che con Lussu intrattenne corrispondenza clandestina durante il confino di Lipari; che con Fancello fu arrestato nel novembre 1930. Per dire delle forze amiche. E poi gli “italianisti”. Noi ricordiamo anche quanto recitava l’art. 2 dello statuto di fondazione del Partito Sardo d’Azione del 1921: «Il partito si propone di promuovere la rinascita della Sardegna e di tutelarne gli interessi a mezzo di organi regionali attuali e da crearsi, di ottenere l’autonomia economica ed amministrativa nell’unità della nazione italiana... ecc. Il Partito Sardo d’Azione è il primo nucleo di un più vasto movimento autonomista che dovrà sorgere in tutta Italia allo scopo di dare allo stato un più sapiente ordinamento in corrispondenza alle esigenze spirituali, culturali, economiche e geografiche dell’intero popolo italiano». «Nella solidarietà delle forze amiche», ricorda, a Macomer, Fancello, che ha trovato forze amiche – energie spirituali e patriottiche, intellettuali e di visione civile – nelle celle dei penitenziari del regno che l’hanno accolto per cinque anni e un mese, nei cameroni e nei percorsi esterni obbligati del confino isolano – prima Ponza, poi Ventotene – nei sette anni e otto mesi che gli sono stati dati in sovrappiù alla condanna originaria pronunciata dal tribunale speciale il 27 giugno 1931: la condanna condivisa con Cesare Pintus era a dieci anni di reclusione, sette a Nello Traquandi, terzo imputato di quel processo (il secondo processo agli intellettuali di Giustizia e Libertà, dopo quell’altro di un mese prima, che aveva visto sui banchi degli imputati uomini come Bauer e Rossi e un’altra ventina di cospiratori). Giustizia e Libertà Le forze amiche, il sardista Fancello che aveva preso a far grande politica contro il grande nemico, le aveva trovate in quelli di Giustizia e Libertà, confluiti poi – alla vigilia della riunione fiorentina del 4 e 5 settembre 1943 (fra la caduta del regime e la firma dell’armistizio: riunione perciò ancora clandestina) – nel Partito d’Azione. Lussu in testa a tutti, lui – Fancello – nel novero dei secondi, a venti giorni dal traghettamento da Ventotene alla terraferma. Dopo repubblicani ed italianisti delle minoranze democratiche regionaliste (magari all’insegna del meridionalismo contadino e socialista), ecco i gielle e, ora, il Partito d’Azione: sono le prime forze amiche del sardismo, incontrate dal sardismo nel cimento ricostruttivo della nazione e dello stato, della libertà nella democrazia. E anche più che amiche, perché lui – Fancello –, al pari di Lussu, al pari di Siglienti (ministro delle Finanze in carica, nel luglio 1944, del primo governo di CLN presieduto da Bonomi), è e si sente, e si dichiara, sardista, e però anche azionista militante, “combattente” si dovrebbe dire, per la contingenza bellica in atto sul continente, per la resistenza antiburgunda in atto ancora in mezza penisola, quando appunto nella tranquilla Macomer si parla e si litiga sull’oggi e il domani del sardismo. Ma il ciclo storico del sardismo chiuso nel generoso, forse romantico, ma pure irrealistico mito della “piccola patria sarda” si è ormai compiuto. Lussu lo sa, Fancello – con Siglienti – lo sa, e con Siglienti è stato inviato da Lussu, leader ormai di esperienza cosmopolita, a riferirlo, con ogni diplomazia, ma anche con onestà intellettuale, al popolo dei Quattro Mori. «Oggi più ancora che nel passato la battaglia per l’autonomia della Sardegna deve respingere qualunque posizione isolazionistica – soggiunge –. L’isolazionismo non tiene conto della tragicità della situazione di un paese vinto che è ben lontano dal potere con tanta libertà disporre del proprio destino; e soprattutto non comprende che alla Sardegna si chiuderanno tutte le porte se non sarà in grado di dire una parola universale che possa essere ascoltata e sostenuta dalle masse lavoratrici non solo isolane ma anche nazionali ed europee». Affaccia qui, senza esplicitarla più di tanto, una prospettiva socialista, o laburista, nella quale lo stesso sardismo non può non riconoscersi anche nelle sue aree liberiste o salveminiane. «Il Partito Italiano ed il Partito Sardo d’Azione combattono (...) così, contro le forze della reazione, rappresentate dalla monarchia e dalla grassa borghesia, come contro le stesse forze dell’estremismo tradizionale di sinistra». E’ qui la innovazione, il salto di qualità politico, nella fedeltà alle premesse ideali e storiche del sardismo delle origini: nella visione democratica e di classe – non dottrinaria però, non prigioniera del tradizionale schematismo ideologico di certo socialismo e tanto meno del comunismo –, in una visione progressista del rapporto fra le classi e anche, inevitabilmente, degli assetti istituzionali: «Dobbiamo essere sempre insieme, ora e sempre. La Sardegna deve onestamente pensare che ci sono altri fratelli che hanno problemi simili, le stesse esperienze, le stesse piaghe dolenti, che combattono per la stessa battaglia. Questa consapevolezza – è il suo auspicio, il suo invito, il suo appello – ci accomuni nell’ora tragica che volge, ci stringa fraternamente nell’ansia di dare alla Sardegna e all’Italia, attraverso la rivoluzione istituzionale e la nuova visione del problema del lavoro, la vera libertà politica e la vera giustizia sociale, basi eterne del progresso dei popoli». Sono concetti che Fancello ha fissato, nel gennaio 1944, in uno dei Quaderni – il primo – de L’Italia Libera, il quotidiano del Partito d’Azione del quale sarà direttore dall’aprile dello stesso 1944, vigilia della liberazione di Roma. Titolo del lungo, complesso, elaborato documento, «Il P. d’Azione nei suoi metodi e nei suoi fini». Il sardismo delle origini Ma prima di uno specifico rimando al testo fancelliano, richiamerei qui alcuni concetti-base, d’impostazione politica generale (precisamente «principii e tendenze morali»), presenti nel celebrato programma di Macomer – ecco qui ancora Macomer – approvato dal III congresso regionale dei combattenti sardi in vista del congresso nazionale (1920): «Semplificati essi (i Combattenti Sardi) da quel grande avvenimento non solo politico ed economico ma anche morale che fu la guerra, essi sentono il bisogno e il dovere di evitare ogni falsificazione intellettualistica della realtà storica, ogni accademica e aprioristica condanna di azioni sociali e politiche, ogni utopistica e dottrinale costruzione di eventualità future. «Per pura intuizione da prima, poi per cosciente tendenza, coincidente con lo sviluppo del pensiero contemporaneo, cercarono di sentire la vita sociale senza affettazione, né velo di teorie e di formule. Perciò al ritorno dalla guerra apparve loro una prima necessità: l’emancipazione della regione sarda e del lavoratore sardo. «Da questa parziale emancipazione la loro aspirazione risalì alla piena emancipazione della Nazione e del cittadino italiano, del lavoratore di ogni paese, dell’uomo». E più oltre, chiamati al giudizio sul socialismo rivoluzionario animatore di una nuova e moderna concezione sociale, essi si dicono «convinti dall’evidenza dei fatti che una nuova civiltà deve fondarsi sulla fusione del capitale e del lavoro nelle mani stesse dei lavoratori»: ma poiché tale indirizzo di vera e pura politica sociale si è dogmatizzata (testuale: «superficiali, preconcettuali, demagogiche le soluzioni teoriche e le azioni pratiche dei partiti rivoluzionari»), ecco la necessità, da parte dei Combattenti, di porre – testuale – «come caposaldo del proprio movimento la salvaguardia della libertà individuale del lavoratore così manuale che intellettuale e il rispetto delle singole libertà di coscienza e di convinzione dei lavoratori organizzati». A questo punta il movimento dei Combattenti, ed è obiettivo destinato ad entrare e riformularsi nelle esperienze successive della democrazia avanzata di stampo risorgimentale e repubblicano, il sardismo fra esse: «Organizzazioni di classe, di categoria, di gruppi sotto l’impulso dei comuni interessi, ma in forma che soffochino il meno possibile la coscienza e l’iniziativa dell’individuo; associazione spontanea, ...aggregati per cause morali, per secolare formazione storica: la Nazione, per opera di pensiero e di rivoluzione: l’Italia». E infine: «I Combattenti... si propongono di attenersi a una considerazione realistica... delle circostanze economiche e colturali, tanto variabili da regione a regione nel nostro Paese, Italia di operai e di contadini, a cui si rivolgono, prima che a vaghi e remoti sogni internazionali, il sentimento e l’intelletto di chi si è battuto per i suoi sterminati patrimoni civili, liberali e rivoluzionari». «Autonomia nell’Unità politica» è l’obiettivo politico del movimento dei Combattenti sardi, è il punto centrale del loro «programma regionale», ultimo titolo di quello «di riforme» (costituzionali, difesa, economia, istruzione, tributi, internazionale), che la sezione di Cagliari deposita a quel III congresso regionale in vista dell’assise nazionale che si vorrà apertamente regionalista: programma che – se respinto – resterà «come base per un partito regionale sardo d’azione». «... la Sardegna vuole arrivare alla grandezza d’Italia con la sua grandezza»; occorre scongiurare che gli ostacoli al programma di riforme in senso decisamente regionalista finiscano per «indurire maggiormente gli animi alla lotta, e creare irrevocabilmente l’idea separatistica per il distacco dalla grande nazione, alla quale la Sardegna è storicamente legata più per il dato contributo di spirito e di sangue che per la tutela e il soccorso avuti». E nella stessa logica si porrà, di lì a pochi mesi, il Partito Sardo d’Azione che, nell’incipit dei «lineamenti di programma politico secondo gli ordini del giorno approvati al I congresso di Oristano del 16-17 aprile 1921», individuava il proprio «motivo ideale», tratto direttamente dal movimento dei Combattenti, nella «conquista della sovranità per il popolo sardo e per il popolo d’Italia attraverso l’affermazione del principio di responsabilità». L’autonomia che i sardi «pretendono», dice il documento, la pretendono – testuale – «con profonda fede italiana», nella consapevolezza cioè di essere parte e protagonisti di un consorzio più grande di quello puramente isolano e regionale. Dovevo compiere questo flashback per confermare e direi consolidare la coscienza del naturale intimo aggancio non soltanto fra Sardegna e Italia, ma fra la cultura politica del primo sardismo e i valori della democrazia repubblicana di retaggio risorgimentale. Riflettendo, l’11 novembre 1973 sul programma di Macomer e l’intera complessa storia del primo sardismo, fino alla sua messa fuorilegge da parte del regime fascista, Giovanni Battista Melis richiamava – testuali – le «illuminate anticipazioni di Giovanni Battista Tuveri, del Brusco Onnis»: che è come dire scuola repubblicana, scuola mazziniana e scuola cattaneana. E chi volesse trascorrere qualche utile ora nello spoglio delle annate del Solco dei primi anni ’20, rileverebbe la copiosità dei richiami agli scritti del Mazzini e del Cattaneo, per dire soltanto dei capiscuola, ma si potrebbero aggiungere i Bovio e i Ghisleri e quant’altri. Fino al canto del cigno, alla richiamata celebrazione mazziniana del 1925, nella sede proprio del Solco, fra la militanza cagliaritana dell’Edera e dei Quattro Mori. Bellieni Il nesso italianista del primo sardismo aveva trovato, già nel dicembre 1920, una specie di statuto morale nella lettera di Camillo Bellieni «agli amici del movimento cagliaritano», apparsa sulla Voce dei Combattenti sotto il titolo di «I sardi di fronte all’Italia». Una lunga, bellissima lettera nella quale il primo teorico del sardismo rifaceva la storia millenaria degli isolani, evidenziandone l’originalità etnica e linguistica, ma concludendo che i 72 anni trascorsi dalla “perfetta fusione” li avevano arricchiti di una seconda natura e cultura: quella italiana. Sicché «siamo italiani». «Dopo artificiose e menzognere negazioni, il giorno in cui la separazione fosse un fatto compiuto, noi sentiremmo balzare nel cuore un sentimento dolorosamente soffocato sino allora, che ci costringerebbe a rialzare sulle nostre case il tricolore abbattuto». Dunque: «Noi non possiamo divenire stato». Dunque. «Bisogna rassegnarsi alla constatazione che noi siamo una nazione abortiva». Dunque: «Noi dobbiamo arricchire la realtà spirituale italiana con il nostro contributo di vita sarda, dobbiamo rappresentare un elemento necessario nel gioco delle forze della economia nazionale. Noi dobbiamo volere l’autonomia, non l’indipendenza, dobbiamo divenire concretamente italiani attraverso la conoscenza della tradizione isolana». Non si confonda l’Italia – ammoniva Bellieni – con l’ «astratta italianità» che s’impersona nei «burocrati romani», «che fa consistere lo stato nella volontà di tre o quattro città principali, nelle quali sono accentrati tutti i privilegi di un organismo sfruttatore e parassitario». Dunque e ancora: «Noi vogliamo riconoscerci sardi per essere veramente italiani». E soggiungo – richiamandomi ancora al Bellieni “italianista” (il che, trattando di Fancello/Cino d’Oristano non è per niente un abuso, soltanto che si consideri non soltanto la comune collaborazione alla Critica Politica e la comune partecipazione alla redazione di Volontà – con Parri e Lussu, Battaglia e Toccaca, ecc. – ma soprattutto la loro sorte parallela, nel 1923, quando dal congresso di quel marzo, anch’esso celebrantesi a Macomer, scaturì la scissione fasciomora: a Bellieni, bibliotecario all’Università di Napoli, il rettore impedì la licenza per l’Isola; a Fancello, dipendente pubblico, la partenza pure non fu consentita: «non posso per ora muovermi», così in una lettera a Paolo Pili del 12 febbraio). Soggiungo – dicevo – un altro riferimento flash a Bellieni “italianista”, tratto questo da un suo scritto consegnato a Sardegna Italiana, il numero speciale, di carattere elettorale, che le edizioni milanesi di Comunità dedicheranno ai problemi isolani in tutt’altro contesto anche temporale: siamo nel 1958 ed i sardisti hanno fatto cartello con gli amici di Olivetti, il Partito piemontese dei contadini ed altri gruppi minori. Bellieni aderisce al progetto, sottoscrive la dichiarazione politica del Movimento di Comunità, che risale al 1953. «In altri tempi – scrive – recandomi nei diversi paesi a prendere contatti con le sezioni combattenti, che furono le matrici delle sezioni del Partito d’Azione, come in modo analogo avvenne nel Friuli, nel Molise, in Irpinia, nella Basilicata, per i gruppi d’azione di quelle contrade, e per il Partito Molisano e per il Partito Lucano d’Azione, e per il gruppo parlamentare di Rinnovamento, prima che il segretario avesse la possibilità di radunare i membri della sezione, conversavo in genere nelle farmacie, centro di riunione degli intellettuali locali, con i rappresentanti degli altri partiti politici, a cui spiegavo qual era il nostro programma, che non avevamo astio con nessuno, che si trattava di idee accettabili da qualsiasi categoria sociale dell’Isola». Sempre nella più grande prospettiva della Patria italiana, e sempre nella logica fancelliana, oltre che lussiana, delle forze amiche del sardismo. L’azionismo Richiamerei due passaggi soltanto del testo fancelliano che rimandano a una impostazione autonomistica che permane e qualifica il Partito d’Azione, diversamente dagli altri della sinistra ad esso più prossimi – comunisti e socialisti cioè che sono intimamente centralisti (e la grande contraddizione di Lussu sarà proprio questa impossibile combinazione, come gliela contesterà Ugo la Malfa al congresso di Roma del febbraio 1946, che segnerà poi l’uscita dello stesso La Malfa, con Parri, Salvatorelli e tanti altri, dal partito). Per non dire, dei non autonomisti, sul fronte moderato, dei liberali. Scrive Fancello nella sua introduzione sull’«Origine del Partito d’Azione»: questo è l’esito della rielaborazione e rifusione «al fuoco delle concrete, vive esigenze di difesa dall’autoritarismo reazionario», dei «principi tradizionali di libertà politica e di rinnovamento sociale». L’ha spiegato nelle righe precedenti, che il processo di fusione delle idealità liberali, democratiche e socialiste, germinato nei «piccoli nuclei d’élite», si è trasferito «a più vasti raggruppamenti popolari, soprattutto fra i giovani, infiammati da una intrepida volontà di nascita». Egli pensa che il Partito d’Azione possa essere interprete di questa «intrepida volontà di nascita» presente nelle giovani generazioni e più in generale nelle masse che vogliono realizzarsi in diverse e migliori condizioni di vita. Il Partito d’Azione è la risultante di tre apporti ideologici fondamentali, come già fu GL: quelli dei liberali, dei socialisti, dei repubblicani. Apporti da intendersi non come direttamente da partiti o frazioni di partiti, ma piuttosto da esponenti – teorici o militanti – di formazioni che variamente potevano ricondursi a scuole di pensiero politico liberali, socialiste e democratiche. Siamo sempre nell’ottica della ricerca di forze amiche e degli ancoraggi ai valori universali. Dall’area liberale – scrive Fancello – il partito trae il contributo etico, ideale e teorico «di un pensiero permeato di alti valori intellettuali, un vivo apprezzamento delle libertà individuali e una preziosa tradizione di istituti rappresentativi»; dalle esperienze socialiste, «nelle loro molteplici sfumature», l’esito e l’elaborazione di «una moderna esperienza del mondo del lavoro e delle sue aspirazioni, un più acuto intuito dei rapporti fra gruppi sociali, ed una concezione più sostanziale della libertà»; dalla militanza repubblicana «una concezione autonomistica dello Stato contro il centralismo monarchico, ed in genere una squisita sensibilità dei problemi istituzionali». Non sarà inutile ricordare che nell’articolazione originaria di GL a Lussu fu data la rappresentanza dell’area repubblicana, come a Rosselli quella socialista. Per dire della stretta parentela fra le idealità universali della democrazia mazziniana e le istanze della democrazia sardista. (Lussu – è forse noto – negli anni universitari, immediatamente precedenti la grande guerra, fu anche iscritto alla sezione repubblicana di Cagliari). Nel paragrafo intitolato «L’autonomia e la ricostruzione dello Stato» – uno dei più pregnanti dell’intero volumetto fancelliano dedicato alle premesse ideali e alla metodologia politica del Partito d’Azione – l’autore sistematizza tutta una serie di convincimenti profondi, risultato di studio e di confronto, sulla necessaria coniugazione fra stato moderno e democrazia. Noi potremo seguire, per alcune tappe almeno, il percorso di elaborazione teorica di Fancello, ma il valore specifico di questo nostro ripasso è proprio nella considerazione che quella elaborazione proviene da uno dei fondatori e difensori dell’originalità democratica del sardismo e del Partito Sardo d’Azione, di un movimento politico e di una formazione, cioè, regionali. La grande questione di uno stato moderno – rivelato dallo studio di Fancello, tanto da costituire il filo rosso ideale ed etico-politico della sua riflessione – è, né più né meno, quella di realizzare il principio dell’uguaglianza – da cui la giustizia sociale – all’interno di un ordinamento intimamente liberale nella prassi democratica. Egli lo dice in apertura: «Lo Stato moderno, nato dalle grandi monarchie assolute col compito storico di assorbire in organica unità politica ed economica le forze centrifughe di origine feudale, finisce per offrire ai ceti dominanti un formidabile strumento di oppressione sociale». E’ per questo – sostiene più oltre – che «gli ideali di riscatto delle plebi oppresse», e così «Le formulazioni anarchiche e quelle marxiste» puntano alla distruzione dello Stato, alla sua abolizione. Un’utopia che si fa bisogno sempre più impellente, «di mano in mano che i poteri pubblici, per le stesse necessità tecniche della vita moderna, accentrano risorse e possibilità d’interferenza nella vita dei cittadini». Ma tra le «formulazioni finalistiche» – il superamento dello Stato – e le «necessità dell’azione» – la crescente «partecipazione delle masse proletarie alla vita politica, parallelamente allo sviluppo delle grandi organizzazioni dei lavoratori» –, finisce per determinarsi «uno squilibrio sensibile» che – avverte Fancello (siamo, ripeto, all’inizio del 1944) – «costituisce un pericolo di gravi smarrimenti nell’ipotesi di improvvisa presa di potere da parte o in nome della classe operaia». Ché la «dittatura del proletariato» rappresenta una «suggestione» perniciosa, evocatrice di «fantasmi di autoritarismo, che si ritorcono contro la libertà dello stesso proletariato». La Russia non c’entra: sarebbe arbitrario leggere la rivoluzione bolscevica «alla stregua delle esigenze storiche dell’occidente europeo», ma non meno arbitrario sarebbe voler replicare in occidente «criteri adeguati a quelle contingenze e a quelle popolazioni». La necessità vera e profonda dell’Italia è quella di realizzare «la socializzazione» in stretto nesso con «la contemporanea trasformazione dell’ordinamento politico». C’è un che di mazziniano in questa affermazione. Ogni dittatura – avverte Fancello – «non può concepirsi senza un ordinamento centralizzato». I «due fronti solidali della stessa battaglia» impostata dalle forze della risorta democrazia italiana sono, proprio per questo, «la radicale trasformazione della struttura economico-sociale» e «la riforma organica degli ordini politici». S’impone intanto un chiarimento lessicale: «la socializzazione non va confusa coi vecchi schemi di socialismo burocratico», «l’autonomia non deve esser confusa coi consueti progetti di decentramento amministrativo, il cui fine è il perfezionamento tecnico dell’apparato statale, ma non tocca la sostanza dei principi d’autoritarismo e di paternalismo che ne sono il fondamento». «Principi anacronistici» quelli, «retaggio dell’assolutismo delle grandi monarchie continentali e dell’astrattismo giacobino». Il sovvertimento della «concezione stessa dello Stato, della sua sovranità monolitica, del suo sacro prestigio all’interno e all’estero» va attuato «non solo in rapporto alle libertà individuali» ma anche al «carattere delle articolazioni territoriali, sottraendo queste all’assorbente autorità del governo centrale, e riconoscendo ad esse la pienezza di vita e d’iniziativa politica». Entra in campo, qui, l’esperienza regionalista di Fancello. Egli specifica: «Molte delle funzioni che oggi sono infeudate allo Stato, non esclusa parte di quelle di polizia, debbono essere conferite alle amministrazioni locali... come loro competenza originaria. E l’unità della compagine nazionale non deve essere concepita come un sistema di concentriche articolazioni gerarchiche procedenti dal centro alla periferia ..., ma come il risultato di un processo inverso. Il che non significa affatto il disarmo della comunità nazionale di fronte a eventuali tentativi centrifughi e reazionari di un qualsiasi elemento territoriale, ma implica la definizione delle garanzie e delle procedure costituzionali a cui l’intervento della comunità deve in ogni caso essere subordinata, fuor dal capriccio dell’esecutivo». Si è visto con i CLN spontaneamente polarizzati «attorno a centri territoriali, fra i quali Comune e Regione hanno compiti preminenti; il primo come nucleo elementare, la seconda come collettività articolata». Entrambi rispondenti «a bisogni e tradizioni storiche», entrambi lontani «dal clima pernicioso dell’autorità prefettizia». I «vecchi arnesi del campanilismo e del regionalismo» sono «nostalgia dei peggiori gruppi reazionari». La autentica «autonomia, prima di essere un piano d’organizzazione dello Stato, deve essere una concezione sociale e una fede politica»: perché – spiega Fancello – «il valore degli organi territoriali dipenderà direttamente dal carattere delle forze che vi saranno incorporate, dai fini che esse si saranno proposti, dai metodi di lotta che esse avranno adottato». Forza Paris per la democrazia E’ il Fancello che ha sviluppato queste complesse (e per taluni scomode) elaborazioni di dottrina politica e anche di teoria dello Stato colui che si presenta ai suoi vecchi compagni delle 250 sezioni sardiste diffuse sull’intero territorio regionale in quell’assise di fine luglio del 1944: un anno dopo il dimissionamento del dittatore, nove mesi prima della liberazione completa del territorio nazionale dai burgundi e collaborazionisti. Il giorno prima, subito dopo l’apertura dei lavori da parte di Pietro Mastino presidente del congresso, ha parlato Stefano Siglienti, altro “inviato” di Lussu: inviato con la missione di convincere i militanti ed i dirigenti della necessità di un rapporto molto stretto fra Partito Sardo e Partito d’Azione. Pietro Melis è uno dei due segretari di quel congresso e verbalizza dunque, dandosi carico di portare la cronaca di quell’evento sul numero unico Forza Paris!, che reca infatti la data del luglio 1944 ed anticipa giusto di sette mesi la ripesa delle pubblicazioni seriali del Solco (che dal marzo 1945 riprenderà ad uscire, con cadenza settimanale: per tutto l’anno con direzione Luigi Battista Puggioni e redazione sassarese, dal gennaio 1946 a Cagliari con direzione di Giovanni Battista Melis e, se posso dirlo, un patronato lussiano). «Quando Francesco Fancello sale sulla tribuna l’assemblea scatta in piedi applaudendo lungamente alla sua scarna, ascetica, ardente figura di apostolo e di combattente», scrive Pietro Melis. Che chioserà: «Fancello ha parlato a lungo, seguito con attenzione viva e vibrante dall’assemblea che ha ripetutamente sottolineato con approvazioni ed applausi i punti salienti del suo discorso, e lo ha salutato alla fine con imponente manifestazione di consenso e di affetto». Consenso ed affetto che non porteranno però la platea della militanza né il banco della dirigenza ad allinearsi, ma piuttosto a cercare un punto d’incontro fra posizioni e prospettive diverse. Ripasserò quindi – seguendo la sintesi e qualche virgolettato donatoci da Pietro Melis – il lungo intervento fancelliano. Che inizia ringraziando «gli amici e i compagni» del Partito Sardo d’Azione per l’applauso con cui l’hanno salutato e che egli sente e accoglie «come un segno di fraternità cordiale verso un compagno della vecchia guardia». Al congresso di Macomer, luglio 1944 «Ricorda per rapidi tratti il sorgere del Partito Sardo d’Azione: prima moto sentimentale nelle trincee della Guerra Mondiale, quando il dolce e fiero nome di Sardegna cominciò a risuonare, segno di una sorgente coscienza isolana fra le nostre masse, sul Carso, negli Altipiani, al Piave. Fu allora che i soldati sardi giurarono di far risuonare quel dolce nome come grido di battaglia, come voce di cittadini consapevoli, che volevano partecipare da liberi e da pari alla vita nazionale; fu allora che essi decisero di difendere i diritti e gli interessi della Sardegna, prima abbandonata al piccolo intrigo dei ras politici locali, sentita e trattata dai governi come un paese coloniale aspettante, come alla porta di una chiesa, l’elargizione di un’elemosina. «I combattenti sardi scesero in campo per combattere l’antico pregiudizio che la Sardegna fosse in condizioni di inferiorità rispetto alle altre regioni d’Italia. Quel moto sentimentale si espresse poi in concreta volontà d’azione, si espresse nel programma politico del Partito Sardo, la cui battaglia s’impostò sul concetto rivoluzionario o dell’autonomia, intesa non come isolamento, poiché l’isolamento era stata la piaga di tanti secoli di fronte ai governi centralizzati, ma proprio come superamento dell’isolamento, nella solidarietà di forze amiche che combattessero la stessa battaglia». Ecco il punto. «Ed oggi più ancora che nel passato – avverte Fancello – la battaglia per l’autonomia della Sardegna deve respingere qualunque posizione isolazionistica.... alla Sardegna si chiuderanno tutte le porte se non sarà in grado di dire una parola universale, che possa essere accolta e sostenuta dalle masse lavoratrici non solo isolane, ma anche nazionali ed europee. «Il Partito Sardo d’Azione ha sempre sostenuto il riscatto sociale di tutti gli oppressi ed ha sempre cercato l’assistenza delle forze politiche e sociali che sostenevano la stessa lotta, portando nel campo nazionale il principio di una federazione di regioni autonomiste. «Questa visione del problema sardo, superando la ristretta cerchia regionale, condusse Emilio Lussu, esule in Francia, ad andare oltre i concetti del nazionalismo piccolo e grande, per proiettare l’idea rivoluzionaria, accesa in Sardegna, su un orizzonte più vasto, per inserirla in movimenti di valore universale. Attraverso “Giustizia e Libertà” Lussu riprese la sua lotta sul piano nazionale ed internazionale, cercando sempre il sostegno degli amici sardi del Partito Sardo d’Azione in questa lotta contro il potere centralizzato, esasperato ed oppressivo. E la piccola voce della Sardegna – aggiunge Fancello, in un passaggio centrale del suo discorso – divenne in Francia, in Inghilterra, in America l’ammonimento contro il fascismo come minaccia di tutte le libertà non solo regionali ma di tutti gli individui e di tutti i popoli. «Il Partito Italiano d’Azione non è che l’espressione della comunanza di sforzi di tutte le correnti politiche che in Italia e in Europa hanno accettato, contro il vecchio socialismo e il comunismo, il nostro concetto dell’inscindibile unità fra libertà politica e giustizia sociale. Ma su queste basi e con queste premesse combatté il Partito Sardo d’Azione fin dal suo primo sorgere, proclamando l’autonomia come garanzia di libertà politica e come condizione prima del riscatto sociale, problema quest’ultimo, che fin dalle origini il Partito Sardo d’Azione, aderendo alle minute esigenze delle nostre folle dolenti, delle nostre plebi rurali e operaie, pose al centro della sua lotta. «Ma questa lotta il Partito Sardo non legò a schemi astratti, né circoscrisse negli angusti limiti della regione, esso la combatté associandosi sempre, sia pure per necessità tattiche e per mete provvisorie, con tutti coloro che tendevano ai medesimi fini progressivi. «Oggi ci prepariamo alla lotta per la Costituente, che dovrà trasformare radicalmente lo Stato italiano sulla base delle nostre comuni aspirazioni. Sarà una lotta dura, – avverte Fancello – nella quale i gruppi isolati fatalmente soccomberanno. La reazione non è stata domata, è in agguato, tende a risorgere da tutti gli angoli. Di tale rinascente reazione è esempio tipico il separatismo siciliano che maschera interessi di grandi proprietari terrieri e di ingordi speculatori finanziari». Ecco qui un altro punto delicato della riflessione di Fancello e del suo invito agli «amici e compagni» sardisti anno 1944 a procedere in chiave d’integrazione politica con la corrente più avanzata della politica nazionale italiana: l’azionismo; a schiodarsi dal comodo immobilismo della contemplazione della felice stagione dei primi anni ’20 (felice stagione nel senso della effettiva tensione ideale, della capacità di risposta alla provocazione perfino sanguinosa dei dark isolani); direi anche: a liberarsi dal ritualismo puramente emotivo e delle parole d’ordine, magari dall’autoreferenzialità che è sempre un’illusione. Il separatismo – anche quello morale e politico, non soltanto quello giuridico – non è avanzamento, non è promozione, ma retrocessione e cedimento alla reazione, è autoconsegna agli interessi forti territoriali. «Sono ancora in piedi – ammonisce Fancello – tutti i grossi interessi che già foraggiarono il fascismo, tutti i gruppi monopolistici che soffocarono così le plebi come la piccola e media borghesia, travolgendo ogni residuo di libertà. Contro queste forze oscure e potenti occorre che si uniscano tutti coloro che sono animati dagli stessi intenti e dalla stessa fede. «Nel ’22 l’isolamento del Partito Sardo portò alla soffocazione delle aspirazioni sarde, cui mancarono la comprensione e l’appoggio di forze nazionali – attenzione perché qui è un altro punto centrale della riflessione fancelliana volta all’attualizzazione del sardismo e, direi, di ogni esperienza regionalista democratica dei primi anni ’20 – Oggi la situazione è profondamente mutata, ci sono forze compatte che affermano nel campo ideologico gli stessi programmi e lottano nel campo pratico per i medesimi fini. «Questa circostanza favorevole si attua nella solidarietà di idee e di interessi che accomuna i programmi e l’azione del Partito Sardo: noi combattiamo insieme per tutti gli oppressi, contro tutti gli oppressori. Autonomia politica e socializzazione definita entro precisi limiti, sono i punti base dei nostri programmi. Insieme noi respingiamo l’indiscriminata socializzazione che opprimendo anche la piccola e media borghesia è stata una delle cause principali del fascismo. Noi invece, mentre lottiamo contro i ceti monopolistici, rispettiamo però i piccoli e medi proprietari e le piccole e medie imprese, egualmente interessati nella lotta del proletariato contro i ceti plutocratici, che attraverso il fascismo, l’organizzazione corporativa e la politica di guerra travolsero nell’immane rovina tutte le forze produttive della nazione». Sullo scenario internazionale degli anni ’40 c’è quel che non c’era, o si era appena affacciata all’indomani della grande guerra: la Russia di Stalin, grande e tremenda dittatura che aveva sostituito quell’altro grande e tremendo sistema zarista. Noi – dice a questo punto Fancello ai suoi «amici e compagni» sardisti anno 1944 – «rendiamo omaggio al comunismo russo per la profonda trasformazione politica economica e sociale da esso operata a favore del popolo russo. Ma i principi ed i metodi che sono stati tragicamente necessari in quel clima non possono essere applicati al mondo occidentale che, rispetto alla Russia, ha già avuto l’esperienza e il progresso della rivoluzione francese e dove la distribuzione delle ricchezze, il problema della terra ed i rapporti sociali presentano aspetti e attendono soluzioni così profondamente diversi. Le rivoluzioni o si adeguano alla realtà storica dei popoli o falliscono fatalmente. La realtà storica dell’Italia ripugna profondamente così al comunismo russo come al socialismo tradizionale, che preparerebbero nuove dittature, nuove burocrazie oppressive delle libertà individuali, soffocando ancora una volta l’anelito delle masse lavoratrici e produttive verso un superiore equilibrio sociale e politico, reso operante solo dalla garanzia dei diritti individuali nel quadro di un effettivo ordine democratico. Il Partito Italiano ed il Partito Sardo d’Azione combattono con decisione su questo piano...» – è il passo che ho ricordato prima, e che avverto, per il concretismo che lo sottende, come intimamente salveminiano. «Le nostre masse organizzate, sempre più imponenti, sentono l’importanza e la grandezza di questa lotta, da cui solo potrà scaturire il trionfo delle libertà e della democrazia. Oggi essa si concreta nella battaglia oscura ed eroica dei Patriotti contro le tirannidi totalitarie. Chi ha vissuto la tragedia di Roma durante l’occupazione tedesca può dirvi con cuore riconoscente e commosso con quale slancio, con quale ardente consapevole e pur umile dedizione gli uomini del Partito d’Azione abbiano affrontato le insidie, le carcerazioni e il piombo criminale dei nemici della libertà. Giovani e vecchi di tutte le classi sociali, proletari delle officine e dei campi artigiani e intellettuali, con virtù antica, sono andati incontro al sacrificio supremo in nome della nostra idea. Più di 70, nella sola città di Roma, sono caduti per questa fede, col loro sangue consacrandola viva e degna di vittoria. I caduti ed i sopravvissuti, abbiamo lottato per la libertà che significa per noi anzitutto e soprattutto, autonomia, quell’autonomia che è in cima a tutte le nostre aspirazioni, e da cui, colle altre regioni d’Italia, anche la Sardegna, che per prima ne affermò l’esigenza, dovrà uscire rigenerata e redenta». Noi conosciamo l’entità delle forze che dall’Isola o comunque di isolani parteciparono alla guerra di liberazione. Richiamerei lo studio di Simone Sechi in L’antifascismo in Sardegna, il titolo di maggior riferimento per gli approfondimenti in materia, dovuto anni fa alle cure di Manlio Brigaglia, e Manconi, Mattone e Melis. E aggiungerei qui – ma è del mio privato – la memoria di quelle insistenze che mi rivolgeva la cara, compianta, amabilissima Elena Melis, perché anch’io mi applicassi a quella ricerca. Il che mi importa riferire proprio perché era da parte di una militante sardista – e di che levatura morale ed intellettuale! – che mi veniva, negli anni fra ’80 e ’90, quando molti ancora nel Partito Sardo parlavano a pranzo e a cena di indipendentismo, di sardismo come movimento di liberazione nazionale, di neutralismo e di etno-centrismo, l’invito a studiare la partecipazione dei sardi e dei sardisti alla lotta partigiana per la liberazione della comune patria italiana, in vista di ordinamenti democratici e repubblicani. Riprendo Fancello. «Anche più che negli anni della schiavitù, durante tutti quei mesi il nostro pensiero fu sempre volto alla Sardegna, come alla forza primigenia del nuovo risorgimento nazionale». Mi permetto qui un altro inciso di commento a questa battuta di Fancello, come ce la rende il resoconto di Pietro Melis: «Sardegna, forza primigenia del nuovo risorgimento nazionale». Vien fatto di pensare alla lettura della storia parallela della Sardegna e dell’Italia, come la dà uno storico del valore di Francesco Cesare Casula: della continuità cioè del Regno d’Italia dal Regno di Sardegna, e dunque della Sardegna come «forza primigenia» – ancorché soltanto sul piano del diritto – dello stato a più larga base territoriale. Storia lontana e dinastica, fondamentalmente, quella della metà del XIX secolo; qui noi invece trattiamo di storia democratica, di popolo, e di un mazzinianesimo che, certo ben al di là della sua dottrina, ha permeato la cultura politica di molti. E trattiamo, nel caso, degli Efisio Tola che centodieci anni dopo si sacrificano sì, ma toccano la terra promessa, o almeno – i meno fortunati – la intravedono ormai già nella sua realtà. «Emilio Lussu, affannosamente braccato dalla polizia fascista e nazista, – ricorda Fancello – errò più volte per la tragica solitudine della campagna romana, dove gli segnalavano la presenza di un aereo abbandonato e forse efficiente, per tornare in Sardegna, per tornare a voi sardi, ai suoi amici sardisti, sempre appassionatamente vivi nel suo cuore, come vivi e vigili erano stati nella ventennale lotta antifascista, e far divampare di qui, dalla sua isola, l’incendio della rivoluzione, che è, indissolubilmente, sarda, italiana ed europea. Questo vi dica quale intima continuità noi sentiamo fra Partito Sardo e Partito Italiano d’Azione. In realtà il Partito Italiano non è, e non può essere nulla di diverso dal Partito Sardo d’Azione che ha sempre cospirato con “Giustizia e Libertà”, che a “Giustizia e Libertà” diede l’apporto generoso e attivo dei suoi uomini migliori». Il rapporto fra Giustizia e Libertà ed il sardismo – mi permetto di osservare qui – è uno dei campi di studio non ancora interamente esplorati, anche se diverse sono le ricerche che l’hanno saggiato – quelle del professor Brigaglia le prime, e anche sempre le più brillanti –, magari però incidentalmente, quasi di complemento a un tema più specifico oggetto della ricerca, come per esempio “Lussu e GL”. E meriterebbe scandagliare meglio la militanza giellista dei sardisti sia nell’Isola, nei lunghi anni ’30 – ad iniziare magari da Luigi Battista Puggioni –, che fuori, sulla penisola e anche per campi di battaglia, in Spagna e forse anche oltre – da Dino Giacobbe a Giuseppe Zuddas. Dice Fancello: «Quando nell’ottobre del ’30, io caddi nelle mani della polizia fascista, tremai per la sorte di Luigi Oggiano, fervido compagno della stessa cospirazione, e di tanti altri amici sardi del Partito Sardo d’Azione, cui ci accomunava, in contatti e corrispondenze quasi quotidiane, la stessa attività clandestina di lotte contro la tirannide». Ricordiamo la minuziosa relazione cifrata di Froid a Carciofo, di Pintus a Lussu già esule, in quella lettera dell’ottobre 1930, che intercettata dalla polizia finì per condurre in carcere e Fancello, cui essa era destinata in prima battuta, e lo stesso scrivente. «Fummo insieme allora, dobbiamo essere insieme ora e sempre...». E’ la conclusione del discorso, applauditissimo, di Francesco Fancello all’assise congressuale di Macomer di un Partito Sardo d’Azione che deve rispondere “sì” o “no”, e se “si” come, alla proposta avanzata da Emilio Lussu di intesa federativa fra Quattro Mori e Spada Fiammeggiante e incudine e vanga e libro e quant’altro simboleggia l’azionismo. La deliberazione finale del congresso – risultato di molti apporti e di molte mediazioni – sarà per il “sì”. Giovanni Battista Melis – fra i sostenitori dell’accordo, con Mastino e Puggioni, e Oggiano ecc. – dirà, anni dopo, che il 99 per cento dei delegati era contraria. Certo si tratta di un’esagerazione motivata dalla situazione contingente nella quale Melis rievocava l’episodio, ma è indubbio che l’orientamento della grande sala non era favorevole. Nonostante il carisma di Fancello. Comunque l’accordo che si stipulerà a metà settembre fra le dirigenze del PSd’A e quelle provinciali del Partito d’Azione nell’Isola non comporterà, invero, alcun sacrificio per i sardisti. I quali otterranno soltanto benefici: la composizione di quella scissione di fatto presente in numerosi paesi della Sardegna fra la militanza fedele ai Quattro Mori e quella lussiana organizzata nelle sezioni azioniste (perché queste ultime dovranno chiudere e confluire nelle sezioni sardiste); per non dire poi del riconoscimento, che troverà pratica attuazione nel governo Parri del giugno 1945 e in quello successivo, il primo De Gasperi del dicembre 1945, della presenza di un esponente sardista nel ministero (sarà Pietro Mastino sottosegretario al Tesoro con delega ai danni di guerra) e nella Consulta nazionale (sarà Luigi Battista Puggioni almeno per alcuni mesi, fino alle sue dimissioni, che pure costituiscono un episodio che meriterebbe di essere meglio approfondito). Nessun prezzo pagheranno i sardisti per l’adesione data all’invito di Lussu e Fancello all’unità del lavoro politico, intanto sul piano pratico: nel senso che l’accordo non impedì al partito – per dirne soltanto una – di criticare le chiamate sotto le armi dei giovani sardi strappati così, fra 1944 e 1945, alle cure della campagna (cioè delle fonti di sostentamento delle famiglie)... Vero è, invece, che il sardismo pagò elettoralmente il prezzo della speculazione degli avversari, soprattutto dei democristiani, i quali tesero in ogni occasione a rimarcare l’alleanza con una formazione di storia e dottrina laicista: il che toccava un nervo scoperto dell’elettorato rurale del Partito Sardo, prevalentemente cattolico. E noi ricordiamo i sacramenti negati ad Oliena e non soltanto ad Oliena ai sardisti non pentiti: no ai funerali quando presente la bandiera dei Quattro Mori, no all’assoluzione del confessionale e no all’eucarestia... E a poco valse che, per stornare, per quanto possibile, la sleale concorrenza clericale, i sardisti si presentassero soli – fuori cioè dal cartello con gli azionisti – alle consultazioni del 2 giugno 1946, quando furono eletti alla Costituente soltanto Lussu e Mastino... Ma questa è storia del dopo. Tornerei, per chiudere, all’estate 1944 ed a Fancello che firma un fondino sul numero unico sardista Forza Paris! che accoglie il resoconto congressuale. Un fondino di grande significato anche pedagogico, premesso a quello di Pietro Mastino, titolato “Il voto di Macomer”. Una Italia di libere autonomie Scrive Fancello: «Non è senza significato che il Partito Sardo d’Azione, nell’atto stesso in cui è sceso in campo per l’autonomia, ha fatto risuonare l’antico grido di guerra “Forza Paris!”. «Ogni lotta rivoluzionaria è insieme adunata e distacco. La Sardegna era da secoli ammalata di solitudine, solitudine dei suoi contadini e pastori, solitudine dei suoi operai, dissociati e divisi, preda del privilegio e del malgoverno di pochi; solitudine del popolo sardo nella famiglia delle regioni d’Italia, soggetto alla metropoli come una colonia, avulso dal gioco vivo delle forze politiche continentali. «L’autonomia vuol essere distacco morale politico dal vecchio mondo d’impotenza e di corruzione, vuol essere affrancamento del lavoratore da ogni privilegio, riaffermazione della libertà individuale e insieme rivendicazione della personalità inconfondibile della Sardegna, contro ogni tradizione di servilismo e di assenza. Autonomia! «Ma ogni lotta è anche adunata. «Adunata degli sfruttati, adunata degli assenti. I lavoratori di Sardegna riconoscono se stessi ed i propri diritti, non più ascari ma uomini liberi. Forza Paris! Si stringono in ranghi serrati e proiettano il proprio impulso oltre il cerchio che li chiudeva come in una bara. Forza Paris! E stendono la mano ai liberi lavoratori d’oltre mare che sentono come essi l’onta della reazione e del dispotismo. Forza Paris! «E insieme vogliono costruire una Italia di libere autonomie, un’Europa federalista, e democratica, e vivere da pari a pari, nel consorzio delle nazioni civili, come Sardi, come Italiani e come Europei. Forza Paris!». Mastino su Fancello-pensiero Importerà richiamare, per evidente connessione tematica, anche brevi passi dell’editoriale di Pietro Mastino, riferiti a Fancello e alla sua proposta di patto politico. Dalla sua assise, il Partito Sardo d’Azione – scrive l’anziano leader nuorese – «esce rafforzato materialmente perché è stata riconosciuta l’impossibilità di coesistenza nell’Isola di due gruppi politici che assumano la difesa degli stessi princìpi e tale funzione dovrebbe spettare al partito sardo; ne esce rafforzato idealmente perché, riconoscendo come propri i punti programmatici del partito italiano d’azione, à riconfermato le proprie origini ideali e riconsacrata, diremmo, la propria giovinezza. Le decisioni di Macomer dovrebbero poi giovare alla Sardegna perché alla soluzione dei suoi problemi rimarrebbe anche impegnata tutta l’opera del partito italiano». E ancora: «I principi di carattere istituzionale, come quelli di carattere sociale, sono fondamentalmente identici nei due partiti, … e C. Bellieni, F. Fancello ed E., Lussu, tre autentici sardisti, portarono, fin dal 1921, nel campo nazionale i principi federalistici ed autonomistici del partito sardo. Noi continueremo la nostra strada; la continueremo in cordiale accordo con i nuovi amici politici che lealmente verranno e lealmente accoglieremo nelle nostre file, animati tutti dalla speranza che la Sardegna, con tutte le altre regioni italiane – e cioè la Patria – sorga, dopo tanto sangue, ad una vita che sia veramente di libertà e di giustizia sociale per tutti...». Riflessioni finali La questione che, quando si affacciò l’idea di questa giornata fancelliana, mi era stato proposto di valutare – il sardoAzionismo fancelliano (che è cultura politica ormai trascorsa, direi sedimentata nelle aree del repubblicanesimo e del socialismo italiani e anche, in certo modo, di quanto di nuovo da esse è germinato in tempi più recenti) e la Costituente sarda (che è dibattito attuale, coinvolgente anche forze politiche assai distanti dal sardoAzionismo) – non avrebbe potuto ottenere, e non otterrà infatti, dall’analista, nonostante la sua indipendenza, un giudizio franco dalle sue convinzioni ed esperienze di studio e civili. Esso sarà perciò soltanto sobriamente annunciato, anche come contributo all’altrui riflessione e al dibattito. La questione che si discute è quella della soggettività istituzionale, e prima ancora sociale, della Sardegna – cioè della popolazione sarda (titolare di una ipotetica autonoma sovranità e di un patrimonio territoriale) rispetto alle altre popolazioni italiane e nel contesto di un ordinamento costituzionale che riconosca, rispetti e valorizzi le specificità definite dalla geografia naturale e dalla storia dei millenni. L’eventualità del nesso fra il sardoAzionismo di Fancello, che muove da valori universali, e il dibattito attuale intorno alla Costituente sarda sono tutte qui: se la Sardegna non dico debba o possa o voglia vivere indipendente, scoglio separato dalle coste dei più vasti mondi, ma se essa legittimamente aspiri al riconoscimento di una assoluta alterità rispetto a quanto contenuto storico, culturale, spirituale e politico connoti il restante territorio dell’Italia, e se la codificazione di tale sua alterità implichi, ancorché non lo si voglia confessare, un rimando a nazionalismi sempre vieti quando non siano giustificati dalla contemporanea lotta per la libertà e la democrazia. L’approccio che molti hanno con la questione della Costituente è segnato da opzioni etniciste e nazionalitarie (taluni “garibaldini” del vocabolario ormai si definiscono nazionalisti tout court, facendo spallucce a quanto la storia ha messo di sgradevole sulle spalle del nazionalismo, di ogni nazionalismo intimamente reazionario). Tale problematica – va detto – era estranea al pensiero ed alla esperienza intellettuale e politica di Fancello; estranea a quella di tutti i sardoAzionisti – da Lussu a Siglienti, da Mario Berlinguer alla Martini Musu, da Fantoni a Cottoni a Pintus, a Gonario Pinna stesso. E certo nessun nazionalitario d’oggi potrebbe pensare che l’amore alla Sardegna dei sardoAzionisti fosse allora minore di quello suo attuale. Amore alla Sardegna non retorico, s’intende, amore che è consapevolezza civile di una identità in un contesto e geografico e storico. L’idea stessa del regionalismo, dell’autogoverno territoriale nel quadro di un ordinamento largo, è figlia dell’idea e della prassi democratica. Ottant’anni fa quasi di questi giorni il fascismo prendeva il potere con la complicità di casa Savoia. Negli stessi giorni i delegati sardisti si riunivano in congresso, in Nuoro, a casa Mastino. Nessun nazionalitario onesto potrebbe ritenere che la lucidità intellettuale di quei protagonisti della democrazia passati dalle carceri al confino, dai rischi della stampa clandestina e dei no testimoniali in tribunale ai campi della resistenza armata a burgundi e collaborazionisti fosse inferiore alla sua. Sappiamo della presa di conoscenza, da parte del congresso azionista di Roma del febbraio 1946 (tre mesi prima del tentativo di Lussu di far passare, alla Consulta nazionale, lo statuto d’autonomia proposto per la Sicilia anche per la Sardegna), dello schema di statuto sardo elaborato da Gonario Pinna e rivisitato, verso la fine del 1945, da Luigi Oggiano; uno statuto – aveva scritto Gonario Pinna sul Solco sardista – che assicurava «il rispetto dei diritti sovrani dello Stato, conservando quei vincoli essenziali di natura giuridica, finanziaria e sentimentale che fanno una Regione partecipe della vita nazionale e dei destini d’uno Stato». Quale la parentela, se mai ce n’è una, del sogno nazionalitario con le idealità fancelliane, del teorico del primo sardismo combattentista e del socialismo contadino, del meridionalismo autonomista, e dell’azionismo anche, nell’alveo della militanza, e del martirio, antifascista e antimonarchico, secondo un’attualizzazione mazziniana, autentica nella sua impostazione etico-politica ed eterodossa nelle sue proposizioni di programma politico di taglio laburista? Fra quel Fancello e questo nazionalitarismo sardo o sardista che ha cavalcato, lungo la fine degli anni ’70 e tutti gli anni ’80 e dopo ancora, tutti i destrieri e anche i ronzini del populismo neutralista, e non ha saputo, evidentemente, accompagnare i suoi uomini migliori impegnati negli esercizi necessari di quell’arte nobile che è la politica, e che è anche, o può essere, l’amministrazione? Perché quanto più grande è il nulla delle conoscenze e delle competenze, tanto più impellente è abbaiare alla luna ed affastellare idee estemporanee che vanno tutte per la tangente della realtà. Ciò nonostante, da quel nazionalitarismo non sarebbe generoso, né equo, né vero, negare siano emersi – oltre la letteratura, e anche letteratura di gran pregio e valore universale (si pensi soltanto a Francesco Masala) – spunti per una migliore e più avanzata presa di coscienza identitaria. Il problema sarebbe poi di come porre in relazione la coscienza identitaria con il vasto mondo. Perché dire di “nazioni proibite” e “lingue tagliate” è cosa che merita studiarsi e dibattere, ma tenendo conto che non se possono trarre conclusioni dogmatiche incompatibili le realizzazioni democratiche avanzate quali la storia ha prodotto nella dimensione italiana e, oggi, nella proiezione italiana verso l’Europa. A dar retta ad una certa impostazione politica che definirei dell’oltranzismo autonomistico, rischieremmo di pagare agli interessi dell’egoismo sociale (della convenienza puramente materiale cioè) l’alto prezzo della politica autentica, cioè della tutela degli interessi nobili. Si ripensi a Salvemini, e anche a Gramsci: alla necessità di saldare in alleanze i ceti sociali più deboli, rompendo le gabbie territoriali. Si diceva, allora: i contadini del sud con il proletariato del nord. Certo l’Italia d’oggi è radicalmente cambiata rispetto a quello che era negli assetti e negli equilibri, che poi erano squilibri strutturali voluti, che rendevano i forti sempre più forti, e indebolivano progressivamente i già deboli. Ricordo pagine illuminanti di Pietro Melis – per restare nell’ambito sempre della militanza politica e non scomodare teorici ed accademici –, su questo. Rimane però il principio, il valore storico e ideale di quella esperienza di riforma di un sistema produttivo, sociale e politico che contraddiceva al risorgimento unitario e consolidava il dualismo nord-sud. Il sardismo di Bellieni e di Fancello, e anche di Lussu, si poneva negli anni ’20 – come ho ricordato – in una logica responsabile di “partito italiano d’azione”. Quello salveminiano, cioè di sinistra social-radicale e meridionalista, era l’indirizzo di fondo adottato – quali che fossero poi le mediazioni o le sottolineature di questo o quell’esponente – dal sardismo reducista, ma direi, prima ancora, dal sardismo che era testimone dell’esperienza delle trincee, che andava maturando il disegno dell’unità nazionale svincolato dalla logica soffocante del centralismo, ma lo vivificava, al contrario, attraverso l’esaltazione delle originalità regionali. Certo la questione di dare, prima ancora che contenuti alla carta dell’autonomia, legittimità potremmo anche dire costituente ad una autorità politica quale era la Consulta regionale degli anni 1945-1947 (peraltro essa stessa nominata e non eletta), assunse carattere dirimente allorché nella primavera 1946, in costanza di primo governo De Gasperi, a un mese soltanto dalla conta delle urne politiche, si pose il problema, a Montecitorio, alla Consulta nazionale cioè, di estendere alla Sardegna lo stesso statuto autonomistico, in perfetta chiave federalista, della Sicilia. Lussu, uomo consapevole delle logiche di realpolitik e portatore anche di una visione nazionale dell’interesse regionale, fu per questa soluzione. Sappiamo che anche Giovanni Battista Melis – egli stesso l’ha lasciato scritto nelle sue memorie – era per questa soluzione. Non lo furono altri consultori regionali – e non senza ragioni (dico: senza ragione, ma certo con ragioni) – e sappiamo come finì. La rivendicazione estrema, da parte dei consultori regionali sardisti, della legittimità costituente della sola istituzione a parvenza democratica perché pluripartitica, fra quelle presenti nella Sardegna del tempo, portò ad una elaborazione che fu sostanzialmente rimaneggiata dall’Assemblea costituente – dove le posizioni antiautonomistiche, sia sul fronte moderato che su quello della sinistra, erano certamente superiori, per forza e numero, a quelle ipotizzate. La repubblica delle autonomie è l’idea che è stata svillaneggiata da quanti l’hanno intesa, strumentalmente, come ordinamento minimale rispetto ad uno che meritasse l’aggettivo di federale. Come se il federalismo fosse di necessità una evoluzione della repubblica delle autonomie, strappata al potere politico centrale dall’evidenza delle ragioni etniche che pretenderebbero a ragione un riconoscimento statuale. Ma non può esserci governo di un sistema politico se mancano le condizioni culturali-politiche, se non v’è classe dirigente all’altezza, classe dirigente motivata e responsabile, classe dirigente capace di vedere le dinamiche della storia, l’orientamento dei processi in atto, natura e dimensioni di quelli da attivare. A un’autorità autonoma locale che svendesse i beni naturali di un territorio alle logiche speculative, coltivate magari da sardi stessi, e compromettesse per generazioni i beni infungibili, nessun democratico – io oso credere – potrebbe non preferire un potere centrale sovraordinato rispettoso dell’interesse generale e capace di impedire lo scempio. Perché l’interesse collettivo rappresentato dall’azione di tutela dello stesso bene deve sempre poter far premio sul livello istituzionale chiamato ad esercitarla. Temo che il dogmatismo autonomista che s’è affacciato in settori dell’attuale movimento per la Costituente sarda possa replicare, mutatis mutandis, l’errore di miopia del 1946 di una parte della politica sarda. Ricordo quell’osservazione fancelliana secondo cui «il valore degli organi territoriali sarebbe dipeso direttamente dal carattere delle forze che vi fossero incorporate, dai fini che esse si fossero proposti, dai metodi di lotta che esse avessero adottato». Mi rendo conto della scivolosità di questo terreno, del rapporto cioè fra livelli istituzionali e politici che traggono la loro sovranità da fonti primarie, ma scorgo che ad essere malato è il concetto stesso di politica quale che sia il livello nel quale questa trovi formazione ed espressione. Non mi inoltro. Quando si entra in una logica di oltranzismo ideologico e si perdono di vista i valori universali che danno sostanza ad una politica democratica, può anche ipotizzarsi – e lo si è fatto – prima un parallelo, poi una convergenza di interessi perfino fra sardismo e leghismo. Un’aberrazione, a mio avviso, e do merito al presidente Melis di aver ammonito a suo tempo alla lucidità delle analisi e alla nettezza delle conclusioni. Il nodo dell’appartenenza territoriale, cioè del vincolo politico all’interesse di territorio, assume a mio avviso un valore dirimente fra il miglior sardismo e il fenomeno leghista, e vorrei anche dire – purtroppo – il miglior sardismo storico ed il peggior sardismo, indotto a sottoproduzioni localistiche. E d’altra parte pensiamo a quanto il mito della “piccola patria sarda” che sacrificò i valori universali della libertà e della democrazia fu alla base della opzione fusionista dei fasciomori nel 1923. Non si può barattare uno statuto di libertà per una diga e neppure per cento. Perché poi, all’evidenza dello scostamento di valore fra le due poste in gioco, si aggiungono anche, inevitabilmente, quelle viete pulsioni opportunistiche che smentiscono la supposta stessa generosità dell’errore. (E’ anche storia assai recente e direi attuale di traslochi penosi, armi e bagagli, di certuni che dieci anni fa si professavano indipendentisti ed accusavano gli avversari di “italianismo”, in formazioni che s’intitolano al tifo sportivo nazionale). Il fenomeno leghista (inizialmente Lega lombarda, poi Lega nord) ha incanalato, in un riferimento di appartenenza territoriale, una militanza civile e politica che, per la parola stessa, dovrebbe essere volta ad un interesse generale comunitario. E per quanto possano valere – al di là delle indubbie suggestioni – gli accostamenti anche simbolici, verrebbe da pensare a quella bandiera tricolore che Bellieni avrebbe voluto reinnalzare sulle nostre case una volta che fosse compiuto uno strappo con la madre patria, e l’uso improprio e villano e sconcio che dello stesso vessillo proponeva di fare il Bossi oggi ossequiato ministro della Repubblica. Supporre una convergenza fra l’esperienza ideale e storica compiuta dal sardismo e quella del leghismo costituirebbe un fondamentale errore. Perché sarebbe errore già nel presupposto dell’accostamento – chiaramente di scenario e di significatività – fra un movimento politico democratico che nasce in una terra povera e marginale e un altro movimento che difende interessi forti e privilegiati, perdendo il senso alto della politica che si chiama solidarietà. Sicché mentre il primo nasce da una esigenza di unità, da una rivendicazione politica e direi patriottica di parità nel riconoscimento e nella tutela e promozione dei suoi interessi socio-economici, dopo che identitari, con quelli delle aree più sviluppate nell’economia e nell’organizzazione sociale, il secondo nasce con un rozzo delirio secessionistico come risposta alla chiamata alla condivisione del suo benessere con i meno fortunati, perché non sa godere della integrazione con le altre originalità. «Con cuore di sardo e di italiano» – testuali – parlava ai suoi colleghi di Montecitorio, nella prima e quarta legislatura repubblicana, l’on. Giovanni Battista Melis che avrebbe commemorato Fancello, nel 1970, al Consiglio regionale; con quello spirito – lui che ha incarnato i tormenti, gli impulsi, gli avanzamenti, le contraddizioni anche, le riflessioni e le vicende comunque del sardismo di lunghi trent’anni – dopo l’abbandono di Lussu – egli parlò e scrisse sempre: per «l’unità vera della patria». C’era la patria, doveva esserci l’unità 3 – Appendice. Fancello al VI congresso di Macomer Al VI congresso regionale (il primo del dopo-fascismo) del Partito Sardo d’Azione in corso a Macomer, Francesco Fancello interviene, con un suo discorso, nella tarda mattinata di domenica 30 luglio 1944. Stefano Siglienti – ministro delle Finanze in carica nel primo governo di CLN presieduto da Ivanoe Bonomi, ed altro “inviato” di Lussu all’assise sardista – ha invece parlato nella mattinata del 29, subito dopo l’apertura dei lavori da parte di Pietro Mastino. Per quanto già ampiamente ripreso nel testo della relazione al convegno dorgalese sopra riprodotto, ecco ora a seguire quell’intervento di Fancello così come lo pubblica, nella più ampia cronaca congressuale dovuta a Pietro Melis, il numero unico Forza Paris!, del luglio 1944. «Quando Francesco Fancello sale sulla tribuna l’assemblea scatta in piedi applaudendo lungamente alla sua scarna, ascetica, ardente figura di apostolo e di combattente», scrive Melis, segretario del congresso. Che così chioserà: «Fancello ha parlato a lungo, seguito con attenzione viva e vibrante dall’assemblea che ha ripetutamente sottolineato con approvazioni ed applausi i punti salienti del suo discorso, e lo ha salutato alla fine con imponente manifestazione di consenso e di affetto». Egli inizia ringraziando gli amici e i compagni del Partito Sardo d’Azione, per l’applauso con cui l’hanno salutato e che egli sente e accoglie come un segno di fraternità cordiale verso un compagno della vecchia guardia. Ricorda quindi per rapidi scorci il sorgere del Partito Sardo d’Azione: prima moto sentimentale nelle trincee della Guerra Mondiale, quando il dolce e fiero nome di Sardegna cominciò a risuonare, segno di una sorgente coscienza isolana fra le nostre masse, sul Carso, negli Altipiani, al Piave. Fu allora che i soldati sardi giurarono di far risuonare quel dolce nome come grido di battaglia, come voce di cittadini consapevoli, che volevano partecipare da liberi e da pari alla vita nazionale; fu allora che essi decisero di difendere i diritti e gli interessi della Sardegna, prima abbandonata al piccolo intrigo dei ras politici locali, sentita e trattata dai governi come un paese coloniale aspettante, come alla porta di una chiesa, l’elargizione di un’elemosina. I combattenti sardi scesero in campo per combattere l’antico pregiudizio che la Sardegna fosse in condizioni di inferiorità rispetto alle altre regioni d’Italia. Quel moto sentimentale si espresse poi in concreta volontà d’azione, si espresse nel programma politico del Partito Sardo, la cui battaglia s’impostò sul concetto rivoluzionario o dell’autonomia, intesa non come isolamento, poiché l’isolamento era stata la piaga di tanti secoli di fronte ai governi centralizzati, ma proprio come superamento dell’isolamento, nella solidarietà di forze amiche che combattessero la stessa battaglia. Oggi più ancora che nel passato la battaglia per l’autonomia della Sardegna deve respingere qualunque posizione isolazionistica. L’isolazionismo non tiene conto della tragicità della situazione di un paese vinto che è ben lontano dal potere con tanta libertà disporre del proprio destino; e soprattutto non comprende che alla Sardegna si chiuderanno tutte le porte se non sarà in grado di dire una parola universale, che possa essere accolta e sostenuta dalle masse lavoratrici non solo isolane, ma anche nazionali ed europee. Il Partito Sardo d’Azione ha sempre sostenuto il riscatto sociale di tutti gli oppressi ed ha sempre cercato l’assistenza delle forze politiche e sociali che sostenevano la stessa lotta, portando nel campo nazionale il principio di una federazione di regioni autonomiste. Questa visione del problema sardo, superando la ristretta cerchia regionale, condusse Emilio Lussu, esule in Francia, ad andare oltre i concetti del nazionalismo piccolo e grande, per proiettare l’idea rivoluzionaria, accesa in Sardegna, su un orizzonte più vasto, per inserirla in movimenti di valore universale. Attraverso “Giustizia e Libertà” Lussu riprese la sua lotta sul piano nazionale ed internazionale, cercando sempre il sostegno degli amici sardi del Partito Sardo d’Azione in questa lotta contro il potere centralizzato, esasperato ed oppressivo. E la piccola voce della Sardegna divenne in Francia, in Inghilterra, in America l’ammonimento contro il fascismo come minaccia di tutte le libertà non solo regionali ma di tutti gli individui e di tutti i popoli. Il Partito Italiano d’Azione non è che l’espressione della comunanza di sforzi di tutte le correnti politiche che in Italia e in Europa hanno accettato, contro il vecchio socialismo e il comunismo, il nostro concetto dell’inscindibile unità fra libertà politica e giustizia sociale. Ma su queste basi e con queste premesse combatté il Partito Sardo d’Azione fin dal suo primo sorgere, proclamando l’autonomia come garanzia di libertà politica e come condizione prima del riscatto sociale, problema quest’ultimo, che fin dalle origini il Partito Sardo d’Azione, aderendo alle minute esigenze delle nostre folle dolenti delle nostre plebi rurali e operaie, pose al centro della sua lotta. Ma questa lotta il Partito Sardo non legò a schemi astratti, né circoscrisse negli angusti limiti della regione, esso la combatté associandosi sempre, sia pure per necessità tattiche e per mete provvisorie, con tutti coloro che tendevano ai medesimi fini progressivi. Oggi ci prepariamo alla lotta per la Costituente, che dovrà trasformare radicalmente lo Stato italiano sulla base delle nostre comuni aspirazioni. Sarà una lotta dura, nella quale i gruppi isolani fatalmente soccomberanno. La reazione non è stata domata, è in agguato, tende a risorgere da tutti gli angoli. Di tale rinascente reazione è esempio tipico il separatismo siciliano che maschera interessi di grandi proprietari terrieri e di ingordi speculatori finanziari. Sono ancora in piedi tutti i grossi interessi che già foraggiarono il fascismo, tutti i gruppi monopolistici che soffocarono così le plebi come la piccola e media borghesia, travolgendo ogni residuo di libertà. Contro queste forze oscure e potenti occorre che si uniscano tutti coloro che sono animati dagli stessi intenti e dalla stessa fede. Nel ‘22 l’isolamento del Partito Sardo portò alla soffocazione delle aspirazioni sarde, cui mancarono la comprensione e l’appoggio di forze nazionali. Oggi la situazione è profondamente mutata, ci sono forze compatte che affermano nel campo ideologico gli stessi programmi e lottano nel campo pratico per i medesimi fini. Questa circostanza favorevole si attua nella solidarietà di idee e di interessi che accomuna i programmi e l’azione del Partito Sardo: noi combattiamo insieme per tutti gli oppressi, contro tutti gli oppressori. Autonomia politica e socializzazione definita entro precisi limiti, sono i punti base dei nostri programmi. Insieme noi respingiamo l’indiscriminata socializzazione che opprimendo anche la piccola e media borghesia è stata una delle cause principali del fascismo. Noi invece, mentre lottiamo contro i ceti monopolistici, rispettiamo però i piccoli e medi proprietari e le piccole e medie imprese, egualmente interessati nella lotta del proletariato contro i ceti plutocratici, che attraverso il fascismo, l’organizzazione corporativa e la politica di guerra travolsero nell’immane rovina tutte le forze produttive della nazione. Noi rendiamo omaggio al comunismo russo per la profonda trasformazione politica economica e sociale da esso operata a favore del popolo russo. Ma i principi ed i metodi che sono stati tragicamente necessari in quel clima non possono essere applicati al mondo occidentale che, rispetto alla Russia, ha già avuto l’esperienza e il progresso della rivoluzione francese e dove la distribuzione delle ricchezze, il problema della terra ed i rapporti sociali presentano aspetti e attendono soluzioni così profondamente diversi. Le rivoluzioni o si adeguano alla realtà storica dei popoli o falliscono fatalmente. La realtà storica dell’Italia ripugna profondamente così al comunismo russo come al socialismo tradizionale, che preparerebbero nuove dittature, nuove burocrazie oppressive delle libertà individuali, soffocando ancora una volta l’anelito delle masse lavoratrici e produttive verso un superiore equilibrio sociale e politico, reso operante solo dalla garanzia dei diritti individuali nel quadro di un effettivo ordine democratico. Il Partito italiano ed il Partito Sardo d’Azione combattono con decisione su questo piano, così contro le forze della reazione, rappresentate dalla monarchia e dalla grassa borghesia, come contro le stesse forze dell’estremismo nazionale di sinistra. Le nostre masse organizzate, sempre più imponenti, sentono l’importanza e la grandezza di questa lotta, da cui solo potrà scaturire il trionfo delle libertà e della democrazia. Oggi essa si concreta nella battaglia oscura ed eroica dei Patriotti contro le tirannidi totalitarie. Chi ha vissuto la tragedia di Roma durante l’occupazione tedesca può dirvi con cuore riconoscente e commosso con quale slancio, con quale ardente consapevole e pur umile dedizione gli uomini del Partito d’Azione abbiano affrontato le insidie, le carcerazioni e il piombo criminale dei nemici della libertà. Giovani e vecchi di tutte le classi sociali, proletari delle officine e dei campi artigiani e intellettuali, con virtù antica, sono andati incontro al sacrificio supremo in nome della nostra idea. Più di 70, nella sola città di Roma, sono caduti per questa fede, col loro sangue consacrandola viva e degna di vittoria. I caduti ed i sopravvissuti, abbiamo lottato per la libertà che significa per noi anzitutto e soprattutto, autonomia, quell’autonomia che è in cima a tutte le nostre aspirazioni, e da cui, colle altre regioni d’Italia, anche la Sardegna, che per prima ne affermò l’esigenza, dovrà uscire rigenerata e redenta. Anche più che negli anni della schiavitù, durante tutti quei mesi il nostro pensiero fu sempre volto alla Sardegna, come alla forza primigenia del nuovo risorgimento nazionale. Emilio Lussu, affannosamente braccato dalla polizia fascista e nazista, errò più volte per la tragica solitudine della campagna romana, dove gli segnalavano la presenza di un aereo abbandonato e forse efficiente, per tornare in Sardegna, per tornare a voi sardi, ai suoi amici sardisti, sempre appassionatamente vivi nel suo cuore, come vivi e vigili erano stati nella ventennale lotta antifascista, e far divampare di qui, dalla sua isola, l’incendio della rivoluzione, che è, indissolubilmente, sarda, italiana ed europea. Questo vi dica quale intima continuità noi sentiamo fra Partito Sardo e Partito Italiano d’Azione. In realtà il Partito Italiano non è, e non può essere nulla di diverso dal Partito Sardo d’Azione che ha sempre cospirato con “Giustizia e Libertà”, che a “Giustizia e Libertà” diede l’apporto generoso e attivo dei suoi uomini migliori. Quando nell’ottobre del ‘30, io caddi nelle mani della polizia fascista, tremai per la sorte di Luigi Oggiano, fervido compagno della stessa cospirazione, e di tanti altri amici sardi del Partito Sardo d’Azione, cui ci accomunava, in contatti e corrispondenze quasi quotidiane, la stessa attività clandestina di lotte contro la tirannide. Fummo insieme allora, dobbiamo essere insieme ora e sempre. La Sardegna deve onestamente pensare che ci sono altri fratelli che hanno problemi simili, le stesse esperienze, le stesse piaghe dolenti, altri fratelli che combattono per la stessa battaglia. Questa consapevolezza ci accomuni nell’ora tragica che volge, ci stringa fraternamente nell’ansia di dare alla Sardegna e all’Italia, attraverso la rivoluzione istituzionale e la nuova visione del problema del lavoro, la vera libertà politica e la vera giustizia sociale, basi eterne del progresso dei popoli. A firma dello stesso Franceco Fancello compare sul giornale sardista, premesso a quello di Pietro Mastino – presidente del congresso –, il seguente fondino titolato “Il voto di Macomer”. Non è senza significato che il Partito Sardo d’Azione, nell’atto stesso in cui è sceso in campo per l’autonomia, ha fatto risuonare l’antico grido di guerra “Forza Paris!”. Ogni lotta rivoluzionaria è insieme adunata e distacco. La Sardegna era da secoli ammalata di solitudine, solitudine dei suoi contadini e pastori, solitudine dei suoi operai, dissociati e divisi, preda del privilegio e del malgoverno di pochi; solitudine del popolo sardo nella famiglia delle regioni d’Italia, soggetto alla metropoli come una colonia, avulso dal gioco vivo delle forze politiche continentali. L’autonomia vuol essere distacco morale politico dal vecchio mondo d’impotenza e di corruzione, vuol essere affrancamento del lavoratore da ogni privilegio, riaffermazione della libertà individuale e insieme rivendicazione della personalità inconfondibile della Sardegna, contro ogni tradizione di servilismo e di assenza. Autonomia! Ma ogni lotta è anche adunata. Adunata degli sfruttati, adunata degli assenti. I lavoratori di Sardegna riconoscono se stessi ed i propri diritti, non più ascari ma uomini liberi. Forza Paris! Si stringono in ranghi serrati e proiettano il proprio impulso oltre il cerchio che li chiudeva come in una bara. Forza Paris! E stendono la mano ai liberi lavoratori d’oltre mare che sentono come essi l’onta della reazione e del dispotismo. Forza Paris! E insieme vogliono costruire una Italia di libere autonomie, un’Europa federalista, e democratica, e vivere da pari a pari, nel consorzio delle nazioni civili, come Sardi, come Italiani e come Europei. Forza Paris! Importerà richiamare anche brevi passi dell’editoriale di Pietro Mastino, riferiti a Fancello e alla sua proposta di patto politico fra sardisti ed azionisti, implicante anche la chiusura delle sezioni azioniste nell’Isola (quelle animate da Cesare Pintus nel Cagliaritano, da Gonario Pinna nel Nuorese, da Salvatore Cottoni nel Sassarese) e la loro confluenza in quelle dei Quattro Mori. Dalla sua assise, il Partito Sardo d’Azione – scrive Mastino, che da sardista ma in “quota” del Partito d’Azione, sarà sottosegretario di Stato al Tesoro con delega ai danni di guerra nel governo Parri del secondo semestre 1945 e nel primo ministero De Gasperi che seguirà nel primo semestre 1946, fino alle elezioni per la Costituente – «esce rafforzato materialmente perché è stata riconosciuta l’impossibilità di coesistenza nell’Isola di due gruppi politici che assumano la difesa degli stessi princìpi e tale funzione dovrebbe spettare al partito sardo; ne esce rafforzato idealmente perché, riconoscendo come propri i punti programmatici del partito italiano d’azione, à riconfermato le proprie origini ideali e riconsacrata, diremmo, la propria giovinezza. Le decisioni di Macomer dovrebbero poi giovare alla Sardegna perché alla soluzione dei suoi problemi rimarrebbe anche impegnata tutta l’opera del partito italiano». E ancora: «i principi di carattere istituzionale, come quelli di carattere sociale, sono fondamentalmente identici nei due partiti, … e C. Bellieni, F. Fancello ed E., Lussu, tre autentici sardisti, portarono, fin dal 1921, nel campo nazionale i principi federalistici ed autonomistici del partito sardo. Noi continueremo la nostra strada; la continueremo in cordiale accordo con i nuovi amici politici che lealmente verranno e lealmente accoglieremo nelle nostre file, animati tutti dalla speranza che la Sardegna, con tutte le altre regioni italiane – e cioè la Patria – sorga, dopo tanto sangue, ad una vita che sia veramente di libertà e di giustizia sociale per tutti… continueremo la battaglia a fianco di Emilio Lussu e di Francesco Fancello». 4 – Seconda appendice. Il messaggio del presidente dell’associazione “Cesare Pintus” di Cagliari, Marcello Tuveri, al presidente dell’associazione “Raichinas e Chimas” Billia Fancello Cagliari, 24/05/2000 Caro Presidente, mentre ti ringrazio dell’invito a partecipare al convegno che meritoriamente la tua associazione ha dedicato alla grande figura di Francesco Fancello, ho il rammarico di comunicare la mia impossibilità ad intervenire, così come quella dell’amico Gianfranco Murtas che, primo fra tutti, la figura di Fancello ha esplorato e portato alla conoscenza del grande pubblico attraverso diverse pregevoli pubblicazioni (tremila pagine!) sul fenomeno del “SardoAzionismo”. L’associazione che presiedo in qualche modo si gemella, idealmente, alla tua in questa occasione tesa a rendere il giusto onore ad una delle maggiori personalità della cultura democratica e dell’impegno politico antifascista e riformatore, che forse come nessuna altra ha saputo legare, sul piano della elaborazione teorica, il regionalismo di matrice sardista ai valori universali di Giustizia e Libertà e dell’Azionismo. Ciò egli fece, posso dire, fin dai primissimi anni ’20, all’interno della redazione di Volontà, la bella rivista d’ispirazione salveminiana affidata alla direzione di Vincenzo Torraca, la quale, attraverso l’esperienza, purtroppo subito abortita, del partito-movimento di “Rinnovamento”, puntava alla realizzazione del cosiddetto Partito Italiano d’Azione quale aggregazione delle formazioni autonomiste d’origine combattentistica presenti nelle diverse regioni d’Italia. Ciò anche nella collaborazione alla zuccariniana Critica Politica, che saldava le posizioni del primo PSd’A a quelle del repubblicanesimo federalista, e dove tornava la firma di “Cino d’Oristano” già apparsa con frequenza sul Solco allora quotidiano. La stessa partecipazione, fin dall’inizio, all’esperienza clandestina di Giustizia e Libertà, unitamente a Stefano Siglienti, confermava quella linea di stretta parentela ideale e anche ideologica fra il regionalismo sardista delle origini e la funzione di avanguardia democratica del movimento fondato da Lussu e Rosselli all’insegna di un socialismo non classista e non burocratico. Nell’ambito del movimento di Giustizia e Libertà e poi dopo del Partito d’Azione, Francesco Fancello condivise la stessa vicenda umana e politica di uomini come il nostro Cesare Pintus, del quale fu compagno di carcere, dopo che di processo. E ancora qui mi è caro ricordare o sottolineare la qualità della presenza dei sardi educati alla scuola mazziniana nella lotta per restituire all’Italia la sua libertà conculcata dal fascismo in combutta con la monarchia e affidarle finalmente statuti repubblicani. Questi i sentimenti che mi suscita, immediati, il convegno che tu, con tanto merito, ed i tuoi collaboratori avete organizzato intendendo pagare un debito con la grande memoria di Francesco Fancello. Auguri carissimi di buon lavoro ed abbiti un caldo abbraccio.
Gianfranco Murtas - 05/01/2012
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