dal sito www.unionesarda.it/           quotidiano del 30/12/2000


Da leader dei minatori a dirigente politico

Addio a un combattente

Salvatore Ghirra, la vita come impegno

 

 

La sua tenacia, forse, era legata alla sua statura. Non è maistato alto, Salvatore Ghirra, né da bambino, quando sedeva sui banchi delle elementari di Benetutti, né da ragazzo, quando frequentava il ginnasio a Santulussurgiu o il liceo a Nuoro. Per questo, chissà, faceva di tutto per farsi valere. Piccolo, tenace e testardo. Tanto da guidare, poco più che ventenne, (era del ’23) i contadini e i pastori di Benetutti nelle lotte del dopoguerra contro i proprietari terrieri. Tanto da sospendere l’idea di laurearsi in legge per seguire una strada tutta in salita che lo portava a Carbonia.

     È il 1948 e Salvatore Ghirra, a 25 anni, comincia la sua lunga carriera sindacale, alla guida dei minatori del Sulcis Iglesiente e del Guspinese. Sono anni duri, condivisi con la giovanissima moglie Fulvia, e i tre bambini che verranno, nella “trincea” di Carbonia. Anni fatti di molti sacrifici, di forti tensioni, di grandi entusiasmi. Protagonista, con Pietro Cocco, Renato Mistroni, Antonio Sellitti e altri compagni, di estenuanti battaglie per il lavoro, per un salario equo, per una vita più dignitosa, dopo anni di lotte e di occupazioni, diventa segretario della Camera del Lavoro di Carbonia e poi di Cagliari. Per le lotte politiche e sindacali sono tempi esaltanti: nelle piazze di Carbonia è facile trovare gli uomini di punta della sinistra sindacale e politica italiana, da Vittoro Foa a Pietro Nenni, da Palmiro Togliatti a Gian Carlo Pajetta. Velio Spano e Emilio Lussu sono i sardi ai quali Ghirra si sente più legato. Giuseppe Di Vittorio il modello da seguire. È proprio il leader della Cgil del dopoguerra, vedendolo in azione, a pronosticare per lui un futuro da sindacalista. Salvatore Ghirra amava ripeterlo negli ultimi anni della sua vita. Gran raccontatore, dotato di una memoria di ferro, oltre che di una prepotente voglia di parlare di sé, tornava spesso agli anni giovanili. Senza inutili rimpianti, con la serena consapevolezza che un’epoca storica si era chiusa, e che tuttavia non si era esaurita la carica ideale che aveva portato con sé.

     Ghirra ha trentotto anni quando nel ’61 viene eletto consigliere regionale nelle liste del Pci. Lo sarà per due legislature. Un uomo d’azione prestato all’arte del possibile, un politico fine e colto che non dimentica di essere nato sindacalista. A metà degli anni Sessanta matura una dolorosa rottura con il Pci. È un periodo buio, fatto di incomprensioni e di equivoci. Il dolore più grande è il distacco dall’attività sindacale. Entra nel Partito repubblicano, diventa amico di Giovanni Spadolini, al quale lo lega una grande ammirazione, negli anni Ottanta è segretario regionale e poi consigliere comunale a Cagliari.

     È cambiata la postazione, ma la battaglia ideale è sempre la stessa. Contro la commistione tra politica e affari, contro la degenerazione della vita interna dei partiti. Fra i promotori del movimento per le riforme, organizza la raccolta delle firme ai referendum nazionali e regionali per il rinnovamento della politica, la riduzione del numero dei consiglieri regionali, la preferenza unica, l’elezione diretta del presidente della Regione.

    Diventa presidente dell’Associazione politico-culturale “Cesare Pintus”. Da esperto delle leggi e dei contratti sulla sanità pubblica e privata è per anni dirigente dell’associazione dell’ospedalità privata e amministratore di case di cura.

Quando nasce il Partito dei democratici della sinistra è chiamato a far parte della Direzione. L’entusiasmo e la voglia di impegnarsi di nuovo in prima persona sono gli stessi degli anni 50. Ma dalle lotte in miniera è passata una vita, e il cuore che trent’anni fa aveva dato i primi segni di stanchezza si fa sentire.

     Ghirra decide due anni fa di sottoporsi a un delicato intervento. Il cuore resiste, generoso sino alla fine, ma il risveglio, per il vecchio, testardo lottatore, diventa un inesorabile distacco dalla vita, e dalle persone che più ha amato, la moglie, i figli Giancarlo, nostro collega, Maria Eugenia, Antonio, le cinque nipoti. «Non si può dire che nonno Tore non ci abbia lasciato valori forti», diceva ieri la figlia nel ricordarlo con dolcezza. E aggiungeva: «Ha sempre avuto un grande rispetto per tutti. Anche quando se la prendeva con l’infermiere. Lo insolentiva, ma dandogli del lei».

                                                                                           Maria Paola Masala