di Margherita Mugoni |
Lettura critica di un gruppo
di opere di Costantino Nivola, titolate: La madre sarda e la speranza del figlio
meraviglioso
– marmo nero – marmo bianco – 1986. Costantino
(Antine) Nivola nato ad Orani (NU) 5
luglio 1911 –
morto a Long Island (USA) 6 maggio 1988. L’artista e le opere prescelte sono da considerarsi nella valenza
ermeneutica di uno studio che, attivato dal momento paleolitico, come scintilla aurorale del pensiero reso forma
leggibile nella materia scolpita, si conclude nella soluzione esiziale della
“astrazione comprensibile” del concetto di madre e dea madre, come
applicazione tangibile e concreta della filosofia esistenziale alla pietra,
la quale si trasforma in elemento
comunicativo di messaggi esegetici densi di metafore intellettuali. L’idea di eterna riproduzione
trasfusa nel candore e nello scuro della materia, pare emettere un
messaggio. Un messaggio circolare e perenne, che si rinnova di continuo nella
luce del bianco o nel buio del nero marmo. Il plastico richiamo lapideo evoca
misteri risolti nell’accettazione della meraviglia della continua creazione
dell’uomo. “La speranza del figlio
meraviglioso”. E’ l’attesa della creatura carne della propria carne, che desterà
sensi di stupore, non solo nella comunità, ma ormai già nell’universo mondo. L’opera d’arte ha raggiunto e superato rielaborandoli, i messaggi dei
millenni. Tutto ora è proposto in una nuova prospettiva che eredita
esperienze risolutive di concetti settoriali. Nell’opera dell’artista sardo, tutta la epocale filosofia si manifesta
in espressioni aperte, leggibili, rotonde, universali, onnicomprensive. E’ in essa la sapienza colta di chi, facitore immenso di sogni di
pietra, rende alla materia la funzione di maestra delle parole e dei pensieri
non detti. Le idee sono impresse e lisciate, polite nel chiaro e nello scuro
marmoreo: candore e oscurità
cromatica che prospettano la sacralità della riproduzione. Ora tutto è concluso. Il momento storico richiede meditazione e silenzio ammirato. I
millenni hanno dilavato i concetti. Adesso questi sono fissati nella sacra rappresentazione laica della
scultura. La madre è terra. E’ sacra e profana ad un tempo. E’ madre universale che tutto
comprende e tutto restituisce a chi sa guardare nella sua epifania. L’idea ha
sostanziato la materia. La metamorfosi è verità. Là dove verità nelle venature leggermente scurite del grigio che
ferisce il bagliore splendente della pietra, sta a incidere la terrena
manifestazione della perfetta imperfezione del concetto applicato alla
plastica. L’interpretazione che, nel concreto, Costantino Nivola rende al
concetto di “Madre”, è senz’altro una sintesi frutto di elaborazione
culturale che parte dai millenni del Paleolitico, per giungere ai nostri
giorni dando una serie di versioni lapidee che concretizzano nell’astrazione
della morfè, l’idea tutta personale e direi, visceralmente felice della
donna-madre. Il materiale utilizzato, marmo bianco, nero o travertino avorio,
innanzitutto. Funzionale nel cromatismo a evidenziare e significare lo
splendore della soluzione ideologica:
si passa dalla teoria del nitore dell’ ”alma mater” che tutta rifulge
nella azione nutrizionale del colore bianco e avorio, all’ “atra mater” che,
nella notte, porta avanti il mondo del concepimento, attraverso l’utilizzo
del marmo nero raffinatissimo. L’effigie fisica è idealizzata in una
configurazione rotondeggiante, press’a poco ovoidale: il capo reso attraverso una lamina (di
memoria cicladica) sottile, piatta, piccola in guisa di cerchio oblungo
collocato in alto al centro della figura. In effetti, è l’unica sporgenza,
come staccata dal resto dell’opera, ma pur tuttavia, inserita armoniosamente
nell’insieme. Le mammelle sono appena accennate nella parte alta del
monumento: due piccole sporgenze
quasi solo capezzoli adolescenziali per una mamma pubescente felice e stupita
del miracolo che, al centro del soma si sta concretizzando: un morbidissimo uovo contiene al suo
interno “la speranza del figlio meraviglioso”; non esiste più il bisogno della rappresentazione concreta della
dea madre steatopigia paleolitica e neolitica. Ora la conoscenza si è fatta
coscienza e la materia può esprimersi attraverso linee che cedono tutto lo
spazio all’astrattismo ideologico. Non più figurazioni manifeste della realtà fisica, ma applicazione
della geometria circolare per richiamare le fattezze corporee: la scultura è tutta improntata alla
trasfigurazione della visione espressa come sagoma presumibile di collo,
braccia, tronco, gambe inglobati, eppure prominenti dalla massa lapidea con
la forza iconografica della fantasia contemplativa. La scultura, ritta sul basamento, è un richiamo alla meditazione
ammirata che si fa mistica, nella considerazione del monumento, esaminato in
opera concava, ed osservato attentamente ponendosi di fronte ad esso. La stessa linea cava della statua pare volere abbracciare lo
spettatore, in un conforto amorevole e silenzioso. Lo stupore del miracolo del parto si rivela nel modello della madre
supina, terminante anch’essa, ma in modo ancora più pregnante, se possibile, rispetto alle
iconografie ortostatiche, con un triangolo rialzato e quasi arricciato nella
estremità inferiore centrale, atto a figurare la conclusione del soma nella
sua umanizzazione sessuata. L’immediato impatto con l’opera è quello di grandissima, muta
venerazione commossa. Si ha l’impressione di vedere la vita pulsante nella pietra e la
fantasia porta a presupporre la nascita che il pensiero suggerisce con gli
“occhi di dentro”. L’anima si fa immaginazione di una concretezza che solo la perfezione
polita del marmo riesce a rendere attraverso la grandezza del segno del
genio. |
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