di Marcello Tuveri 10.11.2001 |
Conobbi Salvatore Ghirra negli anni ’60 davanti al Palazzo
della Regione in Viale Trento, a Cagliari. Il Piazzale era zeppo di minatori,
di dirigenti sindacali e di curiosi. Salvatore era in mezzo ai lavoratori
della C.G.I.L. in attesa di essere ricevuto, non ricordo più, se dal
Presidente o dall’Assessore all’Industria della Regione. Si trattava
dell’ennesimo sciopero nella lunga e mai conclusa storia della Carbosarda.
Conoscevo di nome il Segretario della Camera del Lavoro di Carbonia. Sapevo
delle sue qualità organizzative e della stima di cui godeva tra i lavoratori
di quella non facile città. Allora ero dirigente sindacale della C.I.S.L. e seguivo i
problemi del lavoro con la passione del non professionista. Sapevo che il
giorno prima della manifestazione a Carbonia vi erano stati disordini e forse
– come era frequente – qualche “carica” della “Celere”. Nel parlarne, senza
formalismi, con Salvatore gli chiesi come era andata in quella piazza Roma
famosa per comizi, manifestazioni e assembramenti popolari. Invece di esaltare la lotta e l’uso della forza, Salvatore
esordì dicendo che si era evitato i conflitto e la violenza grazie al comportamento
responsabile del Commissario di P.S.. Ne rimasi un po’ sorpreso. Nel
discorrere non echeggiavano gli stilemi consueti della polemica avversione
alla Polizia dello Stato borghese. Qualche anno più tardi lo ritrovai a Chianciano Terme in uno
dei pochi giorni di riposo che si concedeva con la moglie Fulvia. Appariva
più teso alla riflessione che alle divagazioni che offrono le città di acque.
Ricordo le sue parole:”stessi negozi, stesse facce di sofferenti gioiosi,
stessi tappeti”. Lamentava la mancanza dell’informazione perché lì non
arrivava la stampa sarda. Frequentava colleghi dirigenti sindacali e di
partito con la sua solita discrezione e garbo. Senza essere morbido i suoi
giudizi non erano mai imposizioni . Ascoltava molto, valutava con lucidità e coerenza le posizioni
altrui, a volte la sua felice espressività si manifestava in modo icastico.
Quel che sorprendeva, e mi sorprese ancora nel futuro della nostra forte
amicizia e della leale e reciproca collaborazione, era la assenza totale del
dogmatismo, l’odio per la violenza. Era contro la guerra per la guerra, contro le cose inutili
all’uomo ed al lavoratore. La base, il background, di questi suoi modi era
l’antica civiltà contadina unita alla razionalità operaia della società
industriale. Una seria cultura politica e sindacale, studi classici senza
ipertrofie umanistiche e letterarie, l’esperienza militare nel periodo
bellico, la cura per ogni problema della classe operaia, l’attaccamento alla
famiglia ed ai valori etici della stessa. I suoi modelli si ritrovavano nel versante del più alto rigore
politico e sociale, nella sobrietà del fare: Giuseppe Di Vittorio, Emilio
Lussu, Velio Spano, Vittorio Foa, i militanti del lungo viaggio dentro il
partito-chiesa del P.C.I.. E quando ne uscì non rinnegò nessuno, né sfoggiò
riserve e posizioni di minoranza perdente come usa ora tra le correnti dei
tanti partiti della sinistra e della destra. Non conobbe mai nei confronti
degli avversari l’uso del dileggio e dell’ingiuria. Anni dopo, come Segretario regionale del Partito Repubblicano
Italiano incontrò subito le simpatie e l’attenzione non solo della base, ma
anche degli uomini migliori della Direzione Nazionale, con i quali dialogava
alla pari. Ricordo quanto si doleva di aver sostituito nella carica di Segretario
un amico comune. “Forse gli ho fatto del male” mi diceva con franchezza e
sensibilità umana. Era già stato, prima dell’incarico nel P.R.I., consigliere
provinciale e consigliere regionale. Ma senza alcuna albagia accettò di fare
il consigliere comunale di Cagliari. Con il suo consueto senso di concretezza
politica affrontò problemi difficili come la destinazione d’uso dell’area
dell’ex aeroporto di Monserrato, e ne propose le soluzioni pratiche. Nel P.R.I. ci scontrammo insieme con chi voleva fare, e poi
fece, di quel piccolo partito uno strumento di potere personale e familiare.
Salvatore non amava le consorterie, non tollerava il clientelismo, ed era
nemico di ogni forma di strumentalizzazione. Uscito dal Partito Repubblicano
senza nessuna di quelle forme consuete a chi fa politica di demonizzazione
per gli avversari, fondò con Gianfranco Murtas, Lello Puddu, Giovanni Corrao,
ed altri, la Associazione politico-culturale “Cesare Pintus”. Adottammo il
principio mazziniano che Cesare Pintus aveva posto alla base della sua
testimonianza come Sindaco di Cagliari: “La politica senza morale è
banditismo”. Nelle molteplici occasioni di dibattito sui più scottanti temi
politici e sociali, nella attività editoriale di molte pubblicazioni
storiche, aveva il senso del futuro, non viveva mai di nostalgie, operava
senza nessuna pretesa pedagogica nonostante la sua lunga e sofferta
esperienza. Nella logica di questa Associazione democratica e laica si buttò
a corpo morto nella campagna per i referendum nelle riforme istituzionali, la
abolizione della proporzionale e della molteplicità delle preferenze. Anche
lì, nella pluralità degli indirizzi, fu punto di riferimento costante per
tutti per la chiarezza e l’onestà del sentire. Nel Consiglio direttivo e nelle assemblee dell’Associazione su
ogni argomento in esame si formava, in modo problematico una opinione
motivata e mai estemporanea, rifuggiva dalle divagazioni e da ogni forma di
pettegolezzo aneddotico. La sua fedeltà alla verità ed alla giustizia faceva eco alla coerenza
ed alla lealtà nel comportamento verso gli altri. Nonostante il suo rapporto
dialettico con le controparti, non serbava avversione preconcetta. Malgrado
avesse vissuto in quelle strutture, a volte macchinose a volte stritolanti,
quali sono il sindacato ed i partiti, non ne sentiva il peso della vittima. Era dotato di una sensibilità umana che lo faceva avvertito
dei problemi altrui con una capacità o introspettiva veramente eccezionale.
Nonostante qualche rugosità del tratto, era dominante in lui l’umanità del
rapporto. La capacità di comprendere, la apertura verso il nuovo nella
società, nella cultura, nella vita. Non credeva nella ripetibilità del passato, alla
trasmissibilità automatica delle esperienze. Viveva la mutabilità della
storia che lo circondava con lucida consapevolezza. Non concepiva
l’accantonamento dei problemi, il vezzo di risolvere i problemi attraverso
personalismo. In lui si ritrovava quel costume fatto di rigore morale, di
ironia, di rispetto per gli altri, che è una costante caratteristica dei
migliori sardi. Si può dire – come si usa nei nostri paesi in segno di
rispetto – che in lui c’era veramente l’uomo. |